Ferruccio Sansa, Il Fatto Quotidiano 17/3/2014, 17 marzo 2014
“E ORA SALVIAMO LE NOSTRE PERIFERIE”
Le periferie. Questa è la nostra grande sfida, dobbiamo recuperarle, renderle davvero parte delle città. Negli anni ‘70 e ‘80 ci siamo battuti per salvare i centri storici, ricordo l’impegno con amici come Mario Fazio. Il cuore delle nostre città era minacciato dalle follie del Dopoguerra che radevano al suolo i quartieri storici, come via Madre di Dio a Genova. È stato un successo, perfino troppo, ora i centri storici corrono il rischio di trasformarsi in shopping center, in oasi per ricchi. Adesso dobbiamo dedicare i prossimi trent’anni al recupero delle periferie, che non devono più essere solo qualcosa che sta intorno a un centro. Questo sarà il filo conduttore del mio lavoro di senatore a vita per i prossimi dieci, vent’anni, finché non mi revocheranno il mandato”, sorride con un misto di ironia e di dolcezza Renzo Piano.
È una delle prime volte che parla del nuovo impegno, proprio dall’ufficio del Senato. Stanza G124, così si chiama anche il gruppo di giovani architetti che Piano ha messo su appena nominato. Lavorano ogni giorno. Anche quando il “capo” è in giro per il mondo.
È difficile rintracciare la stanza dell’architetto-senatore, persa nei corridoi decorati di Palazzo Giustiniani, tra uffici di ex presidenti e di altri senatori a vita. Devi seguire il profumo, quello del legno tagliato di fresco. All’improvviso ti ritrovi in una stanza diversa da tutte lealtre. Le pareti sono state coperte da enormi pannelli di compensato chiaro tappezzati di progetti,di fotografie: le periferie, appunto. Torino, Roma e Catania. Nord, Centro e Sud.Poi un grande tavolo circolare con decine di sedie pieghevoli di tela. Come in un laboratorio. I paramenti del palazzo storico sono invisibili. “Le sedie degli antichi senatori erano così, degli strapuntini”, esordisce Piano con un minimalismo che ricorda le origini genovesi. Intanto la sua mano comincia a tracciare sul foglio un centro, la città, e frecce che puntano verso l’esterno. La periferia. Appunto.
Il senatore delle periferie. É questo lo spirito del suo mandato?
“All’inizio non ci avevo nemmeno pensato. Mi ricordo la telefonata del presidente Napolitano, nell’agosto scorso. Ero in taxi a New York, stavo correndo in cantiere. Mi ha fatto piacere sentire la sua voce, è una persona che ammiro. Ha cominciato a spiegarmi che cosa sono i senatori a vita, pensavo volesse chiedermi… chissà… un consiglio sui nomi ...Poi mi ha domandato se ero disponibile e sono rimasto interdetto… sono troppo giovane, ho scherzato. Prendevo tempo. Non sapevo se avrei potuto essere utile”.
Un riconoscimento dal suo Paese…
“Sì, per me è un grande onore. L’Italia è il mio Paese. Ma voglio fare qualcosa di concreto”, spiega Piano e guarda lo studio che ha messo su. Però prima di arrivare alle periferie gli sta a cuore dire cosa significhi questa carica per lui che vive gran parte dell’anno all’estero, che progetta più in America che in Italia.
Architetto, anzi, senatore, ma lei si sente ancora italiano?
“Ho 76 anni, un’età in cui si pensa alla propria terra senza retorica. Sento emergere in me il legame con la mia città, Genova. Sento dentro di me l’acqua, i colori, gli odori. I genovesi hanno una istintiva diffidenza verso la retorica, però oggi sento questo legame molto profondo e se c’è qualcosa di autentico nel tuo linguaggio, nel tuo modo di comportarti e di esprimerti, deriva dalle esperienze intense dell’infanzia e dell’adolescenza”.
Quali immagini si porta dentro della sua Genova?
“I cantieri di mio padre, che era un piccolo imprenditore edile. Poi le gite domenicali in porto, un mondo enorme, silenzioso, in perenne movimento. Il porto è un miracolo antigravitazionale: gli immensi carichi sollevati a mezz’aria dalle gru, le navi lunghe centinaia di metri, ma sospese sull’acqua. Quella lotta contro il peso per conservare la leggerezza è la stessa che dobbiamo affrontare noi architetti”.
Genova, l’Italia, eppure lei si definisce “cosmopolita”…
“Sì, ma se c’è qualcosa di universale, una miniera comune cui attingiamo tutti sono le esperienze dell’infanzia. Nel mio studio lavorano architetti di venti paesi, ma abbiamo in comune l’autenticità che nasce dalle radici”.
In Italia viene bollata come “provincialismo”.
“Lo è se diventa chiusura. Ma io mi sento profondamente local. Come diceva Calvino, ci sono due tipi di liguri, quelli attaccati al loro scoglio e quelli che traggono forza dal legame con la loro terra per scoprire il mondo”.
Non c’è il rischio di abbandonarla?
“No, è la spinta che ti dà forza. L’orizzonte ristretto ti fa nascere dentro il desiderio di scoprire. Ti fa provare una rabbia essenziale. Ma il legame resta, e ti dà solidità. Dopo Roma andrò a Los Angeles, dove abbiamo progettato la nuova sede dell’Accademia degli Oscar, lavoriamo con persone come Steven Spielberg e Tom Hanks. Ecco, anche loro sono local, hanno un legame forte con le origini. Io lo sento soprattutto nei silenzi… la sera, la mattina appena sveglio… nei momenti in cui cerchi te stesso”. E Piano tira fuori di tasca un foglietto, lo passa a Giovanna, l’assistente che lo segue sempre in Italia.
Co s ’è, architetto, il progetto di un grattacielo?
“É Oscar, chiamiamo così affettuosamente il palazzo di Los Angeles. Mi è venuto in mente un dettaglio e l’ho subito disegnato. Mi sveglio sempre su un particolare, non su un pensiero totale. E lo annoto”.
Ma che cosa c’è delle sue origini, di local, nei progetti realizzati in mezzo mondo?
“Prenda il Beaubourg… c’è qualcosa di navale nelle sue forme...come in altri progetti L’eco delle gite in porto?
“Sì. E lo Shard, il grattacielo di Londra… è alto più di trecento metri, ma all’improvviso si ferma, come, però, se volesse continuare a crescere. Ecco quel desiderio di superare gli orizzonti imposti che ho conosciuto nella mia adolescenza. E poi la lotta per la leggerezza”.
Già, la leggerezza, ma cosa c’entra con la politica, con quella
italiana? Cosa ci fa un architetto al Senato?
“Questa mattina sono passato in aula, ma mi dedico soprattutto a questo”, e indica il grande tavolo rotondo dove il giorno prima c’è stata una riunione con i giovani architetti.
Qualcuno storce il naso, sostiene che non ha senso fare senatore, pagare una persona che, per quanto prestigiosa, non può essere presente…
“Quando mi hanno affidato questa stanza e mi hanno detto “sarà sua per tutta la vita” ero perplesso. Poi mi hanno concesso di mettere i pannelli, i progetti, e mi si è sollevato il morale. Ho capito che potevo fare quello che desideravo: mettere a disposizione la mia esperienza, mi pare un modo onesto di svolgere la mia funzione. Assente? No, sono diversamente presente. Vengo periodicamente, ho tanti appuntamenti. Lavoro, più spesso fuori dell’aula. È vero, ci danno soldi, anche un po’ troppi, ma li metto tutti a disposizione del gruppo G124, i sei giovani architetti, selezionati tra 600, che studiano le periferie”.
Alla fine ci perde?
Piano sorride.
Architetto anche in Senato. Ha rinunciato a un ruolo politico?
“Mi sento diversamente politico. Sono indipendente, non indifferente alla politica”.
E il suo amico Beppe Grillo?
Piano appoggia la penna, non ha piacere ad affrontare il discorso, ma non sfugge: “L’affetto per Beppe è grande, come non voler bene a una persona come lui. Ma gliel’ho detto: devi tornare a fare il comico”.
Parliamo delle periferie?
“Sì. Quando Napolitano mi ha chiamato ho pensato: come senatore potrei impegnarmi a difendere la bellezza del Paese. Poi è nato il nostro gruppo e ho deciso di concentrarmi sulle periferie”.
Qualcuno vorrebbe raderle al suolo…
“Sarebbe un atto di violenza, di arroganza, simile a quello di chi le ha costruite”.
Come cancellare danni tanto profondi?
“Le periferie sono state costruite senza amore, senza cura per chi doveva viverci. Ma non sono tristi. Come diceva Calvino nelle Città invisibili in ogni luogo c’è un bagliore, un angolo di bellezza”.
Chissà se chi ci vive è d’accordo…
“È una bellezza che nasce dall’energia. Dalla vita. Le periferie sono la città che non sa di esserlo. Se il centro storico è il passato, i nuovi quartieri rappresentano la conquista, la speranza. Il futuro. Qui vive l’80-90% della popolazione. Dobbiamo impegnare tutte le nostre energie per recuperarle”.
Non teme che restino discorsi teorici?
“No, l’architettura può nutrirsi di filosofia, ma poi diventa assolutamente concreta. Trae spunto dai propri limiti per dare slancio alle idee”.
In tanti hanno lanciato grandi iniziative, cosa ne è rimasto? E dove trovare le risorse?
“Ecco il punto, dobbiamo puntare a un lavoro di rammendo”.
Rammendare lo Zen di Palermo, Scampia a Napoli, Tor Bella Monaca a Roma. Difficile, ci vivono milioni di persone. Bisogna recuperare il tessuto sociale, non solo quello architettonico…
“É così, e l’architettura gioca un ruolo importante. L’architettura è concretezza. Il primo, essenziale passo è portare qui le attività civiche. A New York abbiamo progettato un campus universitario ad Harlem. Nella banlieue di Parigi nascerà il nuovo tribunale. Bisogna portare nelle periferie le funzioni della città. Prima di tutto le scuole… pensate a quanto lavoro crea una scuola. E poi biblioteche, teatri, musei, ospedali, tribunali”.
Il secondo passo?
“Occorre, per cominciare, un consolidamento strutturale. Non penso a interventi faraonici, ma a quelli realizzati da imprese piccole, spesso guidate dai giovani. Immaginate che impatto avrebbe sul lavoro. Certo, oggi non è facile. Per interventi come questi si paga l’Iva fino al 22%. Bisogna riorganizzare i cantieri. Puntare a piccoli interventi anche con micro-finanziamenti”.
E gli abitanti?
“Facciamo cantieri tolleranti, come li chiamiamo noi, leggeri che non mandino via la gente durante i lavori”. Si rivolge a Giovanna: “Ti ricordi Gesuina?”.
Gesuina?
“Sì. A Otranto c’era una donna che abitava in un edificio che stavamo recuperando. Gesuina. Siamo riusciti a terminare i lavori senza allontanarla.
Terzo?
“L’adeguamento energetico. Che consentirebbe enormi risparmi, minore inquinamento e garantirebbe lavoro a industrie e piccole imprese”.
Nelle fotografie che tappezzano la sua stanza c’è un colore prevalente, il grigio…
“Quarto punto: il verde. Non è solo un fatto estetico o poetico, non è solo bellezza, per quanto importante. È assolutamente pratico: significa ridurre la temperatura d’estate di due, tre gradi. Così si abbattono anche i livelli di anidride carbonica. E si contribuisce al consolidamento del suolo, soprattutto dove, come a Genova, esiste un elevato rischio idrogeologico. In periferia c’è almeno un vantaggio, c’è più spazio, può essere occupato dal verde”.
Ma alla fine le periferie restano tali, lontane dalla città, quella vera…
“No, devono diventare parte della città. Ecco un altro punto essenziale, le piazze. Oggi o non esistono o sono piuttosto dei vuoti. Bisogna realizzarle e portarci le attività del quartiere, devono essere un luogo dove la gente si incontra e confronta. Torniamo a scuole, centri civici, teatri”.
Se solo ci si potesse arrivare…
“I trasporti. Le metropolitane, certo, ma non soltanto. Ci sono gli autobus, il car sharing, le piste ciclabili. Bisogna intervenire sulle distanze”.
Le periferie sono state costruite sulla pelle degli abitanti. Come farli partecipare alla rinascita?
“Servono processi partecipativi. Bisogna ascoltare la gente, ma non per persuaderla, per imporre progetti già decisi. Occorre ascoltare e accogliere il loro contributo”.
Rammendare le periferie. Ma come costruire quelle nuove?
“No, il presupposto del recupero delle periferie è non costruirne ancora. Bisogna crescere, ma per implosione. Completando, recuperando. Quanti edifici non utilizzati nelle nostre città”...
Stop alle costruzioni, al cemento: il ruolo della politica…
“Bisogna mantenere il primato del pubblico. Fare concorsi per i progetti, gli appalti e la diagnostica. Per rendere sicuri gli edifici sul nostro territorio”.
Bè, adesso che è senatore, può contribuire alle decisioni…
“Come senatore a vita potrei presentare disegni di legge, ma il mio ruolo è mettere a disposizione la mia esperienza. In vent’anni ospiteremo 120 architetti, poi vedremo, finché non mi cacciano io qui ci sto… siamo ironici”.
Renzi vuole abolire il Senato…
“Credo che sarà trasformato, è giusto. Spero che continui a chiamarsi Senato. Una bella cosa, come Camera Alta. L’abbiamo inventata noi, poi è stata sviluppata nell mondo, dagli Stati Uniti alla Francia”.
Renzi ascolterà le sue proposte?
“Il compito di un senatore a vita è seminare. Questo è stato un Paese disattento, ma spero che le nostre idee diventino leggi, abbiano effetti pratici. Altrimenti il lavoro andrebbe perso. E perderemmo la battaglia per le periferie”.