Sissi Bellomo, Il Sole 24 Ore 16/3/2014, 16 marzo 2014
IL RITORNO ALLA RUSSIA RIDUCE DI 10 MILIARDI I COSTI DI SOUTH STREAM
Il nazionalismo dei filorussi non è soltanto una cortina di fumo per nascondere altri interessi. Ma non è neppure l’unico fattore all’origine della spinta secessionista in Crimea: anche la piccola repubblica, "regalata" agli ucraini dal Cremlino nel 1954, rappresenta un tassello delle strategie energetiche di Mosca. Strategie che vengono oggi perseguite anche manu militari e non più soltanto con le "guerre del gas" che Kiev ha conosciuto in passato, economicamente dolorose ma incruente.
L’annessione della Crimea, che potrebbe essere formalizzata con il referendum odierno, regalerebbe alla Russia – e soprattutto toglierebbe all’Ucraina – un territorio ricco di idrocarburi. Inoltre darebbe la possibilità di realizzare con minori difficoltà tecniche e uno sconto miliardario il South Stream: il gasdotto con cui Gazprom punta a scavalcare proprio l’Ucraina – da cui oggi passa oltre la metà del suo export di gas verso l’Europa – sottraendole potenzialmente 25 miliardi di metri cubi di forniture, che oggi come oggi Kiev non sarebbe in grado di sostituire completamente.
Una Crimea russa consentirebbe di evitare al South Stream un percorso tortuoso, nei fondali più profondi del Mar Nero: le condotte potrebbero essere invece posate in parte sulla terraferma, attraversando la penisola, e in parte in un tratto di mare meno profondo. In questo modo la lunghezza della pipeline diminuirebbe di parecchi chilometri e ci sarebbero minori complessità e rischi legati alla sua costruzione. Il risparmio sarebbe di 10 miliardi di dollari secondo Andràs Jenei, consulente del ministero dello Sviluppo ungherese. Il periodico russo Ekspert, in genere autorevole su temi energetici, stima un taglio dei costi di addirittura 20 miliardi, ricordando come l’ex presidente ucraino Viktor Yanukovich in passato avesse più volte cercato di convincere Mosca a preferire la rotta attraverso la Crimea, facendo leva proprio su aspetti economici.
Dando seguito alla promessa di Gazprom – che aveva anticipato un’accelerazione nelle gare di appalto, per avviare il gasdotto entro il 2015 – il consorzio South Stream Transport venerdì ha assegnato all’italiana Saipem un contratto da 2 miliardi di dollari per costruire la prima delle quattro linee del tratto sottomarino di South Stream (si veda Il Sole 24 Ore di ieri). Cambiare percorso, in una fase così avanzata, comporterebbe come minimo un forte allungamento dei tempi e Mosca non sembra disposta ad aspettare. Prima di posare le linee successive, tuttavia, un ripensamento potrebbe anche arrivare, se Gazprom riuscisse a convincere i soci stranieri della tratta offshore: Eni (20%), più la francese Edf e la tedesca Wintershall (ciascuna col 15%). Del resto l’interesse a risparmiare ci sarebbe eccome per i russi, dato che sul progetto girano ormai stime di costi faraonici: 46 miliardi di dollari, compreso il necessario potenziamento della rete interna russa.
South Stream a parte, nel matrimonio con Mosca la Crimea porta in dote anche alcuni tra le aree esplorative più promettenti in Ucraina: quelle del Mar Nero, dove Kiev sperava di sfruttare giacimenti capaci di affrancarla dalla dipendenza da Mosca (insieme a shale gas, nuovi rigassificatori e potenziamento della capacità di importare via Slovacchia, Polonia e Germania).
Il vicepremier della Crimea, Rustam Temirgaliev, nei giorni scorsi ha già fatto dichiarazioni minacciose in proposito, promettendo di trasferire alla repubblica la proprietà di tutti gli asset nel suo territorio, compresi i giacimenti e la compagnia energetica Chornomornaftogaz. «Dopo la nazionalizzazione – ha aggiunto ieri – dovremo decidere su una eventuale privatizzazione, se emergerà un grande investitore come ad esempio Gazprom».
Per le compagnie straniere coinvolte nei progetti offshore del Mar Nero sarà un bel grattacapo. Nel novero ci sono big del calibro di ExxonMobil – che ha già detto di aver congelato le attività in Ucraina – Royal Dutch Shell e l’italiana Eni, arrivata solo lo scorso novembre, con un contratto di Production sharing agreement (Psa) che sulla carta sembrava davvero favorevole: un’area di 1.400 km quadrati al largo della Crimea orientale, dove sono già state fatte alcune scoperte interessanti, e per la quale il gruppo di San Donato otteneva il ruolo di operatore e una quota del 50% della joint venture per lo sfruttamento, di cui fa parte col 10% anche Chornomornaftogaz.