Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  marzo 17 Lunedì calendario

ADDIO A CESARE SEGRE GENIO TIMIDO DELLA FILOLOGIA


Quando se ne va un amico, un grande amico, si pensa subito alla sua insostituibilità umana. E visto che Cesare Segre era un mio amico, mi scuso, ma non posso che scriverne in prima persona.
L’ho conosciuto nel 1975 a Pavia, dove insegnava da anni Filologia romanza. Aveva 47 anni, ed era già un maestro di fama internazionale, filologo tra i maggiori e semiologo tra i primi. Teneva un corso sul Decameron , in cattedra parlava con una voce flebile già allora, e con una cadenza regolare, senza inarcamenti della voce, il che ce lo faceva apparire molto più anziano di quel che era. Leggeva invisibili appunti su foglietti minuscoli, mettendo in campo, senza darlo a vedere, tutta la sua conoscenza aggiornatissima, non solo sulla letteratura medievale e sulle fonti classiche, ma anche sullo strutturalismo e sulle acquisizioni ultime. Citava Propp, Jakobson e Lévi-Strauss. Aveva avviato dal ‘66, con Maria Corti, d’Arco Silvio Avalle e Dante Isella, una rivista di critica pionieristica, «Strumenti critici». Cesare Segre era l’opposto di Isella e Corti nel proporsi agli studenti: non faceva nulla per piacere. Tutto il suo fascino stava in quel che diceva, non nel come lo diceva. Dunque, per apprezzarne la qualità, bisognava rileggere gli appunti a casa, con calma, e solo da quella lettura veniva fuori tutta la straordinaria rete di collegamenti e di richiami: solo allora l’entusiasmo dei suoi allievi si poteva accendere. Era un suo cruccio, il non essersi saputo «gestire» meglio. Lo diceva anche ultimamente. Era quello il suo carattere, compassato, qualcuno diceva freddo. Bisognava conoscerlo bene per capire che era solo timidezza. La stessa timidezza che attribuiva a un suo grande amico, Giulio Einaudi, il quale però la esprimeva con una specie di alterigia a tratti insopportabile.
Segre è nato a Verzuolo (Cuneo) il 4 aprile 1928 da padre saluzzese, Franchino, e da madre milanese, Vittorina Cases: a Saluzzo il nonno paterno ha una bottega da orefice di fronte al duomo, mentre il padre è impiegato nella cartiera Burgo, dove verrà promosso dirigente. Cesare frequenta la scuola elementare ebraica («disegnavo molto, studiavo poco, ma ero sempre tra i primi»). Quando i figli sono tre (con la nascita di Adriana e Carlo), la famiglia vive il terrore delle perse-cuzioni antiebraiche, che la costringono a sfollare ad Acqui Terme e poi a Giaveno. Dopo l’8 settembre, il ragazzo, che nel frattempo ha maturato una passione per la storia dell’arte, rimarrà recluso nell’istituto salesiano della Madonna dei Laghi di Avigliana, in val di Susa, dove è stato portato in bicicletta da don Biagio, un amico di famiglia. A Giaveno vive anche un suo prozio (fratello della nonna paterna), il grande filologo Santorre Debenedetti, pioniere dello studio delle varianti d’autore applicato soprattutto su Ariosto. Cesare, ancora adolescente, fa la spola in bicicletta, per raggiungere clandestinamente i familiari.
Dopo la guerra diventa una specie di assistente privato dello zio, schedando varianti su varianti, collazionando manoscritti e facendo spogli linguistici (individuare le occorrenze dell’accusativo alla greca nell’Eneide era stato uno dei suoi primi compiti). È ancora uno studente di liceo e già lavora in una delle migliori botteghe filologiche del tempo. Morto Debenedetti (1948), incontra a Torino, dove ormai risiede con la famiglia, lo storico della lingua Benvenuto Terracini, suo secondo maestro, con il quale si laurea con una tesi sulla sintassi dei primi prosatori italiani. Terracini apre al giovanissimo «filologo» un orizzonte nuovo, tra stilistica e linguistica, rivelandogli connessioni impreviste. Ed è alla confluenza tra queste acquisizioni precocissime che Segre lavorerà instancabilmente per una vita, aggiungendovi una passione, ancora nuova in Italia, per lo strutturalismo e per la teoria della letteratura.
Il terzo maestro, quasi inevitabile, è Gianfranco Contini, conosciuto già nel ’48, che avrebbe seguito e indirizzato i suoi primi passi accademici e con il quale poi lavorerà nel grande laboratorio intellettuale dei Poeti del Duecento , l’antologia che Contini stava approntando per la Ricciardi di Raffaele Mattioli. Nel ’50, Segre si trasferisce a Milano con la famiglia, in piazza Bertarelli, una casa abitata dalla famiglia Manzoni dopo la morte di Alessandro. Lì conosce Montale, e incontra regolarmente, tra gli altri, Mattioli, Isella e Maria Corti, con la quale avrà un legame sentimentale per quasi due decenni. Il sodalizio intellettuale durerà fino alla morte di lei (2002). Milano diventa la sua città, mentre a Torino è la sua casa editrice: di Einaudi è consulente, frequentatore dei famosi mercoledì, amico dell’editore e del suo braccio destro Roberto Cerati, di Calvino, di Bollati... Da ragazzino un giorno incontrò Pavese in redazione, grazie allo zio Debenedetti, che fu tra i fondatori dello Struzzo con Leone Ginzburg. La sua sede accademica, dopo l’incarico in Filologia romanza a Trieste (1954-56), è stata Pavia, fino alla pensione.
Lo studioso si muove nella letteratura pressoché a 360 gradi, come dimostra il «Meridiano» Mondadori, con l’Opera critica , appena uscito: la sua gioia, immensa, delle ultime settimane. Sfibrato dalla malattia, ha voluto invitare un ristretto numero di amici a casa sua per festeggiarla. Diversissimo dai suoi maestri e anche dai suoi compagni di strada per la varietà linguistico-geografica e per l’estensione cronologica che ha frequentato, per poliedricità di sguardo e di approccio, per la capacità di contemperare prospettive diverse, infine per la chiarezza dello stile, alieno a ogni vezzo accademico e a ogni «continismo» di maniera. Dopo l’apprendistato giovanile, l’Orlando furioso sarebbe rimasta la passione principe del filologo, a cui si deve la cura di tutte le opere ariostesche, fino al Rimario diacronico dell’Orlando uscito nel 2012, dopo decenni di fatiche. La sapienza filologica lo porta ad approntare anche le edizioni critiche della Chanson de Roland e del Bestiario amoroso di Richard de Fournival, pietre miliari della ricostruzione ecdotica. Ma la coincidenza dell’esperienza filologica e di quella stilistica gli permette di offrire studi pionieristici sulla poesia e sulla prosa delle origini (l’antologia ricciardiana La prosa del Duecento è del ‘59 , preceduta da quella dei Volgarizzamenti medievali , 1953). Non manca di occuparsi dei romances spagnoli, sempre animato da quell’«atteggiamento sperimentale» e per niente dogmatico che Gian Luigi Beccaria ha messo in evidenza introducendo il «Meridiano».
Segre si definiva philologus in aeternum . Dunque è normale che per lui la semiotica venisse dopo lo studio puntuale della tradizione del testo, al punto che a un allievo, come me, che trovò il coraggio di chiedergli la tesi, raramente proponeva scappatoie strutturaliste, ma chiedeva di affrontare edizioni critiche (pura ecdotica, come direbbero gli esperti) di impegno spesso immane (personalmente mi ritrovai alle prese con il volgarizzamento duecentesco del De regimine principum di Egidio Romano: 800 pagine di sola trascrizione testuale!). La severità era uno dei suoi tanti meriti. Ciò non toglie che quel che poi l’avrebbe interessato è il nesso tra lingua, cultura e società a ogni altezza temporale e spaziale. Ciò che produce una raffica di saggi, raccolti in volumi capaci di anticipare sempre i tempi, da I segni e la critica (1969) a Semiotica filologica (1979), a Intrecci di voci (1991) e oltre, fino a Critica e critici (2012), in cui Segre mette in gioco lo statuto della critica, tra accademismo esasperato e sciatterie giornalistiche, due estremi che non sopportava.
Lettore inquieto, e perciò dialogante con tutto e con tutti (anche con critici estremamente lontani dalla sua vocazione «iperrazionalistica», come Roland Barthes), ha sposato la critica formale (sulle orme di Jakobson e degli altri russi fino a Lotman: di Jakobson fu amico e ricordava una notte di nebbia fittissima in auto con lui, che chiacchierava come nulla fosse, di ritorno da Pavia) senza farne un’ortodossia metodologica, anzi superandola dopo averne ricavato il massimo dei risultati. Il testo letterario è sempre, per Segre, nonostante gli sforzi di modellizzazione e la capacità di disegnare ampie tipologie, una creatura bifronte di forme e contenuti, frutto di un’esperienza vissuta. Ha «osato» spingersi lungo il filone «espressionistico» avvistato da Contini, ma svoltando poi verso altri lidi. Sempre da protagonista ha messo a frutto la lezione di Michail Bachtin sulla narrazione polifonica come pluralità di registri, di strati sociali, di punti di vista, valorizzando il livello anche sociologico. Ha elaborato le nozioni di «intertestualità» e «interdiscorsività», mostrandone la fertilità nella lettura dei testi medievali, ma anche delle opere di Carlo Emilio Gadda, di Vincenzo Consolo, di Guido Morselli, di Luigi Meneghello, e spaziando anche da Cervantes a Beckett con un dominio di mezzi che nessuno della sua generazione (non solo in Italia) ha avuto.
Ha voluto indagare negli «altri mondi», con un volume che raccoglie saggi sulle opere che mettono in scena l’aldilà o realtà alternative, si tratti di luoghi di morte o di follia. Si è spinto verso il teatro e verso il linguaggio visivo: «Il mio interesse per l’arte — ha scritto — precede, nella mia biografia, quello per la letteratura». La tentazione di virare verso la critica d’arte è sempre stata forte. Ma negli ultimi anni, quel che più lo interessava era, letteratura o no, la finalità che suggerisce a un artista di mettersi all’opera. Una questione di etica. E di politica. Il mondo intorno, la situazione italiana, il dissesto del Paese e in generale dell’Europa entravano sempre di più nei suoi discorsi quando ci si incontrava a cena con sua moglie, Marisa Meneghetti (allieva di Gianfranco Folena e filologa romanza anche lei), e con gli amici, primi tra tutti Corrado Stajano e Giovanna Borgese.
Ricordava volentieri la sua amicizia con Primo Levi e non nascondeva il dolore per la sua morte voluta, evocava di continuo l’incubo notturno ricorrente di trovarsi su un treno diretto ad Auschwitz (dove erano finiti cinque tra suoi zii e cugini), esprimeva senza riserve la passione assoluta per Kafka, non riusciva a sottrarsi alla depressione che negli ultimi tempi non lo abbandonava (specie dopo la morte del fratello Carlo), ritornava spesso sulla convinzione di sentirsi un asociale. «Apolitico con la passione per la politica» e con una grande amarezza, dopo le speranze uscite dalla Liberazione, Cesare Segre non poteva che approdare al tema ultimo dell’etica in letteratura: «Ho cominciato a scrivere su Primo Levi solo dopo la sua morte. È proprio verso la fine degli anni Ottanta che mi sono sentito in grado di esprimermi sulla Shoah e sui suoi testimoni». In uno dei suoi ultimi scritti per il «Corriere della Sera», a cui collaborava (da maestro anche come «giornalista») dall’88, si interrogava sul pericolo terribile — per lui un’angoscia — di perdere la memoria collettiva dell’orrore una volta morti i suoi testimoni diretti. Chi ha avuto il privilegio e la fortuna di conoscere Segre non correrà mai questo rischio. Grazie, Cesare, non solo per questo.