Angela Zoppo, Milano Finanza 15/3/2014, 15 marzo 2014
UN TRIS DA 108 MLD
Non era mai successo che arrivassero insieme a fine mandato tre top manager a capo dei rispettivi gruppi da ben nove anni. Inevitabile, perciò, che a catalizzare l’attenzione in questa tornata di nomine sia proprio questo terzetto di longevi amministratori delegati in scadenza a fine aprile: Paolo Scaroni, alla testa di Eni da maggio 2005, Fulvio Conti, l’ex cfo promosso sul campo alla guida di Enel, e Flavio Cattaneo, catapultato pochi mesi più tardi, a novembre, dalla direzione generale della Rai ai vertici di Terna.
Insieme, rappresentano una capitalizzazione di Borsa pari a 108 miliardi. Scaroni e Conti, più apertamente di Cattaneo, non fanno mistero di ambire a un quarto mandato. «Il mio è il lavoro più bello del mondo», ripete spesso il numero uno dell’Eni. «Spero di rivedervi il prossimo anno», si è augurato Conti il 12 marzo scorso, presentando agli analisti i risultati 2013 e gli obiettivi strategici del gruppo al 2018.
Il premier Matteo Renzi, che ha in mano la partita delle nomine con oltre 600 poltrone da rinnovare, ha appena messo in chiaro dalla ribalta tv di Porta a Porta che «nessuno gli strapperà dalla bocca un nome» prima che il governo abbia deciso quale sarà la strategia da affidare ai singoli gruppi, e in cima alla lista colloca ovviamente Eni, Enel e Terna, i tre giganti dell’energia.
ENI
Dividendi in crescita
e nuovi giacimenti
Dei tre top manager alla prova riconferma, Scaroni è sicuramente il più diretto e loquace. Non ha mai nascosto di voler restare ancora in Eni e ricorda spesso che il suo stesso contratto prevede che gli si chieda la disponibilità a rinnovare il mandato. Da parte sua, ovviamente, questa disponibilità c’è. Dal 2005, quando è diventato il ceo del Cane a sei zampe ha movimentato investimenti per circa 115 miliardi e allargato progressivamente il baricentro verso nuovi Paesi, portando il gruppo a consolidarsi soprattutto in Africa.
I botta e risposta con l’Autorità per l’energia che lo pungolava sulla cessione di Snam sono un ricordo. La separazione è avvenuta nel 2012 e Scaroni è stato rapido a presentarne sul mercato il lato positivo, col miglioramento della posizione finanziaria netta di Eni per 14,7 miliardi, la somma del corrispettivo riconosciuto da Cdp per la partecipazione ceduta e del rimborso dei crediti infragruppo da parte di Snam. Ora il mercato si attende che Eni metta in vendita anche Saipem, eventualità che il top manager non esclude alla luce dei problemi finanziari, e non solo, della società ingegneristica. Il piano industriale presentato circa un mese fa alla City è più che mai nelle sue corde, tarato com’è sui successi esplorativi già portati a casa e sulla rinegoziazione dei contratti take or pay, andata a buon fine con gli algerini di Sonatrach e gli olandesi di Gasterra, e ben avviata con i russi di Gazprom e i norvegesi di Statoil. Finora gli è sfuggito l’obiettivo dei 2 milioni di barili prodotti al giorno, ma il bilancio delle scoperte è largamente positivo: dal 2008 il Cane a sei zampe ha scovato 9,5 miliardi di barili di olio equivalente di risorse, che corrispondono a 2,5 volte la produzione cumulata del periodo. Basti pensare al Mozambico, un vero colpaccio: il più grande successo esplorativo di sempre per Eni in veste di operatore, ma anche a Kenya, Congo, Angola e Gabon in Africa, bacino del Pacifico, Mare di Barents e Cipro. Stando alle stime preliminari, le riserve certe a fine 2013 ammonterebbero a 6,54 miliardi di barili, con un tasso di rimpiazzo del 105%. Senza la guerra civile in Libia e le turbolenze in Nigeria sarebbe andata ancora meglio. Peccato anche per il prolungato stop di Kashagan, l’immenso giacimento offshore più croce che delizia per Eni e altre big oil come Exxon Mobil, Shell e Total, che ci hanno investito 50 miliardi di dollari e dovranno attendere ancora a lungo prima di rifarsi. Gli impianti sono stati fermati appena un mese dopo l’inaugurazione di settembre 2013 per una fuga di gas, e restano ancora chiusi. Per gli analisti Kashagan rappresenta ancora un fattore di rischio, al pari dell’incognita sui prezzi del petrolio. Si capisce che il manager vicentino, dopo nove anni di estenuanti braccio di ferro col governo kazako e il suo ingombrante campione petrolifero KazMunaiGas, voglia esserci quando, forse entro l’estate, finalmente potranno ripartire.
L’altra cifra della gestione Scaroni è la crescita dei dividendi. Quello già annunciato per l’esercizio 2014, infatti, sarà di 1,12 euro per azione, l’1,8% in più di quello del 2013 che è stato fissato in 1,10 per azione (era stato di 1,08 euro nel 2012). Dal 2005 ai soci sono andati circa 37 miliardi. Eni, che oggi capitalizza circa 63 miliardi di euro, supera anche l’esame del Tsr (Total shareholders return, il ritorno reale per gli azionisti che si ottiene sommando andamento del titolo e cedole). Il risultato è di un +56% che si confronta col +42% realizzato in media dai competitor, e soprattutto col dato negativo del Ftse-Mib (-12.44%). Il confronto con le altre oil company, va precisato, non è diretto. Nel caso di Eni, che è un unicum perché è la somma di più business che nelle altre compagnie energetiche sono invece distinti, circa il 70% del capitale investito riguarda attività come Exploration & Production, Refining & Marketing, e chimica, e il restante 30% comprende per lo più Gas & Power. Con Enrico Letta ancora al governo, si è ricominciato a parlare di mettere sul mercato un altro 3% di Eni, suggerendo che per non far scendere sotto il 30,1% la quota di Tesoro e Cdp, il gruppo riacquisti e annulli azioni proprie per il 10% del capitale, spendendo circa 6 miliardi. Scaroni, però, è stato netto: un buy back di quella portata si realizza in anni, non in pochi mesi. All’ultima ricognizione del 7 marzo scorso, infatti, risultano riacquistate solo appena lo 0,52% del capitale sociale.
ENEL.
Il debito fa meno paura,
in vista payout più alto
Sul fronte Enel, il maggior risultato che Conti rivendica guardandosi indietro è di aver portato il gruppo verso una dimensione internazionale, dagli 11 Paesi nei quali operava nel 2005 ai 40 di oggi, raggiunti anche grazie all’acquisizione di Endesa. L’effetto moltiplicatore si è visto in particolare sui ricavi, passati da 33 a 80 miliardi e sull’ebitda, più che raddoppiato, da circa 8 a 17 miliardi. La bestia nera dell’indebitamento finanziario, frattanto, sembra finalmente domata. Nel 2007, dopo l’acquisizione di Endesa (operazione per la quale Renzi ha avuto parole di apprezzamento), il debito era arrivato ad altezze siderali, ben 56 miliardi. A fine 2013 è sceso di 2 miliardi al di sotto dei target annunciati al mercato, a 39,9 miliardi, risultato ottenuto a colpi di cessioni, soprattutto quella da 1,3 miliardi degli asset russi di Severenergia, ma anche grazie a emissioni obbligazionarie (un successo l’esordio nei bond ibridi) ed efficientamenti. Al 2018 il debito dovrebbe scendere a 36 miliardi. Per l’anno in corso, in particolare, sono previste ulteriori dismissioni per 4,4 miliardi (l’attenzione è sugli asset nucleari in Slovacchia), mentre sarà in rampa di lancio a cavallo dell’estate il nuovo bond ibrido in dollari, per un controvalore di 800 milioni di euro. Vero è che, guardando alla borsa, il prezzo delle azioni Enel si è ridotto del 47% dal 2005, ma, anche se negativa, la performance è stata sostanzialmente in linea con la variazione registrata dall’indice italiano che nello stesso periodo, ha perso il 40%, e con quella dei principali peer (E.On -42%, Rwe -47%). Decisamente meglio è andata alla prova del total shareholder return, perché il titolo Enel ha registrato una variazione in controtendenza rispetto a quella dell’indice italiano (Enel +1%, Ftse-Mib -16%) e della maggior parte dei principali competitor europei, che hanno perso in media il 10%. Ma se si ricomprende la performance dei primi mesi dell’anno, il Total shareholder return (performance più dividendi) di Enel ha allungato il passo portandosi a circa il 19,9%. Il gruppo, che oggi capitalizza 37 miliardi, ha mostrato tenuta davanti a contraccolpi pesanti, come la Robin Hood tax che sui conti Enel pesa circa 500 milioni l’anno, e soprattutto la riforma sul deficit di tariffa in Spagna, che costa a Endesa qualcosa come 1,6 miliardi . A Conti va riconosciuto anche il merito di non aver mai smesso di investire: dal 2005 ben 46 miliardi e ora il baricentro degli investimenti si sposta verso i mercati emergenti, mentre nei mercati maturi come Italia e Spagna si va incontro a un inevitabile ridimensionamento. Gli investimenti netti complessivi considerati di qui al 2018 sono previsti in circa 25,7 miliardi, di cui oltre 9 destinati a supportare la crescita organica. Per il 57% verranno indirizzati verso i Paesi con il maggior tasso di crescita, come l’area dell’America Latina. Le risorse destinate all’Italia rimangono però di tutto rispetto. Nelle previsioni di Conti si parla, infatti, di 7 miliardi compreso lo sviluppo delle rinnovabili attraverso Egp.
TERNA
Quei tralicci
ad alto rendimento
A Flavio Cattaneo gli investitori riconoscono di avere reinventato Terna, trasformandola in questi anni da braccio operativo della trasmissione elettrica di Enel in società infrastrutturale che ormai figura tra i primi dieci gruppi industriali del Ftse Mib, con una capitalizzazione che a fine 2013 era quasi raddoppiata fino a raggiungere i 7 miliardi (e il dato aggiornato la indica ancora in aumento a 7,6 miliardi). In termini di rendimento complessivo, dal 1 novembre 2005 al 31 dicembre 2013 il total shareholder return ha superato il 200%. Il confronto con i peer internazionali è lusinghiero: soltanto la spagnola Red Electrica, favorita da un quadro regolatorio particolarmente favorevole, ha fatto meglio. Altri operatori di rete, pur con alti rendimenti, si sono fermati al di sotto di quell’asticella: è il caso di Snam, col 120%, e della britannica National Grid, col 180%. Ma il distacco è ancora più evidente se il Tsr di Terna viene messo a confronto con quello di settore, che non è andato oltre il 41%. Per questo nel 2013 si è confermata migliore utility d’Europa per rendimento totale del titolo, ricevendo per la seconda volta consecutiva il premio internazionale Eei International Utility Award. Ma anche davanti a risultati indiscutibili, sotto il profilo azionario e finanziario, non sono mancate le polemiche. Ha fatto discutere, per esempio, l’incursione di Terna nel campo delle cosiddette batterie, che accumulano il surplus d’energia altrimenti disperso dagli impianti rinnovabili. Per altri operatori, come Enel, si è trattato di una vera e propria invasione di campo nel settore della produzione, che alla società di trasmissione è precluso. Terna, poi, deve difendersi da chi la accusa di prosperare solo grazie alla remunerazione garantita dalle attività regolate. La risposta che arriva dal gruppo è che i risultati più brillanti rispetto ad alti competitor che vivono di business regolati, sono arrivati invece grazie alle attività non tradizionali, che nel corso della gestione Cattaneo hanno generato circa 1,3 miliardi di profitti aggiuntivi, in buona parte reinvestiti nello sviluppo della rete elettrica. Inoltre la remunerazione degli investimenti di Terna, con la recente riduzione del 15% e per effetto del tax rate (Robin tax pesa per il 6,5%), si posiziona al di sotto della media Ue e in assoluto fra le più basse in Europa. Alla rete ad alta tensione sono stati destinati negli anni investimenti per circa 8 miliardi; oggi questo, che è il principale asset di Terna, vale circa 12 miliardi, più del doppio rispetto ai 5 miliardi del 2005. Ma se si chiede agli analisti quale altro atout emerge dall’analisi di Terna, a spiccare è anche il rapporto debito/Rab, che è di circa il 50%, tra i più bassi del settore. Piace al mercato perché in società come quelle di trasmissione viene considerato indice di solidità. A questo rapporto, infatti, si deve anche il trattamento riservato a Terna dalle agenzie di rating, che le riconoscono un merito di credito superiore a quello sovrano.