Federico Fubini, la Repubblica - Affari & Finanza 17/3/2014, 17 marzo 2014
YUAN, RUBLO E REAL: FINISCE LA CORSA DEI BRIC LE SVALUTAZIONI PRESENTANO IL CONTO ALL’EURO
A volte la lettera scarlatta è davvero semplicemente sul camino. Non servono i nascondigli, basta guardare ciò che è sotto gli occhi di tutti. Un’occhiata ai bilanci delle grandi banche centrali, al debito nell’economia globale nel 2007, e alla direzione che hanno preso alcune delle principali valute dei Paesi avanzati e di quelli emergenti desta un sospetto: il sistema monetario internazionale, così come lo abbiamo conosciuto dopo il crollo di Bretton Woods, non si sente più tanto bene. Le notizie sul suo decesso sono premature, ma questo è tutto ciò che è possibile affermare con certezza a quasi otto anni dai primi sintomi della più lunga crisi finanziaria dagli anni dei fascismi e delle guerre in Europa. La scivolata di decine di valute nell’ultimo anno rischia di apparire più il sintomo di un’instabilità sottostante che una semplice competizione mercantilista di tipo tradizionale. Gli stessi tremori dello yuan di Pechino, sul quale l’euro d’improvviso si è rivalutato di quasi il 5% nelle ultime cinque settimane, sembrano raccontare una storia più grande persino dell’economia cinese. I 1 2 l regime di moneta «fiduciaria» in vigore da fine ‘900, non più legata in modo diretto o indiretto all’oro ma alla credibilità delle istituzioni e dell’economia, dunque espandibile in quantità in teoria illimitate, ha vissuto giorni migliori. E il bollettino delle svalutazioni di questo
ultimo anno, unito a quello dell’espansione della liquidità e del ricorso al debito, contiene un messaggio che non riguarda più solo il crollo della lira turca o del peso, la caduta dello yen o l’incrinarsi dello yuan cinese. Il Gold Standard perì fra le due guerre per i tassi di cambio irrealistici e la soffocante insufficienza di moneta legata all’oro. Bretton Woods finì 40 anni fa quando il dollaro, schiacciato dai costi della guerra in Vietnam, dovette svalutare sul metallo giallo. La moneta fiduciaria invece non si sente troppo bene per i motivi opposti: se ne produce in eccesso, attraversa quasi senza attrito ogni frontiera e genera debito senza fine. Persino la Cina e la sua valuta improvvisamente fragile iniziano a rivelare i sintomi di questo malessere. Essi si trovano ovunque. A prima vista ciò che è accaduto negli ultimi 14 mesi ha tutta l’aria di una corsa contro l’euro, il franco svizzero, la sterlina e (in misura minore) il dollaro americano. Rispetto alla valuta europea le svalutazioni dei Paesi emergenti, dall’inizio del 2013, sono state generalizzate e spesso violente. Non c’è solo il peso argentino, crollato del 40,8% (tutti i valori sono riferiti al 14 marzo) per ragioni legate alla disastrosa gestione di governo mai uscito dal default di dodici anni fa. Né c’è solo la caduta rispettivamente del 24% e del 20% di valute come la lira turca o il rublo russo, affondate dalle tensioni politiche e geopolitiche e non solo dalla vulnerabilità delle rispettive economie. Persino Paesi governati con competenza - o minore incompetenza - hanno conosciuto drastiche svalutazioni dall’inizio dell’anno scorso: il peso cileno è crollato del 20% sull’euro, il real brasiliano del 17,5%, la rupia indiana del 14,5%, il dollaro di Taiwan del 9%, quello di Hong Kong del 5%. Anche fuori dal panorama delle economie emergenti la corsa al ribasso su euro, dollaro, franco svizzero e sterlina non ha fatto che accelerare. Gli esempi non mancano. Nell’ultimo anno il dollaro australiano ha perso il 18% sull’euro, quello canadese il 13,5%, la corona norvegese ha perso oltre il 9% e lo yen giapponese ha svalutato del 19% negli ultimi 14 mesi. Rispetto a queste oscillazioni, la grandi valute di riserva del pianeta sono rimaste più stabili fra loro, ma non di molto dato che il dollaro in 12 mesi ha perso il 6,3% sull’euro e quasi il 10% sulla sterlina. È dunque corretto rovesciare la foto e concludere, semplicemente, che l’euro si è rivalutato su quasi tutte le monete perché il suo tasso di cambio è ormai il solo a non essere gestito. Ciò ovviamente ha un prezzo per le imprese italiane ed europee. Secondo una stima, le svalutazioni riguardano Paesi che nel complesso contribuiscono al 6,5% del Pil tedesco come punti di destinazione dei prodotti made in Germany. Non può passare molto tempo prima che anche la Repubblica federale ne avverta l’impatto e l’Italia di riflesso con lei. Di recente persino un marchio solido come l’Adidas ha presentato risultati deludenti e ha suonato l’allarme sul tasso di cambio. E il gruppo tedesco di prodotti per lo sport ha numerosi fornitori in Friuli, Veneto e Emilia- Romagna. Ma, appunto, questa non è solo una vicenda di svalutazioni competitive. Un’occhiata allo yuan e al sistema finanziario cinese fa pensare che dopo il grande terremoto del 2008-2009 sia in atto uno smottamento più profondo. Lombard Street Research stima che dal 2007 al 2012 il debito delle «società non finanziarie » cinesi sia salito del 40% del Pil. Questa definizione include l’economia «grigia» e il sistema bancario ombra, fatto di operatori e investitori al di fuori del sistema del credito ufficiale. Ciò significa che, solo in questo segmento dell’economia cinese, l’ammontare totale di debito è salito di 3.200 miliardi di dollari in appena cinque anni. Ad essi vanno poi aggiunti circa mille miliardi di altro debito, una volta tenuto conto di quello del governo e delle famiglie. Ormai l’esposizione totale nell’economia cinese, banche escluse, è prossima al 200% del Pil del Paese: livelli da democrazia avanzata e in declino, che cerca di comprare il consenso, non da superpotenza emergente a partito unico. Nel frattempo il tasso di crescita della Cina è rallentato, in un sistema sempre più dipendente da iniezioni di nuovo credito per investimenti in aeroporti, grattacieli, acciaierie e pannelli solari sempre più in eccesso. In altri termini, ogni dollaro di debito in più sulla Cina genera un po’ meno prodotto interno lordo. Inevitabilmente i grandi default privati stanno iniziando, da ultimo quello di un impianto nel cuore del distretto carbonifero chiamato Haixin Steel. E proprio l’eccesso di debito è fra i fattori che spinge ormai una maggioranza degli analisti a ritenere che la Repubblica Popolare stia perdendo competitività: nel medio periodo, Pechino deve svalutare ordinatamente, ma in profondità, o rischia una stagione di insolvenze nel settore privato e di instabilità finanziaria. In questo la Cina è un Paese finalmente «normale». È parte di una tendenza più grande persino di lei. È qui che si sente di più il malessere di fondo del sistema di moneta fiduciaria, quella che si può creare illimitatamente senza alcuna corrispondenza con beni reali sottostanti. Il ricorso sempre più aggressivo al debito è infatti stata la risposta dell’intero sistema finanziario globale allo choc dei mutui subprime e al fallimento di Lehman Brothers. La Banca dei regolamenti internazionali stima che dal 2007 il debito dell’economia globale sia salito del 40% a 100 mila miliardi di dollari. Le grandi banche centrali hanno risposto a una crisi di debito aiutando il sistema a generarne sempre di più. Esso si riflette specularmente, sotto forma di attivi (cioè di crediti), nei bilanci della Federal Reserve, della Bank of Japan, della Banca Centrale Europea o della Bank of England. Con le sue politiche di creazione di moneta la Fed ha prodotto e immesso circa mille miliardi di dollari solo nell’ultimo anno e il suo bilancio è quintuplicato in sei anni da 750 milioni e 4000 miliardi. Quello della Bce, spesso criticata per non aiutare abbastanza il sistema finanziario, è triplicato (solo di recente ha iniziato a declinare). E anche la Bank of England o la Bank of Japan hanno creato moneta in quantità senza precedenti per tenere a galla il sistema finanziario. È questo eccesso di liquidità che ha creato direttamente svalutazioni molto aggressive, come quelle dello yen giapponese. O a spinto sempre più debito nei Paesi emergenti: la caduta delle loro monete nell’ultimo anno si spiega in parte con il timore che questa liquidità venga ritirata dalle banche centrali, in parte con l’idea che i debiti ormai siano insostenibili. Si dice che tutte le riserve ufficiali d’oro del mondo entrino in una piscina di dimensioni olimpiche: gli anni ‘30 hanno rivelato che è troppo poco per fare da fondamenta a un sistema valutario stabile. Ma anche una liquidità che l’oceano non basta a contenere, a volte, può dare un po’ di maretta.