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 2014  marzo 17 Lunedì calendario

LA SFIDA DI TAMBURI EATALY A PESO D’ORO “MA IL PIANO DI CRESCITA PROMETTE SCINTILLE”


Non è un fondo di private equity, che deve restituire i soldi ai propri investitori istituzionali dopo un certo numero di anni. Non raccoglie risparmio presso il pubblico. Non è una banca né una holding che controlla a cascata altre aziende quotate, stile scatole cinesi. La Tip (Tamburi Investment Partners) è qualcosa di diverso, la definizione più attinente è quella di finanziaria di partecipazioni. È la creatura di Gianni Tamburi, abile investment banker cresciuto negli anni ’80 all’Euromobiliare di Carlo De Benedetti e Guido Roberto Vitale, e oggi all’apice del successo forte di un più 58% messo a segno dal titolo nel 2013 e un ritorno medio annuo del 23,4% dal 2010 a oggi. «Dopo dieci anni di advisory indipendente, non mi divertivo abbastanza e negli anni Duemila ho iniziato insieme a 5 famiglie italiane a selezionare aziende in cui investire. Le famiglie sono diventate 50 prima della quotazione in Borsa nel 2005 e ora sono salite a un centinaio », racconta Tamburi. E controllano un portafoglio formato da una quindicina di aziende quotate con un valore di carico di 266 milioni alla fine del 2013 il cui valore intrinseco, secondo il team di Tip, è di 459 milioni. Come funziona il metodo Tip? All’apparenza sembra semplice, Tamburi e il suo team di analisi costruito in vent’anni di esperienza individuano un’azienda dal profilo di investimento interessante, con una bella storia di crescita da raccontare e numeri in regola. Poi coinvolgono nell’operazione
le famiglie che hanno a disposizione liquidità in eccesso e tutti insieme, attraverso un veicolo finanziario montato ad hoc, fanno l’investimento. L’ultima operazione è andata in scena pochi giorni fa quando è stato annunciato l’acquisto per 120 milioni del 20% della EatInvest, la holding della famiglia Farinetti che controlla Eataly. Il business messo in piedi in pochi anni da Oscar Farinetti, preso ad esempio anche dal neo premier Matteo Renzi, è arrivato a fatturare 177 milioni nel 2012 con circa 8 milioni di utile. La valutazione dell’azienda riconosciuta da Tip è però molto più elevata, 600 milioni. «Non possiamo nasconderci che la valutazione è alta e abbiamo anche esitato prima di chiudere, ma loro sono bravi, il piano di crescita esplosivo e il tutto è giustificato ». Per l’investimento in EatInvest Tamburi ha messo insieme 15 investitori con ticket da 9 a 3 milioni cadauno mentre la Tip ha finanziato il veicolo con risorse per 33 milioni. Il totale di 120 milioni è entrato nelle tasche di Farinetti, che evidentemente aveva bisogno di liquidità, con l’impegno però a riaprire il portafoglio quando si dovranno finanziare gli investimenti per le nuove aperture previste a Mosca, San Paolo del Brasile, Londra e negli Usa a Washington, Boston, Los Angeles e World Trade Center a New York. Tamburi e Farinetti hanno programmato una quotazione in Borsa per il 2016 o al massimo 2017 e l’obbiettivo non dichiarato è quello di raggiungere per allora una valutazione di un miliardo. Una crescita vertiginosa che sembra andare in parallelo con la velocità che il governo Renzi sta cercando di imporre alla politica, sperando di non ritrovarsi nel mezzo di una mega bolla pronta a scoppiare. Tamburi d’altronde negli ultimi anni ne ha azzeccate parecchie. Qualche mese prima del clamoroso boom di Moncler in Borsa dello scorso dicembre è riuscito a rilevare una parte della quota dell’azionista- manager Remo Ruffini a sconto rispetto al prezzo di collocamento. In precedenza era riuscito a portare a casa una buona plusvalenza investendo insieme a Borletti nei grandi magazzini francesi Printemps, poi rivenduti agli emiri del Qatar. Il piede sull’acceleratore era stato premuto già nel 2010 quando Tamburi e le sue famiglie di riferimento con ticket da 50 milioni cadauna avevano messo nel mirino il 6% della Prysmian, la ex Pirelli cavi, costituendo un nocciolo duro a fianco del manager e azionista Valerio Battista. La lista degli investimenti fruttuosi nel corso degli anni ha allineato nomi non altisonanti ma solidi come Interpump, Amplifon, Roche Bobois, Datalogic. «Nel complesso in tredici anni abbiamo effettuato investimenti per circa 1,5 miliardi in aziende italiane leader di mercato. Ma non abbiamo fretta di disinvestire, se la società va bene e dà dividendi perché venderla?». Se tutto va per il meglio, come negli ultimi anni, le famiglie sono contente poiché ottengono un rendimento importante dai loro capitali, in un periodo di tassi strutturalmente bassi. Ciò significa che in tempi di crisi si possono trovare in Italia sia aziende che vanno bene sia risparmi e capitali disposti a finanziarle. I nomi che Tamburi è riuscito a coinvolgere in una sorta di family office allargato sono di primo piano. Il principale azionista della Tip è la D’Amico società di Navigazione con il 10% ma al suo fianco da molto tempo ci sono i Seragnoli, gli Angelini, i Ferrero, i Manuli, i Marzotto, i Lunelli ma anche le Generali con il 6,1%. Lui li coccola, organizza incontri con gli imprenditori delle società acquisite, li fa sentire parte del business e non lo fa da padre padrone in quanto controlla solo il 6,5% della sua creatura. «Tamburi nasce come advisor che ha imparato a lavorare in partnership, e comprando blocchi di società quotate o di privati è riuscito ad attrarre i capitali delle famiglie italiane», dice un banchiere che lo conosce da tanti anni. Romano di nascita ma milanese d’adozione Tamburi negli anni ’80 era diventato il banker di punta dell’Euromobiliare e della Cir, la holding di De Benedetti per il quale seguì l’acquisto e poi la vendita della Buitoni. Il suo braccio destro era Alessandra Gritti, diventata sua compagna di vita e con la quale si è messo in proprio aprendo la Tamburi & Associati nei primi anni ’90. Il primo incarico di spessore arrivò dal governo Amato e da Luigi Cappugi, che era stato incaricato di formare una commissione per individuare le aziende che potevano essere privatizzate. E da lì partì il primo treno di privatizzazioni, con il famoso decreto Amato che obbligò alcune grandi aziende italiane a trasformarsi in spa dalla sera alla mattina. Poi arrivarono le grandi banche d’affari internazionali, da Schroders a Morgan Stanley, i cui responsabili vennero ospitati da Mario Draghi a bordo del famoso Britannia, e si spartirono la torta dei vari collocamenti in Borsa di Eni, Enel, Ina, Credit, Comit e via dicendo. Per dieci anni, dal 1991 al 2001 Tamburi si dedica esclusivamente alla consulenza finanziaria cercando di lanciare la sua boutique di m&a. Nel 1999 è a fianco di Ruggero Magnoni e della Lehman Brothers nella scalata del secolo, quella dell’Opa da 100 mila miliardi alla Telecom. Lo ha sempre fatto da liberista convinto, convinto che il mercato e le sue regole siano un toccasana per le economie ingessate come quella italiana, troppo pervase dalla politica e dalle partecipazioni statali. Dunque anche oggi, secondo il Tamburi pensiero, l’Italia ha bisogno di una nuova scossa da privatizzazioni, come già il governo Letta aveva messo in cantiere. Renzi è sulla buona strada, i “frenatori” di professione oggi sono in difficoltà. E Tamburi è convinto che è venuto il momento di dare un’altra spinta sull’acceleratore: «Non solo il governo deve vendere la Sace, le Poste, la Cdp Reti ma dovrebbe costringere i Comuni a mettere in Borsa tutte le utilities locali, a partire da Acea e A2a, sfruttando la liquidità oggi esistente sui mercati e togliendole dall’orbita della politica ». Un programma che Renzi, da ex sindaco, potrebbe anche cogliere al volo se servirà a dare una svolta al sistema economico italiano, già alle prese con il dissolvimento dei salotti targati Mediobanca. E il caso Tip sta lì a dimostrare che anche nella finanza piccolo e italiano a volte può essere bello.