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 2014  marzo 17 Lunedì calendario

LA GRANDE BELLEZZA DEI MIEI NOVANT’ANNI

Superati i novant’anni e l’implicito funerale che ogni celebrazione collettiva maschera con un applauso, Raffaele La Capria aggira le trappole del quotidiano come ha sempre fatto. Placa le ansie letterarie della portiera del palazzo in cui abita da mezzo secolo rimandando a un indefinito domani dubbi, domande e soluzioni: «Dottore, mi hanno portato questo libro scritto a mano, di cosa si tratta?», «Poi lo vediamo con calma, signora». Agita un tesserino verde, ma nell’urgenza non dimentica i doveri dell’ospite: «Devo andare a prelevare denaro al Bancomat di Piazza Venezia, mentre aspettate posso offrirvi ristoro al bar?». Osserva Piazza Grazioli, gli studenti che fumano all’esterno della biblioteca che confina con il palazzo in cui abita, carabinieri che assopiscono di fronte al sacrario romano di Silvio Berlusconi con la consapevolezza che non tutti i Dudù vengono per nuocere: «A Napoli chiunque ha un soprannome e io non faccio eccezione. Con la sua fantasia, mia madre passò da Raffaele a Dudù, una personcina francese che lei adorava, per puro vezzo. E siccome mia madre, invece di assolvere al ruolo, considerava i suoi bambini giocattoli, io per lei ero specie di balocco e Dudù il nome che aveva scelto in sorte per dilettarcisi».
Raffaele La Capria è un uomo minuto che ha inseguito la vetta della parola senza mai precipitare nel crepaccio di chi inciampa prendendosi sul serio. L’ironia è uno stato dell’essere e sofferenza, ricerca, disperazione o dolore – dice – se sventolati trasmutano immediatamente in parodia wertheriana: «Lo chiamo lo stile dell’anatra. Quando la osservi a pelo d’acqua, nel suo armonico nuotare, dell’incessante lavorìo sottotraccia che le permette di stare a galla non intuisci nulla. Il dovere dello scrittore è lo stesso. Giungere alla semplicità senza mostrare nulla della fatica necessaria per sfiorarla. La zampetta non si deve vedere». Il resto del segreto, fa capire La Capria mentre il sole filtra dalle finestre accarezzando due pingui gatti indisposti a spostarsi e pronti a graffiare al primo avviso di pericolo, è nella pagina. L’unica deputata a parlare, in più di venti libri ora nuovamente raccolti e in imminente uscita primaverile, in un Meridiano. Il secondo dedicato a La Capria, curato come il precedente da Silvio Perrella. Evento raro e ripetizione anomala di un omaggio già concesso in occasione dei suoi ottant’anni. All’epoca La Capria aveva tirato fuori dal cilindro la formula esatta e la giusta distanza per commentare: «Mi vogliono ammazzare».
Un decennio dopo, mentre una parete di coste blu e dorate Mondadori incombe sulla sinistra: «Li vede questi libri? Sono stati scritti da gente che non c’è più. Sono tutti morti. Quando mi hanno detto che avrebbero fatto un Meridiano anche per me ho pensato che senza saperlo, magari, fossi morto anch’io», La Capria rifiuta i bilanci perché ogni tempo ha la sua melodia. Anche se gli amici sono andati via, la musica non è finita: «Dopo aver compiuto 80 anni ho messo in piedi un’attività frenetica. Più avanzavo nell’età, più volevo che qualcuno si ricordasse che ero esistito». Così ha animato cinque libri: «In cui si racconta un’esperienza letteraria, intellettuale, critica e avventurosa» e anteposto come sempre il cuore alla cerebralità: «In un’epoca in cui si preferiscono le ideologie ai sentimenti, ho sempre saputo da che parte stare».
Scelse subito?
«Secondo me la letteratura è trasmettere con le parole un’emozione. A quindici anni, mentre camminavo nella villa comunale di Napoli, con mia grande sorpresa, mi si posò sulla spalle un canarino. Tornai a casa e nel provare a raccontarlo a mia madre, mi resi conto che i termini che avevo scelto non bastavano a descrivere il batticuore e il turbamento di quell’istante. Il rimuginìo di ogni scrittore. Come faccio a commuovere chi mi legge? Come comunico davvero ciò che sento?».
È stata questione di mero esercizio?
«Di ricerca, attesa, riflessione. Le parole sono importanti, tutto sta a come vengono trattate, usate, collocate nella mente di chi si affida a te per trovare una chiave o la salvezza. L’esteriorità fine a se stessa, l’ho sempre avversata e criticata. Quando nel mio romanzo Ferito a morte parlo della “bella giornata”, non parlo di ’O sole mio. Dietro la cartolina c’è altro. Quando parlo di me stesso, parlo di me stesso parlando d’altro e parlo d’altro per parlare anche di me stesso».
Cosa c’è dietro la cartolina?
«L’attesa di una felicità che Napoli promette e che poi non mantiene quasi mai perché nella vita dei napoletani accade esattamente quel che accade in tutte le esistenze. Aspettiamo una felicità che è sempre attraversata dalle ombre, dall’ambiguità che la bellezza trascina sempre con sé. Napoli, il luogo in cui sono nato, è una città bifronte. Come Giano ha un volto limpido e un’altra faccia che turba. Da un lato, brillano la grande simpatia degli abitanti e l’accoglienza disinteressata. Dall’altro c’è chi ti vuole fregare, c’è la camorra, ci sono le nefandezze. Mali che ammorbano tutte le grandi città, ma che a Napoli, dove le differenze di genere sono molto nette, fanno più impressione. La faccia buona è molto buona e quella cattiva, molto cattiva».
Quando Napoli va in cronaca, il suo telefono inizia a squillare.
«Qualunque scusa è buona. La terra dei fuochi, lo scippo, la mozzarella alterata. È tutta una vita che mi giustifico di essere napoletano. È vero che la distanza dall’oggetto, come accade ai pittori, mi permette di leggere senza emotività le dinamiche del luogo d’origine, ma mi chiedo come mai nessuno rinfacci ad Arbasino la sua provenienza lombarda».
Le casalinghe di Voghera difettano di strumenti per leggere il presente?
«Credo sia solo questione di pigrizia. Simile all’inerzia che mi voleva per forza identificare con il Jep Gambardella di Sorrentino e Servillo. Ma a parte l’insuperabile gap dell’altezza, sono molte altre cose a distanziarci. Tra me e quel personaggio non esistono affinità elettive. Se l’avessi incontrato non l’avrei riconosciuto come mio simile. Con Jep avremmo fatto una chiacchierata e nulla più».
Nel suo libro appena uscito su Roma, il cappello bianco di Jep Gambardella, lo sfondo rosso e la parola bellezza però brillano in copertina.
«Ho scritto un libro sugli anni ’60 e sulla città in cui vivo da decenni intitolandolo “Roma” senza mai pensare a “La grande bellezza”. Nel periodo in cui le bozze sono in mano all’editore accade l’imponderabile. Il film ottiene il successo che conosciamo e una bella mattina mi vedo consegnare il libro con un cappellino e la parola bellezza stampati a caratteri cubitali. Mi sono opposto con tutte le mie forze in nome della letteratura. Non volevo che il libro venisse considerato la ruota di scorta di un’altra opera. Ho detto: “Ma scusate, non basta Raffaele La Capria?” e in risposta ho visto facce tristi: “Fai come vuoi, ma così perdi un’occasione”».
Alla fine ha vinto l’editore. Il libro in classifica vola.
«Di fronte a certi obblighi mi sono sempre ritratto. Con il mio secondo libro, Ferito a morte, vinsi il Premio Strega ed ebbi una certa notorietà, ma rifiutai di sfruttarla. Mi dissi “aspetto” e persuaso che il percorso di uno scrittore non possa coincidere con la fortuna stagionale, mi fermai per dieci anni. Ma il tempo corre, non è più il 1961 e questa volta mi sono fatto convincere. Gli editori hanno avuto ragione e alla fine mi sono arreso infilandomi nella scia del trionfo dei miei amici. Perché poi, Sorrentino e Servillo sono amici. Paolo ha un particolare genio, dà una chiara impronta alle sue creazioni, un film di Sorrentino lo riconosci subito. Non c’è bisogno di trama, di struttura, di un dialogo che spieghi. Ci sono le immagini. Il punto di vista. Le atmosfere. L’aria che tira in una città, la palude di una società immobile».
È vero che Sorrentino avrebbe voluto portare al cinema Ferito a morte?
«Per ragioni di impalcatura letteraria e di sistema narrativo, era l’unico che avrebbe potuto farlo riuscendo a essere credibile. Non c’è una trama nel mio libro, così come non c’è una vera trama nel suo ultimo film. Ci incontrammo, osservammo una sceneggiatura deludente e rinunciammo con dispiacere assoluto perché entrambi eravamo convinti che nel copione i personaggi fossero troppo caratterizzati. Diventavano macchiette. La cosa interessante di Ferito a morte è che nell’incessante parlare e incontrarsi dei miei protagonisti si sente una ferita. Se a Ferito a morte togli il dolore, non rimane che un libretto».
Nel ciondolare di “Ferito a morte” e nei suoi salti temporali lei raccontava l’immaturità di una generazione che si era messa volontariamente fuori dalla storia. Non accade lo stesso anche alle figure di Sorrentino?
«Certamente, ma non si può non tener conto che Ferito a morte è stato scritto più di cinquanta anni fa e la distanza tra passato e presente a volte mostra incolmabili burroni. La mia Roma di quegli anni ad esempio non ha niente a che vedere con l’enclave depressa che descrive Sorrentino e che io osservo tutti i giorni. C’erano i divi hollywodiani, i registi famosi ai tavolini del bar, gli intellettuali. Oggi cosa c’è? Ma siete andati a Via Veneto? Ai miei tempi scorreva un fiume scintillante di gente che conversava, oggi è più tranquilla di un cimitero. È molto strano come anche una strada possa decadere perché anche le strade, non so se siete d’accordo, hanno la loro storia».
Hanno stinto progressivamente anche gli epìgoni della Dolce Vita.
«Anche se nel raccontarla c’è stata un po’ di mitologia, tra passato e presente c’è un abisso. Flaiano se n’era accorto già alla fine degli anni ’60 al bar Rosati. Si rivolse a un amico mentre guardava non senza commiserazione un gruppo di persone intente a darsi un tono: “Li vedi quelli? Credono di essere noi”».
Le mancano i suoi amici?
«Con certe persone, Peppino Patroni Griffi, Francesco Rosi, Giorgio Napolitano o Antonio Ghirelli, l’amicizia è durata o dura da settant’anni. È un tempo infinito. Raro. Dilatato. Alcuni mi mancano, di altri ho ricordi nitidissimi che mi aiutano nell’assenza».
La chiamavano Dudù anche loro.
«A me Dudù piace. Se gli altri nicchiano, io lo impongo. Ho ancora questa autorità. Poi bisogna saper distinguere. Certe volte gli amici ti chiamano Dudù per affetto, altre volte, ma più raramente, per sfottere. I lazzi raggiunsero l’acme all’epoca dello Strega. Flaiano diceva “Dudù non sei più dù” e Gadda raccontava a tutti che era stato in un albergo dalle pareti molto sottili e mentre dormiva era stato svegliato da due amanti scatenati. Facevano l’amore e lei incitava in inglese “do, do, do”. Dù-dù-dù».
Gadda era davvero pieno di contraddizioni?
«Era come un potente elefante in grado di imbizzirsi per una pulce e di farsi magari passare un treno addosso. Era un sornione tremendo, capace di classificarti con uno sguardo e acerrimo nemico di tutto quanto gli appariva troppo moderno. Persino l’automobile non lo convinceva poi tanto. Era all’antica e custodiva sacralmente il rispetto di certi comportamenti da cittadino modello. Negli anni che passammo insieme come impiegati in Rai – lui era già il celebrato autore del Pasticciaccio – erano sufficienti pochi minuti di ritardo nel timbrare il cartellino per provocargli panico e tremori. Goffredo Parise che amava gli scherzi e conosceva le sue debolezze, lo tormentava».
Racconti.
«Gadda era molto sospettoso, ai limiti della paranoia e Parise che sapeva a memoria il tragitto che faceva per andare a casa, iniziò a disegnare con il gesso frecce bianche in perfetta coincidenza con il percorso dell’ingegnere. Gadda osservò le frecce sul marciapiede e preoccupatissimo andò da Parise: “Ci sarà mica qualcuno che mi segue? Secondo te devo avvertire la Polizia?”».
Lei ha scritto molto per il cinema.
«Incontrando persone meravigliose. Lina Wertmuller, pur recitando il ruolo da invasata su qualunque suo set, è un gran donna di straordinario talento. L’unica a ridicolizzare con equilibrio in Pasqualino Settebellezze la tragedia nazista. Luigi Comencini, un uomo buono, un poeta. Francesco Rosi, con cui condividendo la stessa educazione e le stesse letture inventammo da zero Le mani sulla città perché avevamo voglia di dare la nostra lettura sulla spaventosa speculazione edilizia della Napoli di inizio anni ’60. La sceneggiatura è un affare complicato, molto diverso dalla letteratura. Devi trovare la tua armonia con gli altri, limare l’egoismo, accettare qualche compromesso».
Pasolini non la amava. Cosa le rimproverava esattamente?
«Poverino, non aveva nessuna colpa. Era borghese, non voleva esserlo e vedeva in me, nelle mie giacchette e nei miei spacchetti, un borghese ben riuscito. Non gli piacevo e nutriva un’indomabile diffidenza nei miei confronti nonostante i suoi amici, da Moravia in giù, erano borghesi a tutti gli effetti».
Per lei e Ilaria Occhini, insieme da decenni, l’amore ha significato monogamìa.
«Incontrai Ilaria quando da regina degli sceneggiati televisivi e del teatro, era la diva italiana più amata, bella e desiderata. Ho avuto l’avventura di essere accolto da questa piccola divinità, mi sono sforzato di non crederci per non dovermi svegliare e ho camminato con lei fino ai novantun’anni. Mi ricordo che quando eravamo sulla Spider fianco a fianco la mia domanda era sempre la stessa: “Ma perché questa ha scelto proprio me?”. L’amore è una questione complessa. Ha i suoi lati belli, il suo umorismo, le sue tragedie, le sue gelosie».
Non esiste senza sofferenza?
«Niente esiste senza sofferenza».
Con Ilaria andavate a Capri.
«Poi un giorno, le scale necessarie a raggiungere il nostro paradiso sono diventate troppe. Così ora quando ci passo e osservo la casa che abbiamo lasciato, osservo un mondo lontano e mi rianimo con la memoria di quella meraviglia».
Ha mai paura?
«È un sentimento ancestrale, fa parte di tutti noi, non diversamente dalla fatica di vivere».
Lei paura non l’ha avuta.
«L’ho avuta anch’io, ma per timore, non ci ho mai riflettuto troppo. Quando mi hanno operato aprendomi a metà e mi hanno messo tre by-pass ho attraversato il calvario con una naturalezza sconvolgente. Ho avuto rapporti bellissimi con infermiere e medici, un mondo di gente umile che lavora al ritmo di Stakanov pulendo la merda senza immalinconirsi mai. Guardandomi indietro, in un mio libro ne ho parlato direttamente con il cuore. Eravamo stupiti. Insieme abbiamo ritmato più di un miliardo di battiti. Siamo durati più di novant’anni. Qualsiasi manufatto umano, dopo sessant’anni è un catorcio da buttare. C’è da essere contenti. Sta ancora battendo, il cuore mio».
E alla morte pensa mai?
«Come no? Siamo diventati amici e ci penso senza nessun orrore. Devo dire proprio quello che penso?».
Certo.
«È una liberazione dal dolore della vita. Io non ho paura della fine di tutto. Ho paura dell’eternità. Guai se ci fosse un’altra vita. Somiglierebbe al fine pena mai, una cosa da spararsi. Muori, saluti e finalmente è finita. Io questa la chiamo perfezione».