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 2014  marzo 17 Lunedì calendario

CANCELLARE IL 1989 IL SOGNO SEGRETO DELLO ZAR VLADIMIR


La frontiera tra la Russia e l’Ucraina è praticamente chiusa, carri armati di Kiev si muovono verso Est, dove vengono in tutta fretta scavate trincee. Il premier Arseny Yatseniuk dice che «il rischio di un’invasione è reale». Il pretesto ieri è stato fornito da un migliaio di manifestanti a Kharkiv che hanno consegnato al consolato russo una richiesta di intervento «delle truppe di pace» di Mosca. Poi hanno assaltato il consolato polacco gridando «Kharkiv è russa» e «Il fascismo non passerà». Stessa scena a Donezk, dove i filorussi hanno fatto irruzione nella magistratura e negli uffici privati del governatore, chiedendo un referendum sulla secessione. La polizia è rimasta a osservare, nonostante il ministro dell’Interno Avakov a Kiev denunci gruppi di «organizzatori» dall’altra parte del confine che cercano di fomentare una rivolta dei russi. Anche a Nikolaev e Odessa ieri in piazza si sono tenuti «referendum» per una maggiore autonomia, ma senza spingersi a chiedere il divorzio.
Queste poche centinaia di contestatori ricevono grande attenzione dal ministero degli Esteri russo, che ogni volta rivendica il diritto di «intervenire in difesa dei compatrioti». A Mosca politologi del regime parlano apertamente dei piani di creare due o anche tre Ucraine. E Dmitry Kiseliov, il capo della propaganda del Cremlino, nel suo talk show domenicale ieri ha minacciato: «Siamo l’unico Paese in grado di trasformare gli Usa in cenere radioattiva». Una minaccia, della guerra nucleare, che non si era sentita dai tempi di Krusciov.
Per capire se si tratta di singoli esagitati, come al solito, bisogna ascoltare una sola persona: Vladimir Putin. Che parla poco, e non si fa interrogare. Ma un’indiscrezione preziosa viene da Mustafa Dzhemilev, leader dei tartari della Crimea, al quale il presidente russo ha concesso l’onore di una telefonata per convincerlo se non a sostenerlo almeno a restare neutrale. Dzhemilev non si è fatto impressionare: esiliato da bambino insieme a tutto il suo popolo nel 1944, è cresciuto al confino e ha alle spalle 15 anni di carceri e scioperi della fame come dissidente. Ha costretto il suo interlocutore ad ammettere di fatto la presenza dei militari russi in Crimea e gli ha fatto obiezioni sull’illegalità del referendum. Putin ha risposto che «certe volte la procedura si salta». E che anche la secessione dell’Ucraina dall’Urss «non è del tutto legale».

Finora la Russia, pur sentendosi dolorosamente ridimensionata dalla fine dell’Urss - che Putin ritiene «la maggiore catastrofe geopolitica del ’900» - appariva rassegnata all’assetto post-comunista. Oggi si sente abbastanza forte da rimetterlo in discussione, insieme agli ultimi 25 anni di storia. E questo spiega le truppe vicino alla Trasnistria, le inquietudini dei Baltici con le loro minoranze russofone, e la reticenza perfino di alleati come il Kazakistan e la Bielorussia a seguire Putin su una strada che domani potrebbe portarlo a casa loro. La diplomazia russa mette da parte i pretesti che l’ambasciatore francese all’Onu ha definito «imbarazzanti»: dalla difesa dei russi dai «nazisti» alla lettera di Yanukovich poi sparita, fino alle secessioni del Kosovo e delle isole Comore (in entrambi i casi, peraltro, Mosca era contraria). Lavrov ormai è esplicito: «La Crimea per noi è più importante delle Falkland per gli inglesi». Ammettendo che i russi non hanno mai smesso di considerarla loro, e che non si tratta di una disputa locale o di un dispetto, ma di un cambio di rotta, a costo di rinunciare al salotto bene internazionale.
I «falchi» nazionalisti invocano il ritorno della cortina di ferro, e i media persuadono i consumatori che con le sanzioni l’industria nazionale non farà che fiorire. Ma il tasso di crescita del Pil oscilla intorno allo zero e il petrolio non basta più. Gli stessi ministri di Putin chiedono una modernizzazione che passa per le liberalizzazioni e la trasparenza, e implica di non spartire ricchezza e potere solo in un gruppo ristretto della nomenclatura. Una scelta che il Cremlino non è mai stato capace di fare. Una guerra con i «traditori» ucraini seguita dall’«accerchiamento ostile» dell’Occidente può essere utile per giustificare ai russi la fine di una ricchezza appena assaporata.