La Gazzetta dello Sport 15/3/2014, 15 marzo 2014
CANTONA: NON CHIAMATEMI RIBELLE
Inizia affrontando di petto l’attualità che lo riguarda da vicino, senza nascondersi. Come sempre. Il diverbio a Londra di mercoledì, degenerato in arresto, Eric Cantona lo declassa a «fatto da nulla». Poi spiega: «Ho litigato con un paparazzo. Era troppo invasivo. Sono finito tre ore in commissariato, ma lo scandalo lo avete montato voi giornalisti anche se il paparazzo non ha un graffio. Alla fine sono tornato puntuale a Parigi». Per scendere a Lione, dove ieri ha presentato all’Institut Lumière, nell’ambito delle giornate su cinema e sport, il suo documentario «Ribelli del calcio» di cui prepara un sequel per settembre.
Oggi si paragona il ribelle Ibra a Cantona. Giusto?
«Questo film mi ha permesso di ridare nobiltà alla parola ribelle. Non basta essere pieni di tatuaggi e mettersi il gel per essere ribelle. Bisogna purtroppo ritrovarsi in contesti estremi. I personaggi del documentario hanno rischiato vita e carriera per difendere valori, idee, libertà. Noi invece non possiamo lamentarci».
Ma lei è considerato il ribelle per eccellenza.
«Sbagliato, io, Ibrahimovic e Balotelli non possiamo esserlo. Magari non rientriamo negli schemi costruiti da voi giornalisti, ma siamo nulla se paragonati al cileno Caszely a cui torturano la madre perché si opponeva alla dittatura come Socrates in Brasile, al bosniaco Pasic rimasto a Sarajevo per insegnare il calcio ai bambini sotto i bombardamenti, a Drogba che s’oppose alla guerra in Costa d’Avorio, a Mekloufi che rinunciò alla Francia per fondare la nazionale di ribelli algerini».
Se lei fosse stato al posto loro sarebbe stato un ribelle?
«Non ne sono sicuro».
Lei ama il calcio che veicola valori di solidarietà, fraternità e libertà. Li ritrova oggi?
«Certo, anche attraverso il bel gioco che incarna la solidarietà di una squadra per raggiungere la vittoria. Come il Brasile cinque volte campione, il Barça dell’ultimo decennio, il Manchester Utd fino a qualche tempo fa ma che ormai non guardo più. Tocca ora al Bayern confermarsi».
Tra i giocatori chi apprezza?
«Messi e Ronaldo perché trasmettono il piacere del gioco. Guardandoli capisci che, come me anni fa, anche loro pagherebbero pur di giocare».
Sono pagati milioni di euro, in un contesto di crisi generale. Lo stipendio di Ibrahimovic fa molto discutere.
«Ma sono quei pazzi qatarioti a pagarlo. Dovremmo stendere il tappeto rosso visto che poi pagano le tasse al 75%. Soldi che finiscono nelle casse dello stato. La crisi è frutto di politiche spregiudicate, non colpa dei calciatori».
A lei sarebbe piaciuto giocare al posto di Ibra nel Psg?
«Non avrei fatto come Zidane il testimonial per il Mondiale in Qatar, ma da giocatore aspiravo ai grandi club. Quindi avrei forse scelto il Psg che però è costretto a pagare il doppio perché, a pari offerta dal Real Madrid, chiunque oggi sceglierebbe il Real. Questione di storia che respiri solo in Spagna, Inghilterra, Italia. Aveva ragione Leonardo che vedeva il Psg come squadra da Champions, non da Ligue 1».
Avrebbe scelto la Juve?
«Perché no? Di sicuro ha fatto bene Pogba a mollare il Manchester e la Juve a prenderlo».
Le italiane però sono fuori dalla Champions, di nuovo.
«È solo un ciclo. Adesso tocca a voi. Il Milan come le altre torneranno grandi».
Come valuta Balotelli?
«Un grande giocatore. Il suo talento lo vedi nei gol. Ma ha anche molta forza mentale per sostenere l’enorme impatto mediatico. Un esempio per un paese che inizia solo ora a fare i conti con l’immigrazione. Uno dei primi giocatori di colore della vostra nazionale, un po’ come Viv Anderson per l’Inghilterra ‘78. Tutto questo lo rende speciale, come speciali sono stati i figli di immigrati come Kopa, Platini e Zidane per la Francia. Magari un giorno Balo entrerà in un mio documentario».