Giovanni Orsina, La Stampa 17/3/2014, 17 marzo 2014
LA FENOMENOLOGIA DEL RENZISMO
Renzi ha introdotto una cesura importante nella vicenda politica italiana. Quanto profonda e duratura sia questa cesura è davvero troppo presto per dirlo.
La «futurologia renziana» è una scienza (o una credenza?) assai praticata: in molti si sono (ci siamo) messi a far profezie sulla culla del neonato. Il che è senz’altro comprensibile, perché tutti vorremmo sapere come va a finire il giallo, o magari perfino influenzarne lo sviluppo. Ma è pure irrazionale, perché in realtà ci vorranno mesi, o più probabilmente anni, per capire se siamo di fronte a una semplice smagliatura della storia o a un autentico momento di svolta. Che una cesura ci sia stata, tuttavia, è innegabile. La «scalata» al Partito democratico, l’ascesa a Palazzo Chigi, l’accentramento di poteri e responsabilità, l’innovazione nella comunicazione: tutto questo «pesa» eccome. E proprio perché pesa, possiamo tentare di utilizzarlo per rileggere almeno il presente e il passato della nostra vita politica e istituzionale – fermo restando che il futuro, per il momento, sta ancora giocando sulle ginocchia di Giove.
Paragonare Renzi a Berlusconi è un altro esercizio al quale si sono applicati in molti. Non è certo un’operazione ingiustificata, visto che i due si somigliano senz’altro. Ma è anche, se la si conduce costruendo un parallelismo puro e semplice, un’operazione incompleta. Per comprendere che cosa l’avvento di Renzi ci dica sul berlusconismo, e più in generale sugli ultimi vent’anni, la questione va impostata in maniera diversa. Ossia, dobbiamo riportare sia Berlusconi sia Renzi a un terzo elemento che si trova a monte dell’uno e dell’altro: le esigenze storiche reali alle quali entrambi hanno cercato o cercano di dar soddisfazione. Impostando così il ragionamento potremmo scoprire allora che i due si assomigliano soprattutto perché danno o hanno dato risposte alle medesime domande. E che soltanto chi risponde a quelle domande può vincere perché la grande maggioranza degli italiani si è ormai convinta che quelle siano le domande fondamentali.
Il primo gruppo di domande ha a che fare con le forme della politica. Ossia per un verso con la posizione di assoluta centralità che ha assunto la personalità debordante del leader, per un altro col modo in cui quel leader comunica: semplicistico, demagogico e per slogan, in primo luogo; e in secondo luogo diretto al «popolo» e non alle istituzioni. Quando Berlusconi introdusse queste innovazioni, vent’anni fa, non pochi ne spiegarono il successo sulla base di un presunto amore degli italiani per l’«uomo forte» e/o di una loro altrettanto presunta superficialità, che li avrebbe resi più sensibili alle immagini e alle sensazioni che ai contenuti. A essere superficiali, però, erano soprattutto quelle spiegazioni.
In realtà tanto il leaderismo quanto i modi e gli obiettivi della comunicazione – terreni sui quali già da ora Renzi pare aver sopravanzato il Cavaliere – sono in larga misura una conseguenza e una risposta alla crisi sempre più drammatica delle istituzioni politiche: partiti, parlamento, potere esecutivo. Se quelle istituzioni, paralizzate dai veti contrapposti, dalle fratture interne e dall’ansia infinita di mediazione, si rivelano incapaci di produrre decisioni, allora la domanda di governo che sale dal Paese non potrà che cercare soddisfazione altrove. E dove altro potrà cercarla, quella soddisfazione, se non in un individuo determinato e sicuro di sé fino all’arroganza che con parole semplici e dirette gli promette soluzioni rapide ed efficaci, superando di slancio veti, mediazioni e bizantinismi istituzionali?
Il secondo gruppo di domande alle quali sia Berlusconi sia Renzi hanno cercato o cercano di dare risposta riguarda invece la sostanza della politica: una riforma del rapporto fra Stato e società civile che riduca il peso di quello e allarghi gli spazi di movimento di questa. Berlusconi dice da vent’anni che le tasse sono troppo alte, la burocrazia vessatoria e inefficiente, le leggi e i regolamenti irragionevoli e labirintici? Bene: dicendo esattamente le stesse cose, Renzi gli dà nella sostanza piena ragione. Ma, di nuovo, gli dà ragione perché è berlusconiano, oppure perché cerca di rispondere alle stesse richieste che, oggi come nel 1994, continuano a salire da larghissima parte del Paese?
Le domande essendo le stesse, le sue risposte Berlusconi ha cercato di darle da destra, Renzi da sinistra. Si tratta ovviamente di una differenza tutt’altro che irrilevante, sia rispetto alla sostanza delle decisioni – basti pensare a quanto poco «berlusconiano» sia stato il modo in cui Renzi ha indirizzato il «berlusconiano» taglio alle tasse –, sia rispetto al modo in cui i due sono stati accolti nei quartieri più qualificati e influenti dell’opinione pubblica nazionale. Quartieri che, seppure con qualche ironia o distinguo, stanno sopportando dall’attuale presidente del Consiglio comportamenti, parole e silenzi non diversi – anzi: per tanti versi ben più macroscopici – di quelli per i quali in passato non hanno mancato di condannare il Cavaliere. Suscitando il sospetto che per tanti intellettuali e opinionisti il vero peccato di Berlusconi fosse non quello di essere bugiardo, demagogico e populista – ma di stare a destra.
L’asimmetria fra Renzi e Berlusconi non si ferma qui, a ogni modo, e non va tutta a vantaggio dell’attuale presidente del consiglio. Proprio perché stava a destra il Cavaliere si muoveva in un mondo povero di strutture e personale politico, e suppliva a questa povertà non solo con la sua personalità, ma anche con i soldi e le televisioni. L’impossibilità per la destra di fare a meno di quest’opera di supplenza ha consentito a Berlusconi di sopravvivere ai suoi molti fallimenti: 1994, 1996, 2006, 2011. Renzi ha invece scalato un mondo ricco di strutture e personale politico, che si è rassegnato alla sua leadership perché non riusciva a vincere. Chi desideri sapere se sopravviverà a un eventuale fallimento non tragga esempio da Berlusconi.