Riccardo Staglianò, la Repubblica 16/3/2014, 16 marzo 2014
UN GIORNO TUTTO FATTO SOLO DI CLIC
Il film della mia vita è di una noia mortale. La parete della cucina. Il manubrio della bici. La solita strada, bianca come il sale. Il computer appoggiato su una pila di riviste ingiallite. La schermata di Repubblica. it se la batte con Gmail nella classifica delle inquadrature. Il tavolo di un ristorante, con un amico che si intravede. Poi di nuovo lo schermo, da ogni angolo possibile. Una cena a casa. La parete della cucina. L’indomani si riparte. Sognavo Indiana Jones, mi sono risvegliato in Ricomincio da capo.
Il tutto documentato da un occhio inesorabile. Che si apre e si chiude automaticamente due volte al minuto. Millequattrocentoquaranta foto al giorno. Scattate, con bersagli casuali, da una macchinetta che pesa venti grammi, è più piccola di un pacchetto di cerini e si attacca ai vostri abiti con una clip piuttosto versatile. Promettendo una «memoria fotografica consultabile e condivisibile». Benvenuti nel mondo di Narrative, ultima incarnazione del lifelogging, la tendenza (inquietante o rassicurante, a seconda dei punti di vista) di tenere costanti tracce digitali della propria esistenza.
A giudicare dal numero di nuovi modelli, si tratta di un fenomeno esplosivo. Un mese fa si è chiusa la campagna di finanziamento su Kickstarter di meMini, una telecamerina che registra in continuzione ciò che sta davanti ai vostri occhi. I neozelandesi che l’hanno concepita avevano chiesto alla rete 50mila dollari, ne hanno ottenuti il doppio e ora cominceranno a produrla. Nel presentarla puntano sul «dono del giudizio retrospettivo», nel senso che quando succede qualcosa di notevole non hai che da pigiare su un tasto replay e la macchina lo salva, scartando tutto il resto. In questi giorni sono partite anche le consegne di Narrative, nata un anno fa sotto altro nome (Memoto) dall’idea di ingegneri svedesi passati anche loro attraverso la stessa trafila di crowdfunding. Per non dire di Autographer, Looxcie, le varie Muvi, GoPro e la capostipite Vicon Revue, originariamente concepita come un progetto di ricerca dei laboratori Microsoft che, da 100 a 300 euro, con sottili differenze, forniscono un servizio analogo: documentare in modalità automatica le vostre giornate. Suggerendo il medesimo, lancinante interrogativo: a che pro?
Gli scienziati sociali ci vedono un’inedita opportunità. Aiden Doherty, che studia la salute della popolazione a Oxford, ad esempio. Spiega che le «wearable camera soffrono un gran potenziale a quelli come me per capire meglio gli stili di vita delle persone e i contesti in cui si svolgono. Una conoscenza utile a suggerire politiche su come modificarli». Insomma cavie volontarie di un grande esperimento tra epidemiologia e antropologia. Oltre a quelli per la collettività, vede però vantaggi anche per i singoli: «Studi clinici hanno dimostrato promettenti miglioramenti nella memoria autobiografica in pazienti con certe forme di demenza dopo aver ripassato visivamente la giornata». Su un altro fronte Steve Mann, che insegna ingegneria elettronica all’università di Toronto, le considera strumenti di resistenza. Lui, che da una dozzina d’anni va in giro con un prototipo di fotocamera al collo e ha inventato un precursore dei Google Glass, ha anche coniato il termine “subveglianza”. Che, dalla folta letteratura che ci manda, significa l’opposto di sorveglianza, l’unica risposta possibile dal basso allo strapotere delle telecamere a circuito chiuso. Loro controllano noi, noi controlliamo loro. Per questo, se di leggi nuove abbiamo bisogno, devono «restringere le restrizioni agli occhiali digitali» o ad altri apparecchi simili, perché colmano la sproporzione tra l’autorità e i cittadini.
E la privacy? Già citarla ti attribuisce un’età, come dire «Sip» o fare ancora i conti in lire.
Wired ha calcolato che ogni giorno vengono caricate in media 300 milioni di foto su Facebook e altri 40 milioni su Instagram, prevalentemente da smartphone. È sicuro che in quel profluvio di immagini finisca, come danno collaterale, anche qualcuno che non doveva essere inquadrato. E men che meno postato su un social network. Scattare una foto con un telefonino resta però un atto riconoscibile. La carica del clic continuo è invece totalmente invisibile agli altri. Neppure quando ce l’hai al collo sai
quando a Narrative scadono i 30 secondi tra uno scatto e l’altro (l’assurdità delle foto che illustrano questo pezzo lo testimoniano). Nessun rumore, tantomeno una luce. È la roulette russa della riservatezza. Chi c’è c’è. Con scenari ancora più inquietanti quando l’uso dovesse diventare di massa. Perché se la normalità sarà registrare tutto, ci sarà chi si insospettirà quando terrete l’obiettivo spento. Il Garante, Antonello Soro, vede il rischio di una «polverizzazione della sorveglianza » con «tanti piccoli accumulatori di spezzoni di vite altrui» che potrebbero «andare in onda sul web, con gravissime violazioni delle norme a difesa dei dati personali ». Negli Stati uniti, dove pure l’American Civil Liberties Union ha redatto un manualetto su come comportarsi, sembrano più disinvolti. «Quando sei in pubblico, per definizione, sei pubblico» ha detto al New York Times Jeff Jarvis, professore di giornalismo alla City University di New York, «e non voglio che qualcuno mi dica che non posso scattare foto senza il suo permesso ». Lo stesso articolo ricorda le reazioni furenti, con minacce fisiche, di certe signore fotografate senza autorizzazione nei parchi dai primi fortunati possessori di macchine Kodak, anno domini 1899. La gente, è il sottotesto, con il tempo si abitua a tutto. Probabilmente è vero, ma ciò non ci emenda da un tentativo di valutazione critica del progresso tecnologico. Al termine del mio collaudo con Narrative mi chiedo a cosa potrebbe servirmi. Già riguardare le foto prende tempo, figuriamoci se uno dovesse selezionare un album con il best of quotidiano. O addirittura tagliare i video. Così, alla rinfusa, sono una discarica inguardabile. La differenza tra la vita e il cinema è che la prima non prevede il montaggio. E, sinceramente, non è una mancanza da poco.