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 2014  marzo 16 Domenica calendario

AMERICA, LA CRISI NON PERCEPITA


La maggior parte degli americani non direbbe mai che stiamo attraversando una crisi. Ma i segnali di allarme ci sono, e chiari. (...) Tra questi segnali, specie negli ultimi dieci anni, vi è il crescente fallimento della pratica del compromesso politico. Siamo alla paralisi, soprattutto a livello federale, e il Congresso di quest’anno ha approvato il minor numero di leggi di qualunque altro Congresso recente. La ragione per cui proprio gli Stati Uniti stanno vivendo una fortissima accelerazione in questo senso rimane un mistero. Una teoria è che il fallimento dell’arte del compromesso sia in parte conseguenza della diffusione della televisione, di internet e degli sms, che provocano un declino delle forme di comunicazione personale e diretta; che gli spostamenti in aereo oggi permettono ai membri del Congresso di tornare per il fine settimana nei loro stati d’origine, limitando la permanenza a Washington e le occasioni per socializzare e conoscersi sul piano umano; inoltre, c’è ormai la tendenza diffusa ad attingere le informazioni da emittenti televisive ideologiche e di nicchia. Ma tutti questi fattori valgono anche per l’Europa, il Canada, il Giappone e l’Australia, dunque perché mai il compromesso politico debba conoscere un declino così forte proprio negli Stati Uniti rimane un mistero.
Un secondo segnale della crisi della democrazia americana viene dal voto, punto di partenza di tutte le democrazie. I partiti che controllano i governi locali e statali ostacolano sempre di più il processo di registrazione degli elettori, allo scopo di negare il voto a quanti potrebbero votare per il partito avversario. Fra gli americani che si registrano, la percentuale che poi va davvero alle urne è inferiore a quella di altre democrazie. Soltanto il 60% degli elettori partecipa alle presidenziali, e se parliamo delle amministrative l’ultima tornata a Los Angeles ha visto un’affluenza del 20 per cento. Nessun’altra democrazia eguaglia gli Stati Uniti nel processo quasi ininterrotto delle campagne elettorali né supera il nostro livello di distorsione delle informazioni destinate ai cittadini – distorsione dovuta ai grandi capitali che finanziano le gigantesche spese delle campagne.
Un terzo fattore che contribuisce all’erosione della democrazia americana è la nostra crescente sperequazione socio-economica. Noi americani pensiamo agli Stati Uniti come al Paese delle occasioni illimitate, dove chiunque può farsi da zero, in base alle proprie capacità. Ma in realtà è vero il contrario: da noi la mobilità socio-economica è più bassa che in qualunque altra grande democrazia, e la correlazione fra reddito del genitore e reddito del figlio è di gran lunga superiore negli Usa che in altre democrazie. In parte questo è il risultato del deterioramento del nostro sistema di pubblica istruzione: significa che non riusciamo più a sviluppare la maggior parte del nostro capitale umano. Il che è negativo dal punto di vista dell’investimento e aumenta il rischio che le persone frustrate, consapevoli di avere poche possibilità di migliorare la propria condizione e quella dei propri figli, protestino in modo violento: nel giro di pochi decenni, nella mia città, Los Angeles, sono scoppiati due pesanti tumulti.
L’ultimo fattore che mina la democrazia americana è il fatto che il nostro governo ormai investe relativamente poco in progetti per il bene pubblico: non solo nel l’istruzione, ma anche in infrastrutture e tecnologia, e nello sviluppo e la ricerca scientifici a scopi non militari. In proporzione, gli Stati Uniti spendono molti più soldi pubblici in progetti che non rappresentano investimenti per il futuro: il nostro sistema carcerario, per esempio, pone l’accento sulla detenzione e la punizione, non sulla riabilitazione; il sistema sanitario investe in cose che non migliorano la salute degli americani, tanto che noi abbiamo gli indicatori di salute pubblica più bassi di qualunque grande democrazia; e le nostre spese militari potrebbero anche essere considerate investimenti, ma ci si chiede perché contribuiamo in maniera spropositata alla sicurezza militare dell’Unione Europea, del Giappone e dell’Australia, quando quegli stessi paesi vi contribuiscono in misura inferiore.
Questi quattro fattori insieme stanno provocando una nuova crisi per gli Stati Uniti. Ma, in base al mio modello, che probabilità abbiamo di riuscire a risolvere questa crisi? I fattori a favore del successo sono: la forza dell’Io americano, legata alla convinzione che gli Stati Uniti siano il meglio che esiste; la nostra flessibilità, come dimostrato da importanti cambiamenti di alcuni valori fondativi rispetto al nostro ruolo internazionale, all’uguaglianza razziale e alla parità di genere; e la nostra relativa libertà di scelta, dovuta al fatto che siamo circondati da due oceani e da paesi meno popolosi, rispetto alla limitata libertà dei paesi europei e del Giappone, che hanno potenze confinanti.
Ma nel mio modello rientrano anche fattori potenzialmente sfavorevoli per la risoluzione dei nostri problemi. Uno di questi è la nostra cieca fiducia nell’unicità americana, che ci spinge a pensare di non avere niente da imparare da altri Paesi, e ci impedisce di guardare ai nostri vicini canadesi e al modo in cui le nazioni europee hanno saputo affrontare con maggior successo il problema delle carceri, della sanità e del l’istruzione. Un secondo motivo di pessimismo è che, diversamente dall’Inghilterra, dalla Germania e dal Giappone, gli Usa hanno poca familiarità con il senso di frustrazione e l’esperienza della sconfitta.
In breve, non so se noi americani continueremo a sperperare i nostri vantaggi, o se a un certo punto finalmente decideremo di invertire la tendenza, come fece il Giappone del periodo Meiji.
Infine, quali problemi affliggono il mondo intero? Indicherò solo i tre più importanti.
Il primo è la crescente disuguaglianza fra le nazioni in un mondo ormai globalizzato. Finché gli oceani proteggevano i paesi ricchi da quelli più poveri, gli Stati Uniti e l’Europa non erano minacciati dalle popolazioni disperate di quei paesi. Ma nel mondo globalizzato, l’11 settembre 2001 ha fatto capire a tutti che anche i popoli più poveri hanno ormai modo di raggiungerci con la loro rabbia: sia con mezzi violenti, sia con flussi immigratori inarrestabili.
Un secondo problema mondiale è il progressivo esaurimento delle risorse naturali e la diffusione su larga scala dei danni ambientali: le risorse più depauperate sono quelle ittiche e forestali, l’acqua dolce e i terreni fertili.
Un terzo problema che richiede soluzioni a livello mondiale sono i cambiamenti climatici globali, spesso erroneamente chiamati "riscaldamento globale". In realtà è ben più di questo: si tratta di fenomeni sempre più estremi, di perturbazioni violente, dell’acidificazione e dell’innalzamento del livello dei mari, e di altre conseguenze dei cambiamenti climatici.
Come nel caso dell’America, i problemi che il mondo si trova ad affrontare offrono spazio sia al pessimismo che all’ottimismo. Un motivo di pessimismo è che manca una cornice efficace per una governance mondiale, che consenta di prendere decisioni e di gestire i problemi globali in modo planetario. D’altra parte, un motivo di cauto ottimismo è la concentrazione della ricchezza e del potere economico in pochi Paesi. Gli Stati Uniti e la Cina producono da soli il 41% delle emissioni mondiali di anidride carbonica. E cinque Paesi o entità – Stati Uniti, Cina, India, Unione Europea e Giappone – rispondono insieme del 60% di queste emissioni. Ciò significa che, anche in assenza di un effettivo apparato di governo mondiale, si potrebbero ottenere grandi risultati con un accordo a cinque fra i paesi interessati, i quali potrebbero poi esercitare pressioni sui produttori del restante 40%, attraverso barriere di tipo fiscale.
Anche in questo caso, bisognerà vedere che cosa decideranno i leader e i cittadini di tutto il mondo.