Francesco Guerrera, La Stampa 16/3/2014, 16 marzo 2014
I NUOVI PADRONI DELLA FINANZA
I signori della finanza non abitano più a Wall Street.
Le banche sono ancora potenti, ricche e tentacolari – nomi quali Goldman Sachs, Morgan Stanley e J.P. Morgan rimangono bastioni dell’alta finanza globale.
Ma la reputazione e lo status sociale di chi le guida e di chi ci lavora sono stati distrutti dalla crisi del 2008. Basta guardare alle proteste dei ragazzi di Occupy.
Schernivano senza pietà – e spesso in maniera becera - le capacità manageriali, mentali e fisiche dei vari Jamie Dimon, il magniloquente capo della J.P.Morgan, o Lloyd Blankfein, il leader della Goldman.
Ma l’economia, come la natura, aborre il vuoto. Il posto dei titani di Wall Street sta per essere preso da un gruppo di finanzieri che vive nello «shadow banking», nelle ombre del settore finanziario, lontano dalle luci della ribalta che stanno causando così tanti problemi alle «vecchie» banche.
Benvenuti nell’era del private equity, un’industria misteriosa e influente che sta ricoprendo di denaro la sua forza-lavoro. I re Mida della finanza oggi hanno nomi che il grande pubblico non conosce – Stephen Schwarzman, Henry Kravis, Leon Black e David Rubenstein. Lavorano in società da loro fondate, senza il blasone o la storia di Morgan Stanley o Merrill Lynch, ma con molta più voglia di fare e molte meno remore sul come farlo.
Il passaggio di mano è evidente quando si guarda all’unico fattore che conta nel mondo della finanza: i soldi fatti da questi capitani d’industria. L’anno scorso, i grandi capi del private equity, un gruppo di più o meno dieci persone, si sono portati a casa quasi tre miliardi di dollari grazie a dividendi, investimenti e salari.
Il signor Black – che aveva iniziato come venditore di operazioni spazzatura negli Anni 80 – ha guadagnato più di mezzo miliardo di dollari, grazie ai successi della sua società, Apollo Global Management. La sua collezione di opere d’arte – che già conta «L’Urlo» di Edward Munch e un prezioso Raffaello – ne trarrà senz’altro giovamento.
David Rubenstein, che è più famoso per essersi comprato la Magna Charta un po’ di anni fa che per aver fondato il gruppo Carlyle, ha preso più di 200 milioni di dollari nel 2013. Al confronto, Dimon e Blankfein, con i loro bonus da 20 milioni di dollari, sembrano dei poveracci.
Ma le differenze tra le banche storiche e i nuovi ricchi della finanza non si fermano al portafogli o ai capolavori d’arte. Private equity e Wall Street hanno funzioni e doveri completamente diversi nell’ecosistema economico.
A differenza delle banche, che nel corso degli anni si sono impelagate in operazioni sempre più complicate, il private equity è semplice. Le società di Kravis, Black e Rubenstein raccolgono soldi da fondi pensione, università e governi e comprano società quotate in Borsa, spesso quando sono in difficoltà.
Le società vengono ristrutturate, con gran tagli di costi e impiegati, e dopo un po’ di anni, rivendute o sul mercato o a concorrenti. I signori del private equity distribuiscono gli utili di queste operazioni ai propri investitori al netto di una commissione abbastanza alta.
Il trucco del private equity è utilizzare pochi contanti e molto debito in modo da spendere poco e aumentare il ritorno. E’ un sistema che funziona quando l’economia tira e i tassi d’interesse – e quindi il costo del debito – sono bassi, ma che può contribuire alla crisi economica e sociale in periodi di recessione.
Non è un caso che società enormi comprate dal private equity prima della crisi – gli hotel Hilton, per esempio, o Caesars, il gruppo di casinò di Las Vegas – abbiano fatto una fatica enorme durante gli anni bui del 2008-2009. Alcune sono andate in bancarotta, con perdite finanziarie e di posti di lavoro.
I rischi ci sono e non sono piccoli ma sono diversi da quelli corsi dalle banche. Goldman, Morgan Stanley e Merrill Lynch (come anche Deutsche Bank e Unicredit) sono degli intermediari. La società private equity investe di suo. Nel caso delle banche, il rischio è che una delle due parti – il cliente che vuole vendere azioni o quello che le vuole comprare per esempio – non abbia soldi o che le banche stesse mettano del proprio capitale a rischio, come successe nella crisi del 2008.
Nel caso del private equity, il capitale è sempre a rischio. Quando si vince, si vince bene ma quando si perde si perde molto male. Per ora, il private equity sta vincendo, grazie in parte ai tassi d’interesse bassissimi della Federal Reserve e al momento d’oro dei mercati azionari: nel 2013 gli investitori hanno ricevuto circa 360 miliardi di dollari da questo tipo di fondi – un ottimo risultato.
Quando ho spiegato questo ragionamento ad un amico banchiere, mi ha sorriso e, con la condiscendenza tipica della professione, mi ha chiesto: «Davvero? E tutte queste compravendite il private equity come le fa?». Domanda retorica, la cui risposta è: con l’aiuto delle banche d’affari.
Il che è giusto. Wall Street trova sempre e comunque un modo di fare soldi quando ci sono dei soldi in gioco. Ma ciò non toglie che il ruolo delle banche, come le buste paga dei loro capi, sia stato sminuito dalle vicende degli ultimi anni e dall’esplosione delle società di private equity.
Uno dei fattori-chiave in questo avvicendamento è la struttura delle società. Quasi tutti i gruppi di private equity sono in mano ai loro fondatori, che a loro volta hanno investito quasi tutta la loro ricchezza nei fondi (a parte qualche Magna Charta e Munch…). Nel caso delle banche, Dimon e Blankfein sono degli impiegati che rispondono a migliaia di azionisti senza volto.
Come mi ha detto un capo di private equity in maniera chiara anche se non proprio delicata: «Il mio culo è in prima linea. Se faccio un errore, il primo a perderci sono io».
È una lezione che Wall Street ha dimenticato e che sta contribuendo al cambio della guardia nel mondo della finanza.