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 2014  marzo 15 Sabato calendario

GUSTARE IL MONDO SEDUTI IN PANCHINA


«Voi che pel mondo gite errando, vaghi/ di veder maraviglie alte e stupende/ venite qua dove son facce orrende/ elefanti, leoni, orsi, orchi e draghi»… E soprattutto sedetevi su questa panchina, perché è ben più di un supporto fisico: la panchina è un punto di vista sul mondo, un altare innalzato al genius loci, è un caleidoscopio, una lanterna magica, una macchina del tempo e dell’amore. E del disamore, qualche volta.
Michael Jakob, in un saggio appena pubblicato da Einaudi (Sulla panchina. Percorsi dello sguardo nei giardini e nell’arte) invita a sedere e meditare, azione assai poco contemporanea, a soggiogare il demone della velocità e riappropriarsi della calma e dello spirito del flâneur.

Sedete e guardate, lontano o dentro voi stessi e preparatevi a un incontro, dice in questo saggio colto e molto ben illustrato; la panchina non è un oggetto vile e decorativo, è intelligente, visionaria, è una macchina visiva spesso situata nel giardino con cura e intelligenza; è «strumento scopico» che insegna, riposa, provoca, cita, orienta sguardi e stato d’animo. Jakob (studioso e docente di teoria del paesaggio al Politecnico di Losanna e cattedratico all’Università di Grenoble), non disdegna esuberanze espressive («l’aria solipsistica della panchina non dovrebbe occultarne il carattere principalmente relazionale»: certo, dipende se ci si siede in uno o in due) ma spiritosaggini a parte la sua passeggiata entusiasma, ci accompagna attraverso i giardini e le epoche, dalla Toscana del Trecento - dove in molte città, dalla Firenze di Palazzo Medici a Pienza e Montepulciano compare la panchina moderna - alla Russia degli anni Venti e oltre.
Non una storia della panchina ma «alcune storie di alcune panchine» reali o letterarie, artistiche, cinematografiche.
Non c’è l’«Urbank», l’arci-panca, ma la sentiamo, ci sono panche-tomba e panche-donna, panchine antiche di Agrigento e Pompei e la preistoria della panca in giardino nel cinquecentesco parco dei mostri di Bomarzo: la «panca etrusca» dove è inciso l’invito che abbiamo citato all’inizio.
Fra le righe immaginiamo le panchine nei musei o - si parva licet – quella degli «Old friends» di Simon e Garfunkel seduti come fermalibri a Central Park, accattonando il sole. Fantastichiamo della panchina-aleph, la panchina-ombelico attorno alla quale ruotavano le nostre avventure di bambini ai giardinetti, astronave-madre cui chiedevamo nutrimento: «Le merendine della mamma non torneranno più», diceva Nanni Moretti.
Ovvio, non si possono citare tutte, ma per la gioia degli occhi e dell’intelletto troviamo le panchine di Thomas Gainsborough, di Lenin a Gorki, di Tolstoj a Jasnaja Poljana e quella solitaria di Édouard Manet a Versailles, immagine-testamento dell’artista malato, solo e depresso: una panchina senza orizzonte, abitata solo dal suo cappello giallo e circondata da una natura beffardamente rigogliosa.
Ci sono la panchina della Nausea di Sartre e quelle di Hopper, di Van Gogh e di Claude Monet a Giverny, di Rousseau a Ermenonville e di Salvator Dalì a Barcellona, le esedre in marmo del Sanssouci di Potsdam e quelle di K. Friedrich Schinkel al Charlottenhof.
La panchina è lente d’ingrandimento, microscopio sulle profondità dell’animo. Manet, dipingendo «Nella serra» e Claude Monet ritraendo la moglie «Camille Monet sulla panchina di un giardino» rappresentano il grado-zero dell’avventura di una coppia: le protagoniste hanno lo sguardo perduto, rifiutano di fissare il mondo, mentre i loro uomini incombono alle spalle. Esattamente all’opposto – dove è l’uomo a essere smarrito – dell’ultima inquadratura nel film L’avventura di Michelangelo Antonioni».
Panchina-astronave o panchina-zattera, panchina-porto o «banchina» da cui si guarda partire, sulla quale si scende o si resta ad aspettare, il viaggio è lungo. Approda forse alla panchina di Villa Durazzo Pallavicini a Genova Pegli, spaventosamente fuori contesto perché oggi il parco dà su un’autostrada. Ma la panchina segna anche differenze spaventose tra le epoche, scandisce felicità e alienazione.
Perché c’è modo e modo di stare seduti: quello di Woody Allen in «Manhattan» davanti al Queensboro bridge o degli innamorati di Peynet, ovvero «Les amoureux des bancs publics» di Brassens, che parlano dell’indomani e scelgono il nome del primo bambino, si baciano mentre i passanti onesti li guardano storto; loro non sanno di vivere la parte migliore del loro amore. Arriveranno i sofà inghiotti-tutto e i tinelli maròn, che no, non sono proprio la stessa cosa di quella panchina.