Gianni Mura, la Repubblica 17/3/2014, 17 marzo 2014
IL MEDIANO CHE GOCAVA CON RIVERA E I RAGAZZINI “OGGI SONO TUTTI TRISTI”
Con Giovanni Lodetti si può partire da una foto che sa di cinema neorealista. È dell’ottobre 1963. Il sacerdote sulla sinistra potrebbe essere Aldo Fabrizi. Al centro, il ventunenne Lodetti, titolare nel Milan, palleggia circondato dai bambini del suo paese («Caselle Lurani, nella Bassa lodigiana, allora non faceva più di 500 abitanti») sul campetto dell’oratorio, dietro la chiesa. «Don Giovanni Delle Donne si chiamava il prevosto. Nonché proprietario del mio cartellino. La domenica giocavo due partite, al mattino coi ragazzi, al pomeriggio con quelli più grandi. Non mi è mai pesato. Poi ho lavorato da garzone meccanico per dare una mano in casa. Eravamo quattro fratelli, due sono morti giovani. Mio padre era falegname. El dané dana, ripeteva mia madre, il danaro danna, ma forse era un modo per consolarsi di essere poveri. Il mio primo ingaggio me l’ero trovato con la Pejo, a Milano. Quando sono andato a dirlo al prevosto ha tirato un pugno sul tavolo che sembrava un tuono. Niente da fare, per te ho altri piani. Cioè il Milan, un anno dopo. Mi ricordo che c’era la festa di san Giuseppe e arriva un dirigente del Milan, Trapanelli. Mi hanno pagato centomila lire e una muta di maglie. Ma l’esame vero fu due mesi dopo, al campo Scarioni. Promosso. Al Milan ho trovato i due allenatori che mi hanno insegnato di più. Nelle giovanili, Mario Malatesta: di lì sono usciti Noletti, Trapattoni, Trebbi, Salvadore, Pelagalli, Ferrario, Bacchetta. E poi Liedholm, che curava molto la parte tecnica. Mi aveva ribattezzato
Bikila».
È stato difficile passare da Caselle Lurani a San Siro?
«È stato più difficile capire come funzionavano le cose. Ero aggregato alla prima squadra, ad Asiago, e dovevo firmare il mio primo contratto. Prima, in meno di quattro ore, Viani e Rocco avevano già sistemato tutto con la prima squadra. Viani e Rocco erano due omoni che mettevano soggezione anche da seduti, dietro a un enorme tavolo ovale, al primo piano dell’albergo. Entro e dico buongiorno, loro stanno leggendo uno la Gazzetta e l’altro il Corriere. Non mi filano neanche di striscio. Dopo dieci minuti Rocco dice a Viani: Gipo, visto che el mulo xe rivà, domandighe quanto ch’el vol.
Quanto vuoi? dice Viani. Tre milioni l’anno e l’entrata nella rosa, dico. Significava essere considerato quasi titolare e prendere l’80% dei premi-partita. Viani riprende a leggere e dopo qualche minuto fa: la rosa te la devi guadagnare e più di un milione non ti diamo, prendere o lasciare. E Rocco: Gipo, fa ‘l bravo, femo uno e mezzo. Ho firmato subito, poi ho capito che era tutta una recita, come i due poliziotti nei telefilm americani, uno ti dà uno schiaffo e l’altro ti offre una sigaretta».
Qual è stato il giorno più bello, da calciatore?
«Sarebbe facile parlare delle Coppe dei Campioni o dello scudetto o dell’Intercontinentale. Per me il giorno più bello è stato quello del provino alla Scarioni. Perché il treno buono passa una volta sola. O sali o resti giù. Dal mio paese c’erano due corriere per Milano, alle 6 e alle 12. Ho preso quella delle 6 per non rischiare. Fermata a piazzale Corvetto, poi la 93 fino a Lambrate e poi a piedi allo Scarioni. Ricordo che c’era un caldo della Madonna, nessun genitore, nessun parente, solo il prevosto che s’era messo in testa un fazzoletto con le quattro cocche. Gioann, famm fa’ bela figura, mi disse. Da questo punto di vista non ho rimpianti, ho sempre giocato con la stessa passione che avevo all’oratorio. Sempre, anche da professionista. Il primo choc è stato dopo l’esordio in A, a Ferrara. 3-0 per noi. E martedì, all’Arena, Maldini mi mette in mano il mio primo premio-partita, 100mila a punto, quindi 200mila, per me 180. Diciotto fogli rosa, tant’è che li chiamavano salmoni, grandi come mezzo tovagliolo. Per paura che in tram me li rubassero sono andato a piedi dall’Arena al Corvetto e prima di cena li ho consegnati a mio padre, che guadagnava 45mila al mese. Li ha presi, li ha contati lisciandoli sul tavolo, dopo il sesto già mia mamma piangeva. E alla fine papà m’ha detto brao Gioannin e se li è messi in tasca. Un po’ ci sono rimasto male, speravo che almeno un deca ma lo lasciasse, ma mi è passata subito».
E la ferita dei mancati mondiali in Messico, dopo quanto s’è chiusa?
«È rimasta aperta e mi ha fatto male per anni. Meno da quando credo di aver capito cos’è realmente successo.
Tutti sanno che s’infortuna Anastasi e al suo posto ne convocano due, Boninsegna e Prati. Uno di quelli già in Messico da qualche giorno dovrà tornare a casa, ma noi del Milan sapevamo che Prati aveva una caviglia acciaccata e non era in grado di giocare, infatti non giocò. Sandro Ciotti mi mise una pulce nell’orecchio: se hanno chiamato uno del Milan e uno dell’Inter, non credi che toccherà tornare a uno del Milan o dell’Inter? Ciò, speremo de no, gli ho detto facendo il verso a Rocco. Anche perché dai test ero uno di quelli più resistenti all’altura. Quando il massaggiatore mi ha detto che mi volevano i capi, lì ho capito.
State sereni, ho detto ai compagni. Nella stanza c’erano Mandelli, il capodelegazione, Valcareggi, il dottor Fini e un altro dirigente. Ci spiace, Lodetti, ci addolora, ma siamo costretti a tagliarti. Ma non ti preoccupare, convoca tua moglie, per tutta la durata dei mondiali sarete ospiti della federcalcio ad Acapulco e riceverai lo stesso premio che daremo agli altri».
E lei?
«Io gli ho detto che erano delle facce di merda, che non si può umiliare così la brava gente e che sarei tornato in Italia col primo volo, cosa che ho fatto. E del premio ne ho visto meno della metà, ma non m’interessava. Continuavo a non capire perché dovessi tornare a casa io per far posto a un Prati zoppo. Continuavo a chiedermi se avevo sbagliato qualcosa, ma andavo d’accordo con tutti. Da qualunque parte la girassi, era un’ingiustizia bella e buona, anzi brutta e cattiva. E non lo sapevo, ma era solo il primo tempo del film che mi avrebbe cambiato la vita e la carriera. Dopo il Messico e prima delle ferie, bel discorsetto di Carraro: il Milan deve ritornare al rango che gli compete, Lodetti è stato umiliato prima del via, Rivera coi sei minuti, sarà la stagione del riscatto. Bene, vado al mare in Versilia e dal bar della spiaggia mi dicono: c’è il Milan che ti vuole. È la Rina, la segretaria: Giovanni, ti passo il tuo nuovo presidente. Com’è, non c’è più Carraro? No, sei tu che vai via, ti hanno dato alla Samp, ti passo il dottor Colantuoni. Mi è cascato il mondo addosso».
Presagi, nell’aria?
«Nessuno. Dal Milan alla Samp voleva dire non giocare più per gli scudetti, né per le coppe, ma per salvarsi magari all’ultima domenica. Ma non si poteva rifiutare. E la Samp aveva ben tirati i cordoni della borsa. Ho chiesto a Carraro di darmi una mano per ammorbidire Colantuoni e lui m’ha risposto secco: non posso, lei non è più un giocatore del Milan. Così sono andato a Genova, allenava il dottor Bernardini che mi ha dato subito la fascia da capitano, e mi sono anche trovato bene. E tra i ricordi più belli conservo il premio al miglior doriano della stagione, quello dato dai tifosi, sì, quello che non ha voluto ritirare Cassano, quel pirlotto. Ovviamente la ferita non si è chiusa, anzi è stato peggio. Perché nessuno del Milan in quei giorni mi ha fatto una telefonata: non Rocco, non Rivera, nemmeno il Trap, che eravamo sempre insieme e ci chiamavano le due cocorite. Nessuno: cancellato io coi miei dodici anni di Milan. E questa non l’ho ancora capita adesso. Non finirò mai di ringraziare mia moglie Rita, una donna eccezionale. Se non c’era lei con me, non so come sarebbe andata a finire».
Del Messico ha poi capito, giusto?
«Parlando col dottor Bernardini ho saputo che il Milan da mesi faceva la corte a Benetti. Aveva offerto, in ordine sparso, Malatrasi, Trapattoni, Sormani, ma Bernardini aveva detto: si fa l’affare solo se ci date Lodetti. Quindi, ero da sacrificare a un interesse di mercato. Meglio se saltavo il Messico, c’era il rischio che giocassi bene. Dopo cena, andavo sempre a fare una passeggiata con Bearzot e lui mi tranquillizzava: figurati se vai a casa tu, e poi chi corre? Bearzot era una persona onesta, se fosse stato al corrente non mi avrebbe preso in giro. La vicenda è nata sopra le nostre teste, è nata al Milan».
E da allora ce l’ha con Rivera?
«No, da dopo. Voglio precisare che Gianni è il più grande calciatore italiano che ho visto, per fantasia e preveggenza del gioco. Degli stranieri che ho marcato, la trinità è Di Stefano, Bobby Charlton e il mio amico Suarez. Lo marcavano, Rivera, ma si faceva trovare smarcato. Non è vero che non correva. Correva, ma io correvo il doppio ed ero orgoglioso di correre anche per lui, perché ci faceva vincere. Per me, fuoriclasse è Bolt e fuoriclasse Coe, ma è un discorso lungo. Rispondo alla domanda. A Genova ho fatto il corso da allenatore di terza categoria, buono per le giovanili. Corso tenuto da Giovanni Ferrari, non dal primo che passa. Sono arrivato primo su 70, massimo dei voti, 120. Quando Rivera è diventato presidente del Milan gli ho telefonato per dire che avrei fatto volentieri l’allenatore di ragazzini, mi andava bene tutto. Freddino, mi ha detto che al momento non c’erano possibilità e mi avrebbe fatto sapere. Dopo tre mesi di silenzio ho saputo che il posto l’aveva dato a Ferrario. E con lui ho chiuso, senza rancore ma anche senza una gran voglia di rivederlo o richiamarlo. L’ho rivisto dopo una trentina d’anni fuori Bologna, al paese di Bulgarelli, quando hanno intitolato il campo a Giacomino, che era stato mio testimone di nozze, e io il suo. E con Rivera abbiamo ripreso a parlare. Ma sa perché mi spiace che non mi abbia chiamato? Perché sarei stato un bravissimo allenatore, con una vocazione nata all’oratorio. E per primo allenamento avrei convocato la squadra alle 7 di mattina, in una stazione affollata di metrò, e gli avrei detto: questi qui fanno i sacrifici, non voi. Quando mi chiedono la differenza tra il calcio dei miei tempi e quello di oggi rispondo che il controllo telefonico di Cattozzo, un tecnico del Milan, era al telefono di casa alle 22.45. Se non rispondevi, multa. Invece a quell’ora o anche più tardi molti oggi escono di casa per andare in discoteca. Io ci ho messo quasi due anni a farmi una 600, Niang aveva la Ferrari appena arrivato al Milan. Ma non so se sono felici, hanno tutto in apparenza ma non la passione».
Con cui lei ha giocato fino a quando?
«Fino al 2007. Poteva essere l’82, avevo smesso, ero al parco di Trenno a fare footing e mi fermo a vedere una partita di ragazzi sul campo a 11. Mi metto dietro una porta e chiedo al portiere: mi fate giocare? Ma non vedi che siamo tutti giovani, cosa entri a fare? ha detto lui. Ho insistito: una squadra è in dieci, e sotto 4-1. Va bene, entra. È finita 4-4 e me la sono cavata bene. Come ti chiami? Ceramica, ho risposto. Avevo una giacca a vento con su scritto ceramica, non volevo fare il bauscia. Mi hanno accettato e per due anni, ogni sabato alle 9.30, per loro ero Ceramica. Finché non è passato uno anzianotto in bici, mi ha squadrato per bene e poi ha detto: ragazzi, ma lo sapete chi è quello lì? È uno del Milan, l’ho visto cancellare Bobby Charlton. Finito l’anonimato, siamo andati avanti fino al 2007. A mia moglie dicevo che andavo a giocare a tennis, sennò stava in pensiero. Le scarpe da calcio numero 42 coi tacchetti di gomma me le portavano a Trenno. Solo quando mi sono incrinato quattro costole ha capito che non giocavo a tennis».
Rimpianti?
«Quelle due ferite, ma sono felice. Gli anni tra il ‘60 e il ‘70 sono stati i più belli del secolo, non solo per il calcio, se lo faccia dire da uno che non ha studiato. C’era più lavoro, più speranza, più passione, c’era come qualcosa nell’aria che adesso non c’è più».