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 2014  marzo 17 Lunedì calendario

SHERLOCK HOLMES AVEVA UN MODELLO CHIAMATO GARIBALDI


Madre irlandese, padre italiano, nato nel centro povero di Manchester, e «vero Sherlock Holmes», almeno secondo la sua biografa Angela Buckley. Jerome Caminada fu alla fine del XIX secolo uno dei più brillanti e geniali poliziotti vittoriani, il primo a raggiungere l’alto grado di Superintendent nel dipartimento di investigazioni criminali della città inglese.
Risulta non avesse pari nell’uso della logica, coltivasse una fede profonda del lavoro della scientifica e amasse travestirsi per rendere più efficaci poste e inseguimenti. «Ci sono così tanti paralleli - assicura la Buckley - da far apparire chiaro il fatto che Doyle abbia attinto a questo personaggio reale per costruire l’investigatore di Baker Street».
Non ci sono prove che sia vero. Non per il momento. La genesi letteraria di Sherlock Holmes è stata studiata in ogni dettaglio, frotte di appassionati hanno scandagliato l’abbondanza di lettere e testi scritti sull’investigatore di cappa e pipa dal dottore, e baronetto, scozzese. Ogni eroe è figlio del suo tempo, ma Sir Arthur non fece mai segreto aver traslato delle pagine di «Uno studio in rosso», il primo romanzo sherlockiano, lo stile e le sembianze del professor Joseph Bell, un chirurgo che fu suo insegnante di medicina a Edimburgo. Per lo stile letterario scelse Auguste Dupin, il poliziotto raccontato da Edgar Allan Poe. Su Caminada, nessun riferimento.
Eppure Doyle era un avido lettore di cronaca nera, per passione e necessità: si può pensare che conoscesse le vicende di Caminada, una vita che è romanzo essa stessa, conclusa quando il poliziotto abbandona il distintivo e diventa investigatore privato. Cosa che, ovviamente, solleva l’interrogativo sul chi sia stata la sua fonte di ispirazione, visto che Holmes era un best seller nazionale dal 1887. Destini incrociati, comunque la si guardi.
Caminada vide la luce a Deansgate nel 1844, un quartiere di pub e bordelli, densamente popolato da operai e disperati, una zona dove il crimine era la regola del giorno. Nel 1868 entrò nei ranghi della Polizia di Manchester, della quale divenne sergente quattro anni dopo, passando alla nuova divisione investigativa che aveva sede nel Municipio. Era la crema del mestiere. Ci restò per trent’anni, rispetto da colleghi, giudici e criminali, quasi con la stessa passione. I malavitosi lo chiamavano Detective Jerome. Il cognome era per loro troppo ostico.
Si guadagnò la nomina a ispettore a 34 anni e intraprese una carriera che, stando alle cronache, gli portò 1.225 arresti. Era solito girare con la pistola, onere che in genere Sherlock Holmes affidava all’esperienza militare del fidato Watson. Per la cronaca, si spara in sette delle sessanta avventure del detective di Doyle, su uomini e sul cane dei Baskerville.
Come Holmes, Caminada aveva un debole per il travestimento, gli serviva a mescolarsi negli ambienti meno salubri della città. Vantava una larga serie di informatori che incontrava nella chiesa di Saint Mary, forse non speciali come quelli del Signor Sherlock, che si appoggiava a un gruppo di ragazzini senza chiara dimora, gli irregolari di Baker Street.
Uno dei suoi casi più celebri è tutto giocato sulla rapidità: in tre settimane, nel 1889, portò davanti al giudice l’assassino di un vetturino, un uomo inizialmente fuori dalle spettro delle indagini.
Praticava metodi moderni, era ammirato e temuto. Si ritirò nel 1899 per mettersi in proprio, poi diventò consigliere comunale nel 1907. Suo padre, l’emigrato italiano, sarebbe stato fiero del figlio, «il Garibaldi dei detective». Morì nel 1914, per i postumi di un incidente, e ora il libro della Buckley - «The True Sherlock Holmes» - gli rende un’altra possibilità di fama. La scrittrice trova anche una Irene Adler, l’amore di una vita per l’uomo di Baker Street, in una donna inglese di incerta fama che fece arrestare non senza provare qualcosa per lei.
Doyle, che scrisse «Uno scandalo in Boemia» l’anno dopo, lesse la storia? Chissà. Si può però adottare una delle massime holmesiane classiche, «se eliminiamo le soluzioni impossibili, quella che rimane, per quanto improbabile, sarà la verità». E cullarsi nel pensare che magari sia andata davvero così.