Luca Ricolfi, La Stampa 16/3/2014, 16 marzo 2014
PER VINCERE LA SFIDA COL PAESE IMMOBILE
RENZI DEVE RISCHIARE L’IMPOPOLARITÀ –
La verità è che nessuno sa con certezza se la “televendita” di mercoledì scorso, lo show con cui il premier ha voluto annunciare le sue intenzioni, è un bluff destinato a reggere per pochi mesi, o è invece l’inizio di qualcosa. Per parte mia penso che sia l’inizio di qualcosa o, più precisamente, l’inizio di un’avventura. Uso questo termine nel suo significato neutro, ossia quello di un’impresa rischiosa, e che come tale può finire sia bene sia male. Vediamo perché.
Intanto vorrei sgomberare il campo da un finto problema. Il fatto di aver fatto una televendita, con slide, battutine e atteggiamenti più o meno gigioneschi, non è di per sé rilevante. Può offendere il buon gusto di chi ne conserva ancora un po’, ma non dovrebbe spaventare più di tanto, e soprattutto non è una vera novità. Anche Monti e Letta, anche Berlusconi e Prodi facevano televendite, solo che lo facevano in modo meno smaccato e con minore autoironia.
Perché l’essenza della televendita non è il fatto di servirsi di slide e telecomandi, o di usare toni da imbonitore, ma è il fatto di fare comunicazione anziché informazione. La comunicazione mira a persuadere, e quindi è costretta a nascondere svantaggi e controindicazioni dei prodotti che promuove. L’informazione mira a dire la verità, tutta la verità, e quindi non nasconde pregi e difetti dei prodotti di cui parla.
Da questa angolatura, Renzi e i suoi non sono né nuovi né tantomeno rivoluzionari, perché anch’essi – come tutti i loro predecessori – mettono una cura estrema, al limite del virtuosismo, nel minimizzare o nascondere l’altra faccia della luna, ovvero i costi e gli inconvenienti delle proprie scelte (per qualche esempio vedi lo specchietto qui sopra). Rivoluzionario nello stile sarebbe un politico che, nel momento in cui vara una misura, dicesse tutta la verità su di essa, anziché affannarsi a indorare la pillola. Un’eventualità che, a mia memoria, nella storia della seconda Repubblica si è presentato una sola volta in vent’anni, quando il ministro Elsa Fornero si commosse - fino a scoppiare in lacrime - al momento di presentare la sua riforma delle pensioni (dicembre 2011). Forse anche per questo, per il fatto che un rappresentante del governo diceva la cruda verità, quell’episodio scosse l’opinione pubblica e resterà a lungo nella memoria collettiva.
Il confronto coi predecessori
Ecco perché dicevo che, dal punto di vista della comunicazione, nulla di sostanziale è cambiato. Per certi versi Renzi è leggermente peggio dei suoi predecessori, perché mai nessuno ha fornito così poche informazioni sui contenuti e i dettagli dei propri provvedimenti; per altri versi è invece leggermente meglio, perché non nasconde dietro una patina di serietà e obiettività la natura promozionale del proprio messaggio. E’ questa, del resto, l’intrinseca moralità della comunicazione pubblicitaria, che mentre ti invita a comprare il prodotto avverte anche: questa è pubblicità, leggere attentamente il prospetto informativo (il guaio, nel caso di Renzi, è che al momento della televendita il prospetto informativo non c’era, e infatti siamo ancora qui che interpretiamo e congetturiamo).
I rischi che corre il governo
Chiarito che la televendita non è il problema, proviamo a venire alla sostanza dell’avventura di Renzi, ossia al motivo per cui è un’impresa, ed è un’impresa rischiosa. E’ un’impresa perché la sua ambizione è di cambiare davvero l’Italia o, per dirla con Alan Friedman, di «ammazzare il gattopardo», rompendo l’incantesimo del nostro immobilismo travestito da cambiamento.
Che l’ambizione sia questa lo si capisce non solo dagli scopi finali (che sono quasi sempre ambiziosi, quando un premier si installa al potere) ma da alcuni mezzi che Renzi sta usando o sta minacciando di usare. Fra questi mi hanno colpito tre formidabili mancanze di riguardo, se così posso chiamarle: mancanza di riguardo per le parti sociali, che vanno ascoltate ma solo per poi decidere in solitudine («sono pagato per questo»), senza farsi invischiare in interminabili discussioni, trattative, tavoli di concertazione; mancanza di riguardo per burocrati e funzionari ministeriali, cui non si intende lasciare i poteri di veto di cui hanno sempre goduto; mancanza di riguardo per i dipendenti pubblici, da cui si pretende mobilità e disponibilità al cambiamento. Su questi tre punti Renzi non ha ragione, ma ha stra-ragione: l’abbandono, da parte della politica, degli eccessivi riguardi del passato verso parti sociali, burocrati e dipendenti pubblici è la precondizione di qualsiasi tentativo di cambiare il Paese.
Gli obiettivi finali
Quanto agli scopi finali del nuovo governo, non sono meno ambiziosi dei mezzi: rilanciare la crescita, creare nuovi posti di lavoro, eliminare gli sprechi, dare una speranza ai non garantiti, a partire dai giovani e dalle donne escluse dal mercato del lavoro. E’ qui, tuttavia, che si insinua il dubbio. Non tanto perché gli obiettivi sono assai alti e difficili, quanto perché di tale altezza e difficoltà Renzi e i suoi paiono ignari. Questa sensazione, di scarsa comprensione della complessità del compito che si sono dati, mi deriva da tre indizi.
La qualità della squadra
Il primo è la qualità della squadra di governo. Da un ragazzo che da anni studia da premier, e ha avuto tutto il tempo di informarsi e diventare adulto, mi sarei aspettato uno sbarco al governo ben più attrezzato: più attrezzato di piani dettagliati, disegni di legge, squadre di esperti. Mi sarei aspettato ministri più competenti e preparati, meno lottizzazioni fra partiti e correnti di partito. Se Renzi si rendesse conto davvero di quanto è complessa l’Italia (e inoltre volesse cambiarla), non avremmo assistito a una conferenza stampa in cui nessun annuncio importante è accompagnato da norme e numeri precisi.
Il secondo indizio che mi fa riflettere, e temere per l’esito dell’impresa di Renzi, è la sua incapacità (o il suo rifiuto) di fare le scelte più difficili, fin dal dilemma Irpef-Irap. Puntare sull’Irpef voleva dire dare un po’ di soldi a chi ha già un lavoro, e raggiungere subito 20-25 milioni di elettori. Puntare sull’Irap voleva dire dare un po’ di ossigeno alle imprese e alle partite Iva, ma anche creare qualche posto di lavoro per chi un lavoro non ce l’ha. Fra la scelta tradizionale, che guarda prevalentemente alla “società delle garanzie”, e quella innovativa, che guarda prevalentemente alla “società del rischio”, Renzi alla fine ha scelto la strada più facile, quella degli sgravi Irpef, che gli garantiva in un colpo solo la benevolenza della Cgil e un maggiore dividendo elettorale per il Pd alle elezioni europee.
I dossier più scottanti
Resterebbe un terzo indizio, che mi fa pensare che Renzi non possa o non voglia fare i conti sul serio con la complessità del caso italiano. Questo indizio è la sua reticenza sui dossier più scottanti. O, se volete, la sua timidezza.
Rispetto ai governi passati, rispetto all’immobilismo gattopardesco del ceto politico della seconda Repubblica, Renzi ha effettivamente una marcia in più, e non solo nello stile. Di questo bisogna dargli atto. Però questo suo continuo parlare di rivoluzione, questo presentare come rivoluzionarie mosse simboliche (l’asta delle auto blu) o normali scelte di politica economica, piene di incertezze e di effetti collaterali, appare davvero fuori misura.
Le scelte più difficili
Rivoluzionario sarebbe un leader che avesse il coraggio di parlare non solo delle scelte facili e popolari, come i 1000 euro all’anno per 10 milioni di lavoratori dipendenti, ma anche delle conseguenze negative di quelle scelte (più deficit e meno spesa pubblica).
Rivoluzionario sarebbe un leader che trovasse il coraggio di parlare anche delle scelte difficili e impopolari che dovrà compiere. Rivoluzionario, soprattutto, sarebbe un leader che avesse la forza di dire al Paese la verità, tutta la verità. Ad esempio che il grosso delle inefficienze e degli sperperi del denaro pubblico, di cui la spending review dovrebbe occuparsi, è concentrato nelle regioni del Mezzogiorno. O che le false pensioni di invalidità assorbono circa 10 miliardi di euro l’anno (giusto la cifra che occorre reperire per gli sgravi Irpef), ossia molto ma molto di più delle odiatissime pensioni d’oro. Ecco perché quella di Renzi è un’impresa ardita. Renzi rischia di non farcela perché una parte dell’Italia non vuole cambiare (e i molti “gufi” che lo attaccano in questi giorni danno l’idea di quanto questo rischio sia reale). Ma rischia di non farcela anche per la ragione opposta, perché è lui stesso che, a un certo punto, potrebbe non essere disposto a pagare il prezzo che i veri cambiamenti quasi sempre esigono: il prezzo amaro di un po’ di impopolarità.