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 2014  marzo 16 Domenica calendario

PETKOVIC: «IL MIO MODULO È LA NORMALITA’»

«Umiltà, normalità e ri­spetto». Sono i tre ca­pisaldi della filosofia di vita, ancor prima che calcistica, di Vla­dimir Petkovic, alle­natore della Lazio fi­no al 4 gennaio scorso (sostituito da Reja) e pros­simo ct della Svizzera, dal 1° luglio (al posto di Hitzfeld). «Vede quelle due torri laggiù in fondo al lago? Lì feci fare il primo provino a Lulic...», di­ce il tecnico “apolide” seduto al Caffè Lungolago di Locarno. È qui che lo incontriamo, nel buon ritiro ticinese in cui vive con la moglie Ljiljana ­«è la mia grande fortuna», dice sorseggiando un cappuccino - e le due figlie Ines e Lea: «I miei an­geli custodi, specie in Internet: ci sono 3-4 siti in cui scrive un “falso Petkovic” di cui dovete diffi­dare. Io non ho scritto né parlato neppure dopo quello che è successo con la Lazio...». Un addio brusco con il club biancoceleste. «Mi è dispia­ciuto tanto lasciare un progetto in corso che so­no sicuro avrebbe dato ancora dei risultati im­portanti. Comunque alle ferite da “coltellate al­le spalle” ho preferito rispondere come sem­pre, con il silenzio. Ringrazio il presidente Lotito e il ds Tare che hanno rischiato scegliendomi, ma io ho la coscienza a posto. Non ho mai tradito nes­suno e la gente lo sa. Quando cammino per le strade di Ro­ma i tifosi, laziali e non, mi fermano ancora per dirmi: “Lei Petkovic è un gran si­gnore!”. Questo per me è il riconoscimento più importante di una car­riera, in cui ho combat­tuto e combatterò sem­pre affinché a vincere sia la normalità».
Siamo partiti dall’episo­dio Lazio, dalla fine del “film” della sua vita. For­se è il caso di cominciare da Sarajevo, dove è nato nel 1963.
«Città affascinante, multietni­ca, in cui ho imparato tutte le lin­gue slave e ho studiato il russo per otto anni. Da universitario - iscritto a Giurisprudenza - ero immesso nel fermento cul­turale. Venivo da un’infanzia serena, tutta studio, famiglia e calcio. Al venerdì sera, spesso partivo per le trasferte con le squadre che allenava mio padre, Ivica Petkovic. Allo stadio veniva anche mia madre Nada e mia sorella Daniela che è sta­ta nazionale croata di pallamano e dopo la guer­ra della ex Jugoslavia è andata a vivere in Fran­cia. Adesso fa l’allenatore anche lei, a Tolosa».
Che ricordi ha di quella assurda guerra fratri­cida?
«Un grande silenzio che mi parlava di morti in­giuste. Nel ’92 ero già in Svizzera da cinque an­ni: mi ero trasferito per giocare nel Coira. Rac­coglievo aiuti umanitari e spedivo pacchi con i viveri ai miei genitori - e non solo - che erano ri­masti a Sarajevo. I primi sei mesi ricevevo quo­tidianamente loro notizie telefonicamente, poi quel silenzio spettrale... Un inferno, ma per for­tuna è finito».
Meglio parlare di calcio e del Petkovic giocato­re: centrocampista molto tecnico e già “allena­tore in campo”.
«Ho giocato in club di tutti e quattro i cantoni. Dicevano che somigliavo al bosniaco Dusan Bajevic e nelle giovanili del Sarajevo avevo stu­diato tanto Safet Susic, l’ex stella del Paris Saint Germain. Nel 2000 ho chiuso da allenatore-gio­catore nel Malcantone Agno, un piccolo mira­colo calcistico, in cinque anni passammo dal di­lettantismo alla serie B, per poi fonderci con il Lu­gano».
Quelli sono stati anche gli anni del suo impe­gno nella Caritas.
«Io lo chiamo il mio periodo di “purgatorio” - sor­ride Alla Lazio lei ha provato anche il vuoto del­le partite a “porte chiuse”, causa razzi­smo e antisemitismo degli ultrà.

«Mi dispiace molto. La passata stagione abbiamo disputato partite davanti a più di 60mila spettatori. Ci sono stati lunghi perio­di «La squalifica in Europa League è sta­to un danno per tutti. Ad alti li­velli si lavora e si gioca per la gente che più è e maggio­re sarà la produttività in campo. Il razzismo pur­troppo esiste ovunque, ma in Italia a me pare che a volte sia solo il pretesto per per ali­mentare inutili polemi­che e non per affrontare se­riamente il problema. E in­tanto gli stadi si svuotano».

I tifosi laziali stanno disertando l’O­limpico, protestano contro Lotito.

in cui non si sentivano né fischi, né contesta­zioni contro la società. Il calcio moderno ha crea­to uno scollamento tra il “divismo in campo” e la gente comune, e queste sono le conseguenze. Senza una formazione etica e un’informazione corretta, non si fa educazione. Si è perso il sen­so del rispetto».

“Chiedo rispetto”, è stata la prima frase che lei ha pronunciato al suo arrivo a Formello.

«Venivo dal Samsunspor, sapevo che la menta­lità del calcio turco somiglia tanto a quella ita­liana. La sana passione viene sopraffatta dalla pressione e dallo stress mediatico. Con un certo stupore ho scoperto che a Roma ci sono venti ra­dio che parlano di calcio dalla mattina alla sera, mentre a Milano sono solo due. Forse si dovreb­bero studiare e magari correggere certi fenome­ni... ».

Un peccato Capitale l’eccesso di radio sportive. Ma non ha nessuna nostalgia di Roma e della Serie A?

«Non ho ancora visto il film di Sorrentino, ma per me Roma è davvero una “Grande Bellezza”. Ho ricevuto tanto dalla Lazio, però ho anche ridato indietro qualcosa di importante. Battendo la Ro­ma nella finale di Coppa Italia, abbiamo scritto una pagina di storia. Peccato che il passato sia davvero una “terra straniera” che pochi ricono­scono... Se in futuro un club di A mi proponesse un progetto serio accetterei volentieri la sfida».

Prima però, per lei c’è quella con la Svizzera che, con la nuova legge sull’immigrazione, avrebbe solo tre “figli di stranieri” tra i titolari.

«La Super League è piena di calciatori figli di stra­nieri che ormai, però, sono svizzeri anche di quarta generazione. La globalizzazione in que­sto caso ha migliorato la qualità degli atleti, ha permesso di creare accademie, ma soprattutto ha fatto capire alla Svizzera l’importanza di investi­re sullo sport come strumento di integrazione».

Noi abbiamo appena cominciato con il “black­italian” Mario Balotelli, che però passa più per un “ragazzo difficile” che un campione az­zurro.

«In ogni squadra c’è un Balotelli. Allo Young Boys ne avevo due: Doumbia e Doubai. Li portavo a casa mia e ci parlavo, più che con gli altri. A vol­te a questi ragazzi manca una figura paterna. A noi allenatori, invece, manca il tempo per stabi­lire dei rapporti umani con loro. Su questo a­spetto lavorerò ancora di più quando sarò ct».

Il primo obiettivo da ct della Svizzera?

«Portare i giocatori della nazionale inVaticano per incontrare le guardie svizzere e magari papa Francesco. Lui è il massimo esempio di norma­­lità, un Papa che dice buon appetito quando la Messa è finita...».