Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  marzo 16 Domenica calendario

CERVO BIANCO E LE CAMICIE NERE


TORINO Si ricordava Cristoforo Colombo e la sua impresa. Era un 12 di ottobre, dunque. Cadeva l’anno 1926. La condanna a cinque anni, sette mesi e quindici giorni di reclusione venne pronunciata dal tribunale di Torino anche se, come scrisse La Stampa, «ieri, anniversario della scoperta dell’America, gli uffici del Palazzo di Giustizia e le aule giudiziarie furono chiusi ». Fece eccezione, notò con perfidia il giornale, «quest’aula della VII Sezione, perché il Tribunale ha rinunciato alla celebrazione dell’America per liquidare in giornata questo americanofenomeno ». Oltre alla condanna per truffa nei confronti della contessa austriaca Melania Khevenhüller, alla quale aveva sottratto
un milione di lire, l’altra sola certezza era che l’imputato Edgar Arthur Laplante, meglio noto come presunto principe pellerossa White Elk (Cervo Bianco) o Tewanna Ray, veniva da oltre oceano. Era nato nel 1888 a Rhode Island, nel Canada, da un muratore canadese e da una nativa americana. Tutto il resto, a cominciare dal sangue principesco della tribù dei Tuscarora, apparteneva all’universo della congettura ed era materia da teatro di Luigi Pirandello, viaggiando sul labile confine fra verità e finzione, realtà e illusione.
Sicura era pure la caduta, dopo l’ascesa. Cervo Bianco-Laplante aveva spopolato nei teatri, nei cinema, nei salotti e negli alberghi di lusso di mezzo mondo, approdando in Italia giusto novant’anni fa, nel 1924. Frequentò aristocratici e industriali, ma anche gerarchi e capi del fascismo si fecero sedurre dal fascino selvaggio dell’uomo venuto dal West: gli diedero la tessera onoraria del Partito. Di aspetto piacevole, faceva il cantante e il ballerino, ma soprattutto
in Europa s’improvvisò mecenate, presumibilmente più con denaro altrui, e si disse rappresentante degli interessi degli indiani irochesi. Ma da quel 12 ottobre del ’26 la casa di Cervo Bianco sarebbe stata a lungo una cella delle carceri Nuove di Torino. Fu lì che conobbe il giovane Massimo Mila, grande musicologo, detenuto per attività antifasciste, che avrebbe poi ricordato come Laplante non avesse nemmeno i soldi per comprarsi il tabacco.
Ora Edgar Arthur Laplante e la sua storia avventurosa e leggendaria, già narrata da Ernesto Ferrero nel romanzo L’anno dell’indiano (Einaudi, 2001), rivivono nel documentario Chief White Elk che il regista Beppe Leonetti sta girando su di lui grazie al riordino delle sue carte fatto dal Museo Cesare Lombroso di Torino. Qui, nel Palazzo degli Istituti anatomici di corso Massimo d’Azeglio in cui il criminologo veronese aveva la cattedra universitaria e la sua collezione criminologica, sono custoditi gli oggetti personali di White Elk.
Come il costume da pellerossa acquistato da Edgar alle Galeries Lafayette di Parigi. E ci sono gli album di fotografie, qualche suo disegno e le tante lettere che persone di svariata provenienza, dalle nobildonne alle popolane, dai fascisti agli ufficiali dell’esercito, dai bambini ai mutilati di guerra, gli scrissero. Lo fecero spesso per avere e ottenere del denaro, ma pure per esprimergli la loro ammirazione, come nel caso dei figli di Emilio Salgari. I documenti sono nell’edificio torinese perché il professor Mario Carrara, erede di Lombroso nell’insegnamento e nella direzione del museo, oltre che suo genero, in occasione del processo a Cervo Bianco venne incaricato di redigerne la perizia psichiatrica. Il giudizio di Carrara, che fu uno dei pochi docenti italiani a rifiutarsi di giurare fedeltà al regime fascista, confermò quanto avevano stabilito i colleghi della Svizzera, paese in cui White Elk era stato arrestato e condannato a un anno, nel 1925, prima di essere estradato in Italia. Il preteso principe pellerossa, per i medici, era «un bugiardo patologico dalla personalità istrionica».
Mentitore incallito o meno che fosse, Laplante era emigrato in Europa alla testa di una compagnia teatrale che la Paramount aveva ingaggiato per promuovere il film The Covered Wagon.
Pare che avesse cominciato a farsi chiamare Cervo Bianco in Canada. La tournée nel Vecchio Continente si trasformò in una marcia trionfale. Andò a Bruxelles, a Londra, a Parigi. I giornali lo descrivevano come amico di Rodolfo Valentino, con il quale avrebbe girato dei film, e del principe di Galles, nonché ex soldato ferito nella Grande Guerra, sebbene negli archivi militari degli Stati Uniti non ve ne fosse traccia. A Nizza, in Costa Azzurra, avvenne l’incontro con Antonia e Melania Khevenhüller, che s’invaghirono di lui. Era la svolta, destinata a marchiare la sua esistenza. Nel 1924, anno dell’uccisione di Giacomo Matteotti, Cervo Bianco giunse in Italia. Seguì le contesse a Trieste, poi si spostò a Roma, a Firenze, sulla Riviera Ligure, dove venne accolto al suo arrivo da folle entusiaste. I fascisti lo consideravano uno dei loro. Edgar stette al gioco. Distribuiva denaro in beneficenza a orfani, donne giovani e anziane, poveri, mutilati di guerra, associazioni sportive e militari. In circa sei mesi, stabilirà il processo di Torino, le Khevenhüller videro i loro conti dimagriti di un milione di lire. Laplante, incurante, si faceva fotografare con le camicie nere, facendo il saluto romano e visitando le grandi industrie. Alla Richard Ginori, a Firenze, gli donarono addirittura un busto che lo immortalava. Chiese un colloquio con Mussolini, che non avverrà mai. Pur avendo ricevuto dall’estero informazioni sul conto di White Elk, che lo dipingevano quale truffatore e impostore, il Duce preferì tacere. Quando Melania e Antonia cercarono di riavere il denaro, Edgar le rassicurò, inventandosi un patrimonio di famiglia da recuperare attraverso il principe di Galles. Naturalmente non era vero. Arrivato a Torino per farsi curare la sifilide all’ospedale di San Vito, nell’inverno del 1924, senza soldi e messo alle strette dalle contesse, decise di cambiare aria. Raggiunse la Svizzera. Fu l’inizio della fine. Estradato in Italia e portato a Torino, dove era stato denunciato, venne processato. Il cronista de
La Stampa, il 13 ottobre del ’26, chiudendo l’articolo scrisse che Laplante «l’America era venuto a cercarla in Italia». Quando fu liberato, ritornò negli Stati Uniti. Morì in Arizona nel 1944, dimenticato dagli uomini e da Manitou.