Sergio Fabbrini, Il Sole 24 Ore 16/3/2014, 16 marzo 2014
LA PRIGIONIA DEL PARADOSSO RIFORMISTA
Come si riformano le istituzioni, non solo quelle politiche ma anche economiche? Ogni riforma è prigioniera di un paradosso: deve essere fatta da chi ha tutto o molto da perdere dalla riforma stessa. Come si dice universalmente, è poco ragionevole aspettarsi che i tacchini vogliano anticipare il pranzo di Natale. Più le istituzioni sono consolidate e più è difficile riformarle. Intorno a istituzioni consolidate si sono formati interessi, aspettative, abitudini che necessariamente ostacoleranno il cambiamento di quelle istituzioni.
Così è avvenuto con la riforma del mercato del lavoro o del welfare. E così era avvenuto finora con la riforma elettorale. Eppure, l’Italicum è stato infine approvato dalla Camera.
Non è stato facile, dato che il nuovo sistema elettorale è destinato a mettere in discussione il seggio di molti di coloro che l’hanno votato. Per questo, ogni occasione è stata buona per ostacolarne l’approvazione. Nel caso della parità di genere, l’occasione era giustificata. Molto di meno lo era nel caso delle preferenze. E, naturalmente, ancora di meno lo era nel caso del dimezzamento dell’Italicum che, una volta approvato, varrà per la Camera ma non per il Senato. Tuttavia, sarebbe stato sorprendente il contrario. Neppure le rivoluzioni, ci ha ricordato Tocqueville, hanno potuto azzerare le istituzioni precedenti. Figuriamoci se Renzi e i suoi potevano fare ciò che nessuno aveva mai potuto fare prima di loro: sostituire un vecchio assetto istituzionale con un altro completamente nuovo. La politica non è un seminario universitario.
Se ogni riforma deve fare i conti con la prigionia del suo paradosso, allora i compromessi necessari per uscire da quella prigionia non necessariamente sono dei "pasticci". Dipende. Un compromesso è utile se è suscettibile di attivare una dinamica di miglioramento, non lo è se invece va nella direzione opposta. L’Italicum dimezzato è accettabile se consente di trasferire il confronto sulla riforma del Senato, non lo è se esso rimarrà al centro della discussione. Se il Senato discuterà di come riformare la riforma appena approvata dalla Camera, allora ritorneremo alla palude. Il compromesso è stato inutile. Certamente l’Italicum potrebbe essere migliorato, ma questo non è oggi l’obiettivo strategico. La discussione, al Senato, dovrebbe riguardare il futuro del Senato stesso. Sarà compito della nuova legislatura, eventualmente e auspicabilmente, riaprire la discussione sulla parità di genere o sull’apertura del sistema di selezione delle candidature. È invece compito di questa legislatura discutere e deliberare sul ruolo del Senato in un sistema di parlamentarismo razionalizzato. La riforma del Senato deve diventare la priorità dell’attuale dibattito costituzionale. I sistemi elettorali si riformano per via ordinaria, quelli costituzionali richiedono procedure più complesse. Che debbono partire subito.
Ma devono partire con il piede giusto. Non si può chiedere ai senatori di suicidarsi, anche se l’abolizione del Senato sarebbe teoricamente giustificabile. Né è così importante chiedere ai senatori di lasciare il posto ad un’assemblea di municipalità o regionalismi, se non cambia il ruolo del Senato. Prima di dividersi sulla composizione del futuro Senato, è del ruolo di quest’ultimo che occorre discutere. Il Senato (qualsiasi ne sia la composizione) dovrà essere escluso dal rapporto fiduciario con il governo. Una volta deciso questo, si dovrà poi stabilire su quali leggi l’approvazione o il consenso del Senato saranno necessari e su quali materie invece il Senato non dovrà mettere voce. In proposito, il gruppo di lavoro coordinato dall’ex-ministro Quagliariello ha già prodotto una proposta ragionevole e immediatamente applicabile. Se si formasse subito un consenso tra la maggioranza di governo e Forza Italia su questo punto, allora l’Italicum dimezzato sarebbe tutt’altro che un pasticcio. Perché il cuore della riforma non è la sostituzione degli attuali senatori con i rappresentanti delle regioni e dei comuni, ma è la fine del doppio voto di fiducia (alla Camera e al Senato) al governo. Solamente la Camera dovrà avere questo ruolo, come avviene da tempo in tutte le principali democrazie parlamentari e semi-presidenziali europee. Sarà la fine delle doppie diverse maggioranze nelle due camere che tanto hanno contribuito all’instabilità.
Chiedere ai senatori di votare questa riforma è del tutto plausibile. I senatori non dovranno fare autodafé, bensì dovranno ridefinire il loro ruolo. Se l’obiettivo strategico è l’abolizione del voto di fiducia, non già l’abolizione del Senato, allora la futura composizione di quest’ultimo potrà essere oggetto di negoziazione. Certamente è necessario ridurre i costi della politica, certamente è ancora più necessario ridurre il numero dei senatori, ma tutto ciò non è sufficiente per migliorare il funzionamento di un sistema politico. Peraltro, l’approccio populista ha sempre prodotto dei guasti quando è stato applicato ai sistemi costituzionali. Se l’accordo sulla riforma elettorale conseguito alla Camera verrà confermato dal Senato, e se il Senato avviasse subito la deliberazione sulla propria riforma, allora un passo cruciale per uscire dalla prigionia del paradosso sarà realizzato. Una volta conseguito l’obiettivo di un parlamentarismo razionalizzato, la discussione su come selezionare o eleggere i futuri senatori avrà un’importanza secondaria.