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 2014  marzo 16 Domenica calendario

IL VOTO FA MALE ALLA DEMOCRAZIA. SORTEGGIAMO


La sfida delle donne tra la socialista Anne Hidalgo e Nathalie Kosciusko-Morizet (centrodestra) per diventare sindaco di Parigi è il momento mediaticamente più appassionante; poi c’è il valore di test nazionale, per vedere se la sinistra del presidente François Hollande riesce a risalire in popolarità. L’opposizione dell’Ump, dilaniata dalle lotte interne, potrà finalmente contarsi, e tutti attendono al varco il Front national: quanti comuni alla fine saranno governati dagli uomini e dalle donne di Marine Le Pen?
Domenica prossima, 23 marzo, in Francia si tiene il primo turno delle elezioni municipali (il ballottaggio sette giorni dopo), e già ci si prepara alle Europee di maggio. I francesi sono chiamati alle urne e di questo trattano talk show, comizi, dibattiti e appelli. Ma i sempre più evocati e corteggiati elettori, alla fine, a votare non vanno. Due anni fa, al secondo turno delle legislative francesi, i non votanti furono il 43,71% , un record (e pure in Italia, alle ultime politiche, l’astensione ha raggiunto il 24,8% alla Camera e il 24,9% al Senato, ossia il massimo storico dalla nascita della Repubblica).

In questi giorni pre-consultazione le pubblicità-progresso a Parigi mettono le mani avanti: accanto alla foto di una scheda elettorale si legge la gigantesca frase «arma di democrazia di massa». Sarà vero? E se lo è, perché è diventato necessario ricordarlo a cittadini sempre più riluttanti?
«Che cosa è andato storto con la democrazia», si chiede l’«Economist » in copertina, e lo storico belga David Van Reybrouck offre la sua risposta: le elezioni. O meglio la loro sopravvalutazione, il considerarle una sorta di sinonimo della democrazia. Sostanzialmente l’unico modo attraverso il quale la democrazia può essere esercitata.
«Contro le elezioni» è il suo nuovo saggio. Il titolo ha il merito di attirare l’attenzione, ma forse le conviene chiarire se lei è per caso un sostenitore delle dittature.
«No non lo sono affatto, ovviamente, anzi mi considero un fervente democratico. Ma siamo tutti diventati dei fondamentalisti delle elezioni e abbiamo perso di vista la democrazia. L’abbiamo visto anche con le primavere arabe: la rivolta dell’Egitto ha portato con sé elezioni, ma non una democrazia accettabile».
Sono in crisi anche le democrazie più antiche, quelle occidentali.
«Siamo alle prese con la democrazia da circa 3 mila anni, ma lo strumento delle elezioni lo usiamo da soli 250. Le elezioni sono state inventate, dopo le rivoluzioni americana e francese, non certo per fare avanzare la democrazia, ma semmai per arrestare e controllare i suoi progressi. Il voto ha permesso di sostituire a un’aristocrazia ereditaria una nuova aristocrazia elettiva».
Non starà mica rievocando le critiche sovietiche alla «falsa democrazia borghese» in favore della vera democrazia, quella proletaria?
«No, per niente, anche se da qualche anno mi arrivano ogni genere di accuse, da destra e da sinistra. Questo libro nasce dopo l’esperienza del movimento G1000 che ho contribuito a fondare in Belgio nel 2011-2012, unendo fiamminghi e valloni alla ricerca di una migliore organizzazione della democrazia nel nostro Paese. Non sono un bolscevico. Semplicemente prendo atto che le elezioni hanno portato a vere iniezioni di democrazia fintanto che si allargava il suffragio, esteso a tutti gli uomini e poi a tutte le donne. Da decenni ormai il percorso si è di fatto invertito e, soprattutto in Occidente, i cittadini sono stanchi di una partecipazione fondata quasi solo sul voto. Nel mio libro precedente Congo (in Italia lo pubblicherà Feltrinelli, ndr ) racconto la colonizzazione belga in Africa e poi i sacrifici immensi di tanti che hanno perso la vita per ottenere libere elezioni. Vedere come questo strumento venga sempre di più snobbato in Occidente deve far riflettere e ha poco senso gettare tutta la responsabilità su milioni di cittadini che legittimamente non credono più a quest’organizzazione della società e della politica».
Lei nel suo libro parla di «sindrome di stanchezza democratica», individuando quattro diagnosi possibili: colpa dei politici, della democrazia, della democrazia rappresentativa o della democrazia rappresentativa elettiva.
«A dare la colpa ai politici sono i populisti. Da Silvio Berlusconi a Geert Wilders e Marine Le Pen ai nuovi arrivati Nigel Farage o Beppe Grillo. Chi critica la democrazia invece vanta i successi della tecnocrazia, evidenti in Cina per esempio, secondo uno schema opposto rispetto ai populisti: invece di privilegiare la legittimità, i tecnocrati puntano all’efficenza. Oppure, ci sono quelli che incolpano la democrazia rappresentativa, come fanno i movimenti come We are the 99% e gli Occupiers americani o gli Indignados. Io invece me la prendo con le elezioni, o meglio con la pigrizia di ridurre tutto al voto. Le elezioni sono il combustibile fossile della politica: un tempo erano in grado di stimolare la democrazia, ma ora provocano problemi giganteschi. Questo non significa che abbia visto con favore la nomina in Italia, da Mario Monti in poi, di presidenti del Consiglio non eletti».

In Italia il Movimento Cinque Stelle parla molto di nuove forme di democrazia grazie alla rete, lei che cosa ne pensa?
«Sono d’accordo sul fatto che la nostra democrazia ottocentesca non sia più adatta ai tempi, ma non condivido le soluzioni che loro propongono».
Qual è allora il suo rimedio?
«Seguo con interesse alcuni esperimenti di estrazione a sorte, che negli ultimi anni sono stati condotti un po’ ovunque nel mondo, dalla provincia canadese della British Columbia all’Islanda al Texas a, più recentemente, l’Irlanda. Qui si è appena conclusa la Convenzione costituzionale, che ha visto collaborare per un anno 66 cittadini tirati a sorte con 33 eletti. Quest’assemblea inedita è riuscita ad avviare senza scossoni la riforma di 8 articoli della Costituzione irlandese, affrontando anche la questione del matrimonio omosessuale che in Francia ha provocato forti tensioni».
Pensa che introdurre il criterio dell’estrazione a sorte potrebbe funzionare non solo in piccoli Paesi, ma anche in grandi nazioni come Francia o Italia?
«Sarebbe importante almeno accettare il principio, e poi introdurlo gradualmente nelle assemblee locali, affiancandolo agli strumenti classici di democrazia elettiva».
Quale competenza potrebbero avere persone chiamate a deliberare per estrazione a sorte?
«E perché, quale competenza hanno oggi la maggior parte dei deputati nei nostri Parlamenti? I migliori di loro usano la legittimità offerta dallo status di eletti per chiedere informazioni e consigli agli esperti, e infine decidere a ragion veduta. Niente che non potrebbe fare una persona tirata a sorte. Con il vantaggio fondamentale che i cittadini tirati a sorte sarebbero forse più inclini a dare priorità al bene comune, e non alla propria rielezione».
Quali altri studiosi si interessano a questi temi?
«Oltre a Habermas, vorrei citare l’americano James Fishkin e i francesi Bernard Manin e Yves Sintomer. È il momento di pensare a una democrazia deliberativa e non più solo elettiva. Quando John Stuart Mill proponeva il voto alle donne, a metà dell’Ottocento, lo prendevano per pazzo. Le novità non ci devono spaventare».