Matteo Forlì, Lettera43 16/3/2014, 16 marzo 2014
QUALCUNO SALVI IL SOLDATO USA
Il giudizio sui casi di abusi sessuali nell’esercito americano resterà in famiglia. Il senato degli Usa ha infatti respinto una controversa proposta bipartisan per esautorare i vertici militari dalla facoltà di decidere se mandare a processo o meno le segnalazioni di possibili reati gravi, tra cui quelli sessuali. Ma se il Pentagono – che aveva ferocemente attaccato la mozione – conserva il privilegio dell’ultima parola sulla sua disciplina interna, la scelta del Congresso è destinata a rintuzzare una polemica antica su quella che lo stesso presidente Usa Barack Obama aveva definito una «piaga da sradicare».
Una ferita inferta dal dilagare del fenomeno e aggravata dal «lassismo» che in molti imputano ai giudici militari.
L’aggettivo «allarmante» sulla questione l’ha appiccicato anche un’inchiesta di Associated Press che ha stimato in circa 5 mila i casi di stupro denunciati nel 2013 contro i 3.374 del 2012. E c’è da tarare anche l’omertà nelle camerate: solo una donna su cinque e un uomo su 15 denuncerebbe le violenze subite. I risultati forniti dallo stesso dipartimento della Difesa degli Usa parlano in un aumento del 35% dei abusi sessuali tra il 2010 e il 2012. Un’enormità in confronto ai 1.108 soldati indagati nel 2013, i soli 575 effettivamente processati e i 96 finiti sotto Corte marziale.
Nell’ultima relazione, diffusa a ottobre 2013, il Pentagono ha ammesso di avere ancora nel cassetto 1.600 dossier, tra quelli in attesa di procedimento e quanti attendono ancora il completamento delle indagini.
Il 27 gennaio 2013, Alfred Lambremont Webre, esperto militare americano, ha ulteriormente abbruttito il quadretto riferendo alla rete Press Tv che nel 2013 sono stati 85 mila i veterani americani che hanno ricevuto trattamenti medici per superare traumi causati da abusi sessuali.
Ma quel che è peggio è che le violenze carnali non il solo cancro dell’esercito più sconfinato del Pianeta, che – in attesa dei tagli alle truppe annunciati dal segretario della Difesa Chuck Hagel – conta oltre 1,1 milioni di effettivi, tra Regular army, Army national guard e Us army reserve.
Con don’t ask don’t tell esclusi 14 mila gay dall’esercito
Il 25% dei soldati americani monitorati dal programma Starrs ha mostrato disturbi mentali come depressione, disturbi bipolari o attacchi di panico.
Il tema dell’omosessualità è ancora molto delicato nelle forze armate a stelle e strisce: la politica del don’t ask, don’t tell – adottata nel 1993 da Bill Clinton per permettere a gay e lesbiche di restare in servizio a patto di non rivelare il proprio orientamento sessuale – è stata abrogata solo nel 2010 e durante il periodo di applicazione della legge almeno 14 mila omosessuali sono stati esclusi dall’esercito dopo aver fatto outing. Oggi il lato oscuro dello Us army è fatto di depressione, disturbi bipolari, attacchi di panico, patologie post-traumatiche da stress.
Nel 2008 il Pentagono ha lanciato Starrs (Study to assess risk and resilience in servicemember) un programma di indagine di chi fa parte dei ranghi militari americani in collaborazione con l’Istituto nazionale di salute mentale. Il 25% dei soggetti monitorati (un campione consistente di circa 5.500 militari) ha denunciato i sintomi di almeno un disturbo mentale, l’11% è risultato affetto da più di una patologia.
E c’è di peggio. Due documenti apparsi su Jama Psychiatry, un report a cadenza mensile elaborato dall’American medical association, hanno rivelato come un soldato su cinque al momento del suo ingresso nei corpi militari statunitensi è già affetto da depressione, attacchi di panico o disturbi da deficit di attenzione (Adhd). Il risultato è l’emersione di evidenti difetti nel processo di reclutamento e getta evidenti sospetti sui test d’ingresso che non riescono a filtrare quelli che dovrebbero. Ma non basta.
La depressione è il vero killer delle truppe americane: nel 2012, secondo un indagine di Ap, gli americani uccisi in Afghanistan furono 295. Quelli morti suicidi 325.
E nel 2013 per il giornalista del New York Times Nicholas Kristof «per ogni soldato ammazzato sul campo di battaglia quest’anno, circa 25 veterani stanno cercando la morte con le proprie mani».
Il 14% dei soldati in attività ha rivelato di aver pensato in passato di togliersi la vita, il 5,3% è arrivato a pianificare un gesto estremo e il 2,4% ha ammesso di aver messo in atto uno uno o più tentativi di suicidio. Questo è lo scenario dipinto dall’epidemiologo di Harvard Ronald Kessler, uno degli autori di uno studio su migliaia di militari americani. I reduci di Afghanistan e Iraq conservano una più decisa propensione al suicidio dei colleghi che non lasciano gli Usa, ha spiegato Kessler, ma il trend segnala un aumento generale del desiderio di autodistruzione anche tra i militari non schierati in combattimento in territori di guerra.
Il capitano Kurt Scott, che dirige un programma di prevenzione dei suicidi all’interno della Marina, ha spiegato come sia stata avviata una serie di iniziative che hanno lo scopo combattere lo stress – figlio degli abusi di droghe, alcol e problemi finanziari e famigliari – riconosciuto come una delle principali cause di suicidi. E il piano messo in moto prevede uno specifico addestramento ai soldati per riconoscerne i sintomi di depressione nei compagni di camerata.
Paul Prince, esponente e portavoce dell’esercito, ha certificato l’avvio di programmi di prevenzione dagli impulsi autodistruttivi con l’ausilio di 2.500 esperti con esperti militari e civili. Ma queste e altre iniziative varate dal Pentagono hanno frenato solo in parte la drammatica conta dei militari che si sono tolti la vita: dai 325 casi di suicidio documentati dal dipartimento della Difesa nel 2012 il numero e sceso a 301 nel 2013. Un progresso che non basta a medicare le ferite sulla coscienza di Washington.