Alberto Pezzini, Libero 15/3/2014, 15 marzo 2014
QUANDO L’AVVOCATO PROCESSA SE STESSO
Tutto è cominciato con Davide Serra, il finanziere considerato(si) uno dei migliori analisti al mondo. Amico di Renzi, laureato alla Bocconi con 110 e lode, oggi vive a Londra dove ha fondato Algebris, un fondo speculativo: per lui gli avvocati sono il cancro dell’Italia.
Tra le innumerevoli proteste urlate dall’avvocatura per un’espressione tanto azzardata (?), è stato promosso ed organizzato da Legalcommunity.it (un giornale on line editato da Aldo Scaringella e diretto da Nicola Di Molfetta che si occupa di avvocati come se fossero un’impresa) un convegno dal titolo provocatorio: Processo all’avvocatura. Si terrà il 27 marzo a Milano presso lo studio La Scala di Milano e si svolgerà come un vero dibattimento scandito da arringhe e requisitorie: unica particolarità, saranno soltanto gli avvocati a processare sé stessi, sul banco degli imputati, per capire chi siano davvero al di là delle leggende metropolitane che su di loro impazzano.
«Lo spirito dell’iniziativa consiste nel capire se sia vero che gli avvocati siano un cancro oppure no», dice Nicola Di Molfetta. Ma gli avvocati, sono davvero il principale problema della giustizia italiana?
Sono loro i responsabili dell’andamento lentigrado delle cause, pur essendo in numero spropositato rispetto agli altri paesi europei? In ogni famiglia italiana – su una media di cinque – esiste e vive sempre un avvocato. Anche se oggi gli avvocati italiani arrancano, molti di loro stando sotto il tetto dei 10.000 euro all’anno come reddito. Eppure non sono soltanto pennaruli, come una tradizione antica, di sangue napoletano, insegnava. Al di là dell’espressione provocatoria di Serra, c’è da dire che gli avvocati non sono proprio un tumore per la giustizia: non più dei giudici, per esempio, che a loro differenza possono condannare ed in generale emettere sentenze senza responsabilità alcuna. Più che una degenerazione del sistema essi incarnano l’orgoglio, la vanità sopra ogni cosa, come diceva Al Pacino ne L’avvocato del diavolo. Gli avvocati a volte nascondono perciò una natura intima, da narciso, tanto da avvertire l’esigenza fortissima di scrivere di sé stessi e del sistema dove operano.
E non scrivono soltanto nelle riviste specializzate che sono circa una quarantina, almeno quelle più gettonate e più lette: da Guida al Diritto al Foro Italiano, a Giustizia Penale per esempio. Qualcuno ricorda al riguardo che Presunto innocente venne scritto negli anni ’80 da Scott Turow, un giovane pubblico ministero (prosecutor) il quale sfornò quel grande romanzo e primo legal thriller nel mondo sui sedili di un treno. Quando andava e tornava dal lavoro. Tanto per non perdere del tempo. Oggi è socio di uno dei più importanti studi di Chicago e fa l’avvocato.
E come difensore ha fatto uscire dal braccio della morte un cliente che vi era rinchiuso da 11 anni senza aver commesso crimine alcuno. Poi è arrivato John Grisham, con Il socio. Uno spaccato rivelatore del mondo spietato delle legal firm, i grandi studi legali dove entri all’alba ed esci di notte. Vita privata zero. Sullo schermo il Socio aveva il volto giovane e convincente di Tom Cruise. Pochi sanno che in realtà il miglior libro di Grisham è stato Il momento di uccidere, storia di un omicidio. Da quegli esordi sono derivati i film sugli avvocati. Questi ultimi – come i medici – tirano sempre. Non c’è nient’altro come un processo capace di attizzare l’attenzione sia dello spettatore che di un lettore. Perry Mason (interpretato da un autorevole Raymond Burr) è stato il padre fondatore delle serie televisive sugli avvocati che oggi vedono serial televisivi comprendenti anche avvocati in divisa, per esempio, o cattivi come quelli di Boston Legal o del sguitissimo Suits.
Tom Cruise – in Codice d’onore – mentre interroga un cazzutissimo Jack Nicholson con sigaro incorporato, che poi verrà arrestato, è diventato un must per tutti gli avvocati. Qualcosa anche di fuorviante, anche. Chi si avvicina alla pratica legale, pensa che un giorno finirà così, a duellare e tenere testa ad un roccioso generale di Guantanamo, finendo per schiantarlo dopo una lotta processuale all’ultimo sangue. In realtà lo scenario è molto diverso.In Italia il Principe del foro non esiste (Alberto Fezzi, Giubilei Regnani Editore), secondo un giovane avvocato di Verona che ha rivelato quale sia lo scenario degli studi italiani. Molto più di Studio Illegale di Duchesne, al secolo Federico Baccomo (2009, Marsilio), il quale si occupava soltanto delle realtà vigenti all’interno dei grandi studi, quelli con due segretarie e poltrone Frau nella sala riunioni.
Gli avvocati non sono un cancro. Sono la cura per il cancro. Ricordiamoci di Philadelphia, dove Tom Hanks muore di Aids e la sua morte subisce una colpevole accelerazione perché lo studio di appartenenza lo licenzia quando ne scopre la vergognosa malattia. A difenderlo c’è un avvocato negro, interpretato da Denzel Washington, che fa dire al collega malato – seduto sul banco dei testimoni – chi siano davvero gli avvocati. O cosa sia veramente importante per uno di loro: applicare il diritto alla realtà, riuscire ad ottenere una modificazione dei fatti concreti grazie all’applicazione abile delle norme. E’ un cancro Guido Guerrieri, il personaggio mitico creato da Gianrico Carofiglio, protagonista di tante storie in cui si scopre che un vero avvocato è soprattutto un uomo capace di soffrire introiettando dentro di sé un mare nero di sofferenza? O l’avvocato Alessandro Gordiani, frutto della penna di un avvocato penalista di Roma – Michele Navarra – che è diventato il fiore all’occhiello della Giuffrè Editore, specializzata in libri giuridici?
Pensate un po’ che un avvocato napoletano ha fatto fortuna come scrittore ideando la figura del legale un po’ sfigato, al quale ad un certo punto la vita comincia a sorridere.
All’improvviso. Diego De Silva con Non avevo proprio capito niente (Einaudi) ha forse spiegato quanto sia difficile anche per un avvocato cercare di far combaciare il pasto con la cena. O meglio, ha chiarito come la vita scorra sempre di traverso per una classe che gli altri credono privilegiata, mentre non lo è per niente. Anche per gli avvocati è diventato difficile lavorare. La crisi, la gente sempre incazzata, i giudici che li fanno aspettare ore nei corridoi per dargli sistematicamente torto, i clienti che non pagano mai. Negli ultimi quattro anni il reddito medio si è contratto del 17%, mentre anche per le donne è diventata ancora più dura. Da quando poi è scattato l’obbligo di iscrizione alla Cassa Previdenziale – che ha costi elevatissimi con una speranza di percepire una pensione pari a zero – gli avvocati giovani sono entrati direttamente in crisi perché non sono in grado di pagare le rate. Per i circa 60 mila avvocati non iscritti ad oggi, aderire alla Cassa ha significato pagare un esborso pari ad euro 3.512,00 all’anno. Eppure soltanto a Roma ci sono avvocati quanti nell’intera Francia ma il tozzo di pane da guadagnare costa sempre di più e sa ormai di sale. Gli avvocati cercano di risparmiare con i praticanti che – secondo il Codice deontologico – bisogna pagare ma in realtà sono molto spesso delle segretarie mascherate ed ipersfruttate. Tanto che anche Michael Connelly ha mandato in libreria Il quinto testimone, storia di un avocato penalista che per sopravvivere si converte in civilista specializzato nei pignoramenti immobiliari contro le banche.
Forse quella forense è una delle poche classi capace di raccontarsi da sempre: e questo è anche un segno di trasparenza, a tutto voler concedere. Per cercare di smaltire i traumi incassati durante il giorno, un avvocato cosa può fare alla notte? Scrivere con la luce accesa perché il buio oltre la siepe fa sempre paura.
E studiare, studiare sempre. Questa è la vera cura per combattere un cancro.