Marcello Sorgi, La Stampa 16/3/2014, 16 marzo 2014
QUANDO I COMUNISTI MANGIAVANO OLOTURIE
I suoi novant’anni li ha festeggiati scrivendo un libro su Togliatti, rivolto a una sinistra e a un Paese che quasi non si ricordano più chi fosse il Migliore. Per Emanuele Macaluso, a lungo senatore e dirigente del Pci, il 21 marzo, giorno in cui spegnerà la sua novantesima candelina, si prepara una grande cerimonia istituzionale al Senato, a cui prenderà parte anche Giorgio Napolitano, suo storico amico.
E lei, Macaluso, come vive questa vigilia?
«Come sempre: lavoro, leggo, viaggio ancora spesso per presentare i miei libri, ho molti amici affettuosi».
Un compleanno così importante non è occasione per il bilancio di una vita?
«Per carità! I ricordi li tengo tutti a mente, la mia vita l’ho già scritta e raccontata. Solo, l’altro giorno, sfogliando i diari di Pietro Secchia, è venuto fuori un dettaglio che forse può farle capire come sono e com’ero».
Di che si tratta?
«È un appunto del Comitato centrale del Pci del 14 ottobre ’63 sul primo centrosinistra. Barca tira le conclusioni in modo “contraddittorio e funambolesco”, scrive Secchia, cioè troppo appiattito sul governo. Poi annota: “Replica di Macaluso, non ci sto. Togliatti prova a ricucire ma non ci riesce”».
Aveva messo in difficoltà il segretario, violando la liturgia comunista?
«Erano tempi difficili, nel Pci. Si preparava già lo scontro esploso all’XI congresso, tra Amendola e Ingrao. Togliatti mi rimproverò: hai sbagliato, sottovaluti le nostre Rossande, vedrai che sul centrosinistra ci sarà una lotta politica interna al partito. Veramente, gli risposi, ho parlato proprio per non dar spazio alle Rossande!».
Ma davvero poteva permettersi di replicare al Migliore?
«Togliatti lo conoscevo dal ’48, mi aveva mandato a chiamare la prima volta per informarsi su un’occupazione del Cantiere navale di Palermo organizzata da me».
Era contro l’occupazione?
«Naturalmente. Mi raccomandava di non esagerare. Nel ’56, qualche anno dopo, mi fece entrare in Comitato centrale. Nel ’60 in direzione e nel ’63 in segreteria: ero il più giovane, accanto a Longo, Amendola, Pajetta, Ingrao, Alicata, Berlinguer e Natta. Mi affidarono l’organizzazione. E anche per me, cominciarono le missioni a Mosca».
Cosa si ricorda del clima sovietico di quegli anni?
«Mi colpiva il modo in cui l’autorità di Togliatti veniva riconosciuta anche dai russi. Al XXI congresso del Pcus, nel ’59, c’era la fila delle delegazioni comuniste di tutto il mondo che volevano salutarlo. E Krusciov, come segno di attenzione, invitò noi italiani a pranzo nella sua dacia».
Era un ricevimento ufficiale o informale?
«Formale ma ristretto. Saremo stati una decina. Togliatti, Pajetta e me, da un lato, e dall’altro Breznev, Suslov, Ponomariov, Kirilenko, e una sola donna, la Furzeva, un viso da babuska e un portamento marziale. Togliatti parlava correntemente il russo, Pajetta ci provava, ma ogni tanto prendeva uno strafalcione e il segretario lo zittiva».
Tema della discussione?
«Il presente e il futuro dell’Urss e la competizione, che secondo il leader sovietico stava per essere vinta, con gli americani. Krusciov elencò una per una le riforme che avrebbero dovuto portare l’agricoltura sovietica a primeggiare nel mondo. Ci parlò della gara nello spazio e del missile Sputnik a cui già stavano lavorando. Poi si alzò in piedi e spiegò che, per vincere, i sovietici dovevano affrontare dei sacrifici, imparando per esempio a usare pantaloni più stretti per risparmiare stoffa. “Calzoni come quelli italiani, come i vostri’, esclamò, indicando i miei».
Ne fu orgoglioso o rimase intimorito?
«L’uno e l’altro. L’indomani ci portarono a un balletto al Bolshoi, che durava quattro ore. Eravamo in un palco reale con Krusciov e la moglie Nina. All’intervallo ci invitarono a bere qualcosa. Un caffè, speravamo. Invece era stato allestito un banchetto. I russi mangiavano quattro uova fritte a testa, accompagnandole con tartine al caviale e bevendo vodka come se fosse acqua».
Frequentandoli, eravate più convinti, o più scettici, sul fatto che sarebbero riusciti a battere gli Usa?
«Col tempo, sempre più scettici. Al dunque, tutte le loro promesse in fatto di democratizzazione del sistema non si realizzavano mai. Nel ’64, quando Krusciov stava per cadere, Togliatti, convocato a Yalta, non a caso aveva preparato un documento molto critico, il memoriale, che rimase come suo testamento politico».
Eppure per tutta la vita era stato acquiescente: anche nel terribile ’56 dei carrarmati a Budapest.
«Non poteva fare altro».
Macaluso, ma che vuol dire «non poteva fare altro»?
«Significa che se avesse preso le distanze si sarebbe spaccato il Pci. Lei non può ricordare com’era diviso il mondo negli anni Guerra fredda. Togliatti, l’ho anche scritto, fece il possibile, affidando ai suoi successori l’evoluzione di una linea più critica già segnata dal memoriale di Yalta. Fu così che nel ’68 Longo potè condannare l’invasione della Cecoslovacchia».
Nel frattempo il Pci era cambiato?
«Piuttosto era cambiato il sistema di relazioni tra i partiti comunisti. Con noi, sulla condanna, si schierarono i comunisti francesi e gran parte dei partiti occidentali. Eravamo stati colti di sorpresa. Quell’estate ero a Yalta in vacanza con Pajetta, Longo a Mosca, dove subito lo raggiungemmo, per rientrare in Italia. Al momento di salire sull’aereo, Pajetta si chinò a baciare la terra russa, mormorando tra le lacrime: qui non potrò mai più tornare».
Anche per lei, era l’ultima volta a Mosca?
«Niente affatto. Ci tornai l’anno dopo a dicembre, in transito per la Corea. Berlinguer era stato invitato da Kim il Sung, ma all’ultimo momento aveva delegato me. Partii con Antonello Trombadori e atterrammo in una tormenta di neve. L’ambasciatore coreano venne a prenderci e ci sistemò in albergo. Passa un giorno, due, tre e in albergo s’affaccia Zagladin, il nostro abituale interfaccia nel Pcus. Ci chiede: cosa andate a fare in Corea? E io: non so nulla, non c’è un programma prestabilito. L’indomani torna l’ambasciatore e ci comunica che Kim il Sung ci avrebbe mandato il suo aereo personale, perché altrimenti i russi non ci avrebbero mai lasciato partire».
Eravate all’oscuro degli attriti tra russi e coreani?
«Più o meno. Trombadori, che a Roma era un uomo di mondo, conosceva tutto e tutti, giudicò l’aereo di Kim il Sung più bello di quello del Papa. Un aereo con due camere da letto e una sala da pranzo non l’avevo mai visto. Così viaggiammo come papi e fummo ricevuti come capi di Stato».
In che senso?
«All’aeroporto era stata messa in scena un’accoglienza fuori dell’ordinario: fuochi d’artificio, parata militare, saggio ginnico di soldatesse incoronate con ghirlande di fiori. Kim il Sung ci portò nel suo palazzo dov’era stato allestito un gran pranzo in nostro onore. Prima però volle farci visitare gli enormi monumenti che alimentavano il culto della sua personalità, e il museo in cui era custodita, come una reliquia, un’asta da biliardo con cui amava giocare da ragazzo».
Ma alla fine, che voleva?
«Innanzitutto dimostrarci la sua amicizia e il suo senso dell’ospitalità. Ricordo che, insieme con pesci di tutte le varietà, aveva fatto servire oloturie fritte, da lui considerate una prelibatezza. In Sicilia, quel genere di molluschi non si mangiano e si chiamano spregiativamente “strunz’ i mare”. Ma per Kim il Sung, che insisteva sulla necessità dei popoli e dei partiti comunisti di tutto il mondo di essere autonomi uno dall’altro, quella era la prova dell’opulenza e autarchia della Corea. Così dovetti assaggiarle. Una volta entrati in argomento, però, gli ricordai che il partito coreano su Praga era rimasto zitto. Non mi rispose. Sei mesi dopo, il suo ambasciatore in Italia mi recapitò il documento con cui la Corea, seppure in ritardo, aveva preso le distanze da Mosca».
Macaluso, nella sua seconda vita lei è diventato giornalista, polemista e scrittore. Ha scritto contro D’Alema e Veltroni, che l’avevano rottamato nel ’92, ha criticato Sciascia per i suoi controversi rapporti con il Pci, ha difeso Andreotti dalle accuse di mafia, e oggi ha perfino rivalutato Togliatti. Si divertiva di più prima o adesso?
«Veramente ho sempre scritto, mi piaceva e mi piace. Quella per Andreotti è stata sicuramente la battaglia più difficile. I nostri mi dicevano: proprio adesso che lo abbiamo messo sotto, tu lo difendi? Ero stato avversario politico di Andreotti, come ho cercato invano di spiegare a Caselli, ma non tolleravo che fosse lui a pagare in un processo il conto dei rapporti con la mafia che tutta la Dc aveva avuto nel tempo. Si ricorda un discorso di De Gasperi, di Moro o di Fanfani contro la mafia? Neanche uno. Era stato Alessi, il padre dell’autonomia siciliana, a confessare che per battere i comunisti che occupavano le terre, il suo partito si era alleato con la mafia. Il più sorpreso di questa mia scelta fu Andreotti. Conservo ancora un suo bigliettino in cui scriveva: “Ti accorgerai, in che guai ti sei messo”».