Malcom Pagani, Il Fatto Quotidiano 16/3/2014, 16 marzo 2014
SANDRO VERONESI: “LA SCRITTURA PER COMBATTERE I MIEI DÈMONI”
“Gli amici per me sono luoghi. Luoghi in cui stavo bene. Luoghi che mi ricordano chi ero e da che parte stia la mia integrità. Luoghi in cui vado di rado. Quello che era così naturale venti anni fa – vedersi, fare le cose insieme, far scivolare le ore senza traguardi per il solo gusto di starsi vicini – è diventato eccezionale. E se la gente non la incontri, cambia tutto. Non puoi più aspettarti che l’amicizia continui a darti intimità, condivisione, confessione reciproca. Dei cazzi amari, con gli amici non ne parlo”. Fuori dalla calma apparente di Sandro Veronesi, dalle sue sigarette, dalle boccate dell’età acerba che a volte diventano desiderio di tornare a quando l’orizzonte era una nuvola di fumo, l’esistenza ha recitato nel caos di sempre: “A Edoardo Albinati, un poeta per me fondamentale dal punto di vista formativo, un amico che mi diede la misura della strada da affrontare e mi spiegò che se avessi voluto percorrerla davvero non ne avrei mai trovato l’ingresso a Prato, l’ho recentemente detto: ‘Ma perché non passiamo un pomeriggio a fumare e a riascoltare i nastri di John Martyn? Anche in silenzio, quando ci si capisce così a fondo che non c’è neanche più bisogno di dividerle, le impressioni. Sembrava uno di quei lussi che non avremmo mai smesso di concederci e invece è accaduto”. È cambiato tutto. E allo scrittore, 55 anni da compiere proprio al principio del mese più crudele, il pesce d’aprile non pare uno scherzo. L’ufficio-casa-rifugio di Sandro Veronesi guarda il Vaticano da una prospettiva fortunata. Le grandi vie di scorrimento, inferni di scoglionamento generale, lamiere, insulti, minacce e rese senza condizioni, passano a fianco senza lambire l’angolo di relativa pace di chi un giorno lasciò la Toscana per affrontare il paesone che si considera Metropoli. Da allora, pur pronto: “Anche psicologicamente a forme di sopravvivenza estreme”, Sandro Veronesi ha messo insieme una generosa dozzina di libri, un Premio Strega, altre targhe e cinque figli senza riuscire a dimenticare il ragazzo che è stato: “Da bambino leggevo tanto. Salgari, Collodi, l’epica. Poi al liceo, un giorno, si affacciò un buffo signore alto non più di un metro e cinquanta. Si chiamava Goretti, era stato allievo di Garin. Ignorò i lazzi sul suo aspetto e ci cambiò la vita. Programma parallelo di letteratura russa. Voti severissimi. Nessuna possibilità di non seguire la lezione perché sui testi scolastici, Gogol e Taras Bul’ba non c’erano. Lessi Umiliati e offesi e I fratelli Karamazov a 15 anni, persi la testa, mi innamorai della pagina. Da leggere e da riempire”.
Sognava già di fare lo scrittore?
Nell’adolescenza interpretai lucidamente il senso di emulazione che si cova a quell’età. Avevo passioni comuni a migliaia di coetanei. Il cinema, il calcio, la musica. Nello sport sapevo di essere abbastanza negato e idolatrando Virdis o Bettega, potevo soltanto sognare per interposto campione. Ma nella scrittura, no. Anche se l’inferiorità rispetto a Dostoevskij fu presto chiara, con i miei simili me la potevo giocare. Mi abbandonavo alle passioni. Leggevo. Scrivevo. Non ho mai avuto paura di cadere.
Presto si trasferì a Roma.
Ho trasportato pianoforti e affrontato lavoretti che, pur disegnando una faticosa biografia immaginaria, non risolvevano una condizione di base incline al parassitismo. Se Vincenzo Cerami non mi avesse ospitato a Roma prestandomi una casa, a sopravvivere non ce l’avrei mai fatta.
Le è mancato il superfluo?
Ero pronto a rinunciarci e a spiegarlo ai miei figli, ma non mi è mai capitato di doverlo fare. D’estate, quando la prospettiva era rimanere in città, invitato dai miei genitori, evadevo al mare. Ora, in una casa sopra Castiglion della Pescaia circondata da terreni della Curia, le estati della maturità sono vere e proprie epifanìe. Senza staccionate, cancelli, autostrade né insediamenti umani si respira un’aria hippie e se ogni tanto ti rubano qualcosa, non ci fai quasi caso. A me han fregato una canoa, ma val ben la pena perché dal ’74, l’anno in cui mettemmo piede per la prima volta in quel paradiso, ogni cosa è rimasta uguale ad allora.
Proprio uguale?
Identica. Fino ai 14 anni, invece, sono andato in Versilia. Ferie in un appartamentino modesto con i cavallucci marini a riva, l’acqua pulita, la delimitazione degli spazi nel recinto che dal bagno Franco si allargava fino al bagno Tirreno, con il mio bagno, il Bagno Stella, nel mezzo. Le ragazze, gli odori, le prime paure. La faccetta di Ermanno Lavorini, il dodicenne scomparso a Viareggio nel ’69 e poi ritrovato seppellito nella sabbia a marzo, non la dimenticherò mai. Misi il ricordo anche nel mio primo romanzo.
Perché?
Perché è successo dove c’ero io. A Marina di Vecchiano o alla pineta del Grillo andavo a giocare e a sera, i ragazzi che si vendevano e i satiri in avanscoperta me li ricordo bene. Non è che si respirasse cattiveria in assoluto, ma ogni tanto, a tradimento, si faceva strada la violenza.
Come nel suo “XY ”,
nelle piccole comunità a volte accadono
cose strane. Cose terribili.
Prenda Cogne. Lì niente è più come prima. È una sorta di Twin Peaks, un paese in cui metà della popolazione è in terapia. Gli eventi incidono sui luoghi. Li trasformano. Da anni voglio andare in Scozia. C’è un’enclave in cui da decenni la soglia di parti gemellari è dell’80 per cento circa. Geneticamente l’evento non ha nessuna spiegazione scientifica e l’enigma è irrisolto, ma la gente del posto naturalmente è turbata. Per le persone semplici non c’è peggiore condanna che essere l’oggetto del mistero. Chi sa di essere modesto, magari con la fede, l’inspiegabile lo accetta. Ciò che non supera è essere parte integrante dell’enigma. Una punizione divina.
Lo è anche la scrittura?
Era il mio massimo desiderio, ma ha rappresentato, ancor prima dell’analisi, uno strumento di consapevolezza per conoscere i dèmoni che mi agitavano. Verso i vent’anni, i dèmoni arrivano comunque. Ma per capire che erano proprio i miei, che mi appartenevano , è servito tempo. Una volta Morrissey mi ha scritto una cosa magnifica.
Quale?
Aveva accettato di farsi intervistare via email e la nitidezza obbligata delle risposte, senza tagli né interventi a posteriori, le scolpiva nel marmo. Avevo ascoltato una sua canzone You were good in your time
. C’è un addio. Ci sono due mani che si stringono e una persona muore nelle braccia di un’altra nella consapevolezza che a un tratto bisogna saper lasciare andare via chi abbiamo amato. Mi sembrava che fosse dedicata a mia madre e gli domandai a chi aveva pensato quando l’aveva scritta. “La canzone è dedicata proprio a sua madre”, rispose.
Quanta vita reale c’è nei suoi romanzi?
C’è stato un tempo lontano in cui la mia vita familiare, quella coniugale, i timori ancestrali e le parole non dette sono entrate nei romanzi senza che me ne rendessi completamente conto.
Cosa le accade quando scrive un romanzo?
Per me scrivere un romanzo è come attendere un treno che si avvicina a grande velocità. Invece di spostarti, prosegui. Quando hai finito, il treno ti ha travolto. Avresti potuto salvarti, ma sei rimasto lì a scrivere.
Rimpiange mai di non essersi protetto?
Resto convinto che un buon romanzo debba avere dei grandi personaggi non viziati dal pregiudizio politico e che non possa mai essere un tentativo di autoanalisi. La letteratura non è terapeutica. Se stai male devi sfruttare l’energia del tuo dolore per scrivere, ma non pensare mai che la scrittura ti faccia stare meglio. Ti farà star peggio, ma avrà il conforto della verità che passa attraverso quell’energia. È per questa ragione che continuo a prediligere senza mediazioni la narrativa alla saggistica. Nella saggistica il dolore non c’è.
Scavare nel passato è complicato?
Mio padre era ingegnere edile. Mia madre, donna aperta e colta, casalinga. Fu ritirata dal liceo poco prima di diplomarsi, ufficialmente a causa di una pleurite. Poi capii che le cose erano andate diversamente, ma su quel mistero e su altri lati oscuri della mia famiglia, per il figlio che ero, decisi di non indagare né sapere di più. La storia che mi avevano raccontato era perfetta. A scavare avremmo potuto soltanto rimetterci. Io e loro. Quando scoprii di avere i dèmoni, capisci subito anche un’altra cosa.
Quale?
Che possono aver fatto visita anche ai tuoi genitori. Allora rifletti. Per me, i miei genitori sono nati quando sono nato io e se fino a quel momento hanno saputo tenerli a bada, chi sono io per smuoverli? Perciò ho lasciato quella storia com’era, e sul rimosso familiare ho scritto un romanzo, La forza del passato. Ma già questo, dato che scrivere un romanzo è in realtà un gesto potentissimo, smosse molte pietre, e non solo nel cerchio familiare.
Da quel libro non diversamente da “Caos calm o” venne tratto un film.
Ma io non li ho scritti perché come sceneggiatore sono una pippa. Vado alla cieca. Esistono tempi, ritmi codificati, scalette. Non sono i miei. Nanni Moretti, Laura Paolucci, Francesco Piccolo e Piergiorgio Gay sono amici, mi sarei divertito a scrivere con loro, ma se avessi adattato i miei libri in prima persona avrei scritto film di sei ore.
Le sono piaciuti i lavori tratti dalle sue parole?
Non sono riuscito a trovare difetti, ma quando vedi Bruno Ganz o Nanni Moretti recitare battute scritte da te anni prima, inorgoglirsi è inevitabile e il riflesso critico, quasi impossibile. In generale non ho alcun senso della disciplina convenzionale. Non so come andare dalla a alla zeta e non so neanche se ci arriverò, alla zeta. È il mio intento. Ma come perseguirlo, lo scopro solo mentre scrivo. È lì che vengono fuori le cose fondamentali. Quando inizio un romanzo in mano ho solo un senso vago di ciò che intendo restituire. La scrittura evocativa è un procedimento rischioso e ansiogeno e io so che per abbracciare le cose devo passare attraverso una nebbia.
Poi si dirada?
Per fortuna si dirada sempre. Io non faccio apologhi. Parlo di cose che stanno succedendo. Non ho mai messo la letteratura al primo posto. A dettare l’agenda sono figli e famiglia. Lascio che la vita entri nella stanza in cui lavoro, che il ronzio del mondo, il rumore della televisione e quello dei fornelli mi disturbino. Di questo sottofondo ho imparato a nutrirmi. Da giovane scrivevo in sala da pranzo perché uno studio non potevo pagarlo. Oggi, sempre senza porte tra me e gli altri, accade esattamente lo stesso. Un giorno ero seduto al mio posto e mio figlio guardava una partita sul divano. Cercavo un termine preciso e avevo trovato profetico, ma sapevo che non era quello giusto. Poi ho sentito Collovati che diceva ‘pvesagico’ e ho capito che la parola che inseguivo era quella. Se avessi tenuto chiuso la porta, a quel cortocircuito non sarei mai arrivato.
Ha mai paura di perdere quel che ha conquistato?
Le ho appena detto la ragione per cui non mi sono mai sentito in pericolo. La presenza degli altri, in un mestiere in cui il narcisismo è messo a dura prova da imprese solitarie che durano anni, è una boa fondamentale. Mi è andata bene e anche se la buona sorte dovesse finire domani e dovessi tornare indietro socialmente ed economicamente, so che mi sono divertito. Come diceva Totò Schillaci, i sei gol al Mondiale non me li toglie nessuno. Sa di cosa ho veramente paura?
Di cosa?
Di accontentarmi di ‘profetico’. Della sciatteria che per tempi di consegna, soldi da guadagnare e urgenza, smette di farti incazzare alla ricerca di una parola. Capita anche a grandissimi autori, quelli che io amo di più. Per me, ad esempio, Amsterdam di Ian Mc Ewan è stata una grande delusione. Ha ottenuto molti premi, ma sembra scritto da uno che lo imita male. C’è aria di costrizione, di contratto, di operazione alimentare, di causa divorzista. Poi c’è una regola base. Tutti gli scrittori prima o poi scrivono un libro di cui a te lettore non importa un cazzo. Pretendere che chi ami perdutamente rispetti sempre le ragioni che ti hanno fatto innamorare di lui è illusorio.
Ha mai temuto la forza di quel che scriveva?
In Caos calmo, per la prima volta in vita mia, scrissi una scena pornografica. Al cinema e in letteratura il sesso è una questione complessa. È facile annoiare, deprimere, deludere. Per questo non avevo mai descritto pompini né anelato al ruolo. Però nel libro avevo la necessità di far fare una cazzata a Pietro Paladini. Un atto di sodomìa nel luogo stesso in cui pochi mesi prima è morta tua moglie, con tua figlia nell’altra stanza e il pericolo che si svegli da un momento all’altro. Se la bambina si fosse svegliata, avrebbe subìto un trauma definitivo. Mentre scrivevo quella scena, muovendomi su un crinale scivoloso, stavo sempre molto attento a chiudere il computer perché i miei figli non la leggessero. Un senso di pudore che quando l’opera si è formata si dissolve perché ogni tassello entra a far parte della storia. A Pietro Paladini comunque son tornato.
In che senso?
Il mio prossimo romanzo, quello che sto scrivendo, ha lui come protagonista. È un libro sulla rimozione e fotografa Paladini otto anni dopo Caos calmo. Al tempo stesso il libro è un’istantanea sull’Italia di oggi che è infinitamente mutata rispetto a otto anni fa. Più aumenti i pixel e metti a fuoco i dettagli, più te ne accorgi.
Cosa accade al protagonista di Caos calmo?
Cambia anche lui?
In otto anni ha fatto cose e compiuto atti che in soli quattro giorni torneranno in superficie non senza conseguenze. Avrà una rivelazione. Conoscerà una regola eterna.
Quale?
Che il mondo è molto più complicato delle soluzioni che adottiamo per affrontarlo, illudendoci che possano essere efficaci. Non è così.
Anche in politica?
I sondaggi offrono un’esemplare chiave di lettura. Se rimani immobile, taci e non fai un cazzo guadagni punti. Se ti esponi paghi un prezzo. Chi resta in attesa e lascia fare agli altri può sempre affermare che si stesse meglio prima. E pensare che io del princìpio di cautela sarei anche accanito fautore. Ho fatto il pompiere. So che quando devi salvare il gattino sull’albero, la prima cosa è cautelarti e non peggiorare le cose. Altrimenti non si salva né il pompiere né il gatto.
È difficile salvarsi?
È difficile essere chi non si è. Una volta per scrivere un articolo andai a trovare Paul Gascoigne a Formello. La Lazio gli aveva imposto l’intervista. Mi aspettò fuori dallo spogliatoio. Alla prima domanda, aprì la macchina con il telecomando. Alla seconda si produsse nello schiaffo del soldato ai danni di Casiraghi. Era appena uscito Gazza Agonistes di Ian Hamilton, un peana pazzesco. Gli chiesi cosa ne pensasse e lui mi disse: ‘Odio gli scrittori, odio i libri, odio leggere, sono tutti bastardi’. Non era vero, ma per Gascoigne era molto più semplice rispondere in quel modo. Lo lasciai lì e sulla strada ripensai all’incontro. Mi dissi che avrei potuto reagire, dimostrargli che ero diverso dagli altri, poi capii che sarebbe stato inutile. Per lui ero esattamente come tutti gli altri. E Gazza, in fondo, non aveva torto.