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 2014  marzo 15 Sabato calendario

DECIDERE DI MORIRE


«Solo noi possiamo capire cosa significa», dice Chiara Rapaccini, famosa illustratrice e compagna di Mario Monicelli. Annuisce complice Francesco Lizzani, stessa faccia del padre Carlo: professore di storia e filosofia, riflette sul gesto paterno con amorevole lucidità. Al telefono c’è Luciana Castellina, anche lei ha conosciuto il dolore evocato da Chiara. E non importa se Lucio Magri ha fatto una scelta diversa, non il volo da una finestra, ma un lungo viaggio verso la fine: in Svizzera, con l’aiuto di un amico medico. E sa di cosa parliamo Carlo Troilo, che arriva in redazione con Chiara e Francesco. È lui che li ha voluti al suo fianco per sostenere la legge di iniziativa popolare sull’eutanasia, promossa dal partito radicale e già consegnata alla Boldrini (se ne parlerà oggi alle 14.30 su Radio Radicale). Anche il fratello di Carlo, malato terminale, s’è gettato nel vuoto. E la legge dovrebbe evitare proprio questo, consentendo una morte più dignitosa a chi è già molto grave. Eutanasia, non suicidio assistito, che richiede un passaggio ulteriore: aiutare a morire persone che non sono necessariamente malati terminali. «Andiamo per gradi», dice Troilo. «È il primo passo di un percorso non facile. Anche perché la politica non risponde». Sentimenti privati e battaglie pubbliche, difficile tenerli separati. Anche un atto di generosità da parte di tre persone che vincono una naturale ritrosia perché sia possibile a tutti scegliere di morire in pace, vicino a chi si vuol bene.
Lizzani: Quello di mio padre non è stato il gesto di una persona incapace di intendere e di volere, ma un atto lucido che in Italia non può che essere cruento. So bene che una legge non risolve tutto, ma sarebbe un’iniziativa necessaria in un paese che appartiene all’Europa: l’Illuminismo fa parte del suo codice genetico.
Rapaccini: Ogni anno ci sono circa mille persone molto malate che si tolgono la vita. Di loro non si parla mai.
Castellina: Che ciascuno disponga della propria vita mi sembra un diritto sacrosanto. La cosa inammissibile è che queste proposte non vengano mai discusse in Parlamento.
Lizzani: Sì, quel principio deve essere salvaguardato. Ne ho parlato molte volte con mio padre e con mia madre, entrambi non più autosufficienti. Ma era un’ipotesi teorica, un ragionamento ideale. Mio padre rivendicava il diritto di una persona di porre fine alla sua vita. Cosa che poi lui ha fatto, del tutto sorprendentemente.
Rapaccini: No, per me non è stata una sorpresa. Io me l’aspettavo da trent’anni. La morte faceva parte del Dna di Mario e della nostra vita insieme, anche in una chiave ironica. C’era la famosa polpetta avvelenata che Mario invocava per sé o per i nostri amici in caso di rimbambimento. E il suicidio era una delle possibilità. Non dimentichiamoci che il padre di Mario — Tomaso Monicelli — si era ucciso con un colpo di pistola in bocca. Sento già qualcuno dire «poveracci, ma allora era una famiglia di pazzi». Tutto il contrario: era una famiglia colta e profondamente laica.
Lizzani: Quando morì Monicelli, mio padre parlò di una «giovane lucidità». Fu colpito dal modo in cui aveva scelto di controllare la sua vita fino in fondo. Un “superlaico”, così disse. Sì, in questo senso una rivendicazione politica: nel suo giudizio troviamo la chiave per capirne l’atto successivo. Anche se il suo gesto è maturato molto tardi. Credo che mio padre abbia combattuto fino alla fine per la vita. Aveva dei progetti, cantieri ancora aperti. Negli ultimi tempi aveva pensato di arrivare sul set in ambulanza. Ma poi gli è venuta meno la forza fisica. E soprattutto — questo il passaggio più rilevante — gli è mancata la forza per aiutare mia
madre. Non posso fare più niente per gli altri: qui deve essere calato il buio.
Castellina: Lucio ne parlava da anni, quindi non eravamo affatto sorpresi. Ma nel suo caso si trattava di una depressione profonda: non aveva più interesse alla vita, sia nella sfera pubblica che nel privato, avendo perso la moglie Mara. Io mi arrabbiavo, opponendogli la mia smisurata voglia di vivere. E lui mi trattava male: «Non stai mai ferma, sembri una gallina impazzita». Non poteva capirmi.
Rapaccini: No, per Mario non si trattò di depressione. Il suo è stato un gesto di libertà straordinario. Libertà e coraggio. Io la vedo così: la morte eroica di un combattente. Forse non esiste al mondo un quasi centenario che decida di farla finita. Hanno scritto che si sarebbe suicidato perché era un malato terminale. Ma figuriamoci. Se gli avessero detto: guardi, Monicelli, lei ha pochi giorni di vita, per lui sarebbe stata una bella notizia. E invece gli dissero: la dimettiamo. Conviveva da anni con un tumore alla prostata. E sarebbe vissuto ancora un po’.
Lizzani: Il fatto che a quell’età un uomo trovi la forza di fare un gesto del genere... un ragazzo. In questo senso lo è stato anche mio padre. Io lo immagino davanti alla finestra, in quei dieci metri quadrati della stanza. Come sul set di uno dei suoi film. Avrà contato i passi fino alla parete, e poi il peso del corpo in
all’altezza: quanto devo spingermi in avanti per cadere sotto. Ha calcolato tutto con una lucidità stupefacente.
Rapaccini: Mi ha sempre colpito che Magri si sia ucciso negli stessi giorni della morte di Mario, un anno dopo.
Castellina: Il tratto che accomuna queste tre persone è più di carattere culturale e anagrafico. La nostra è una generazione che non si accontenta di sopravvivere. Una generazione che vuole essere soggetto della storia, consapevole fino in fondo del proprio ruolo rispetto al contesto sociale. E quando Lucio ha sentito che non c’era più niente da dire è come ammutolito.
Lizzani: No, per mio padre non è stato così. Mi colpisce invece un’altra associazione, che rimanda alla dimensione tragica dell’esistenza. All’inizio della sua vita professionale, ricevette da Rossellini una delega in bianco per Germania anno zero.
«Lizzani ha girato gli otto minuti più belli della storia del cinema», mi dissero una volta scherzando i fratelli Taviani. È la sequenza del bambino suicida. La sintassi di quelle immagini restituisce il massimo della drammaticità: la passeggiata in una Berlino fantasmagorica, il gioco con la palla, l’approdo sul cornicione dove il bambino si passa la mano sulla faccia, che si trasforma improvvisamente in quella di un vecchio. Il miracolo di un’immagine che condensa una disperazione infinita. Poi il bambino cade nel vuoto. Mio padre ha fatto lo stesso.
Castellina: Nessuno di noi è in grado di valutare il dolore del vivere. E quando il dolore è così forte devi entrarci dentro per provarlo. Io faccio fatica a capire. Rossana (Rossanda,
ndr) lo capisce di più. Per lei è stato molto duro accompagnare
Lucio. Ancora ne risente.
Rapaccini: Ora noi stiamo parlando di Monicelli, Lizzani e Magri che sono personaggi pubblici. Però ci sono storie meno note come quella di mio padre Franco Rapaccini, morto in un cronicario di Firenze. Non potevo vederlo agonizzare in quel modo, così supplicai il medico affinché gli desse la morfina. Una battaglia estenuante. E quando finalmente la ottenni, mentre gli iniettava la dose letale l’infermiera cattolica mi rimproverò: non si uccidono i padri.
Lizzani: In realtà hai esercitato un’altissima forma di pietas che ricorda quella di Antigone. Anche in questo caso il conflitto tra la legge dell’uomo e quella della città. Solo che in Italia Creonte è impersonato dalla Chiesa cattolica, titolare del potere autoritario più durevole della storia. Viviamo in un paese di controriforme senza riforma, come diceva Croce. La classe dirigente laica ha abdicato al suo ruolo storico. E qui nasce il vuoto legislativo su questi temi che è anche vuoto culturale. Siamo vittime della “sin-
drome del Grande Inquisitore”, che vuole la tua salvezza, ma decide lui quale sia.
Rapaccini: L’onorevole Binetti disse che Mario era un poveretto, abbandonato dai famigliari. Con Ettore Scola e altri abbiamo deciso di querelarla.
Lizzani: Anche a me non furono risparmiate sgradevolezze. Nel corso di un dibattito radiofonico, sono stato azzannato da una sorta di lupo travestito da Cappuccetto rosso: non gli era bastato accanirsi sul corpo di mio padre, ma ha aggiunto che anche io ero obnubilato dal dolore. In realtà sono sempre stato affascinato dal dialogo leopardiano tra Plotino e Porfirio. Le ragioni della vita contro quelle dell’aspirante suicida. Sono sempre stato dalla parte della vita e anche negli ultimi tempi ho cercato di aiutare mio padre a trovare un senso. Poi lui ha scelto in altro modo, e io lo rispetto.
Castellina: Io ancora non riesco a perdonare Lucio. Provo una grandissima rabbia. Questo non significa che non gli riconosca il diritto di decidere della sua vita, per questo mi batto per la legge. Ma mi sento offesa. Il suo è stato un gesto autoreferenziale. Vuol dire che i legami di amicizia non servono a fermarti. E che il tuo dolore conta più del dolore che procuri.
Rapaccini: No, non sono d’accordo. Mi riconosco di più nelle parole di Gibran: i figli sono frecce, i genitori gli archi, più ami una persona più la spingi lontano. E questo vale anche nei rapporti d’amore. Se amo Mario devo lasciarlo andare.
Lizzani: Mah, ci può essere anche il momento in cui uno pensa: ho fatto il possibile e non ci sono riuscito, porca miseria. Un cedimento umano, forse una debolezza narcisistica. In realtà bisogna arrivare alla conclusione di Chiara.
Rapaccini: Forse un po’ di rabbia ti resta, ma non voglio parlare del mio dolore. Mario non ha lasciato nessuna lettera. Faceva sempre quel che gli pareva, non era da lui dare spiegazioni.
Lizzani: Invece era da mio padre lasciare un biglietto. «Ditha adorata, figli carissimi, è meglio così. Stacco la chiave». Se ripenso alle sue parole, quello che colgo è una grandissima dignità. Non si giustifica né chiede scusa, ritenendo di non aver commesso alcun peccato. E il lato affettivo è molto forte. Non ci ha voluto coinvolgere nel suo gesto anche per pudore. Resta l’amore, che è più forte dell’abbandono.