VARIE 16/3/2014, 16 marzo 2014
APPUNTI PER GAZZETTA - IL REFERENDUM IN UCRAINA
REPUBBLICA.IT
Il ’Si’ all’annessione della Crimea alla Russia ha vinto con il 93%, secondo un exit poll: lo ha riferito la tv statale russa Rossia 24. Pochi minuti dopo la diffusione del risultato, la Casa Bianca ha respinto il risultato del referendum sull’adesione alla Russia, che sancisce la secessione dall’Ucraina di Kiev. E Washington avverte e che ora Mosca affronterà "costi crescenti" per l’intervento militare e la violazione del diritto internazionale nella penisola ucraina. Poco prima il presidente della Ue Herman Van Rompuy e il presidente della Commissione Ue José Barroso avevano definito la consultazione elettorale illegale e illegittima, anticipando che il suo risultato non verrà riconosciuto".
CORRIERE.IT
Mosca «rispetterà la scelta degli abitanti della Crimea», la cui volontà viene espressa «nel pieno rispetto delle norme del diritto internazionale». Così il presidente russo Vladimir Putin ha appoggiato il referendum nella penisola in una telefonata alla cancelliera tedesca Merkel, durante la quale i due hanno ipotizzato l’invio di una missione di osservatori Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa). D’altro canto l’Ue per bocca del presidente della Commissione Barroso ha fatto sapere che non riconoscerà i risultati del referendum e che deciderà delle sanzioni. Stessa posizione hanno preso gli Stati Uniti. Il segretario di Stato John Kerry ha chiamato il ministro degli esteri russo Serghiei Lavrov e ha sottolineato come gli Stati Uniti siano «fortemente preoccupati» per le «continue provocazioni» russe nell’est dell’Ucraina e per le attività militari in atto in alcune zone contigue alla Crimea.
La tregua
Intanto, come ha spiegato il ministro della Difesa ucraino Ihor Tenyukh, Mosca e Kiev hanno siglato l’accordo per una tregua che fino al 21 marzo metterà al riparo le infrastrutture militari ucraine da eventuali attacchi russi. «Un accordo è stato raggiunto con la Flotta russa nel Mar Nero (che ha base a Sebastopoli, in Crimea, ndr) e con il ministero della Difesa russo», ha detto il ministro. «Nessuna misura sarà presa fino al 21 marzo», ha continuato conversando con i giornalisti, «contro le installazioni militari in questo periodo. In ogni caso stiamo inviando nuove unità nei nostri siti militari».
Due quesiti
Nel frattempo, i seggi sono aperti fino alle 21 in Crimea per il referendum sull’adesione alla Russia. Due i quesiti, in tre lingue (russo, ucraino e tataro), ai quali sono chiamati a rispondere gli elettori («Sostieni la riunificazione della Crimea con la Russia?». E poi: «Sostieni il ripristino della Costituzione della Repubblica di Crimea del 1992 mantenendo lo status della Crimea come parte dell’Ucraina?»). Al voto oltre 1,5 milioni di persone, in 1205 distretti elettorali, con 27 commissioni elettorali cittadine e distrettuali. Altissima l’affluenza: a quattro ore e mezza dall’apertura dei seggi, a Sebastopoli, la città più popolosa della Crimea, ha già votato oltre il 50% degli aventi diritto. I risultati sono attesi già domenica sera. È già certo che ci saranno poche sorprese: la penisola diventerà un pezzo di Russia.
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La Crimea al voto, code ai seggi
La Crimea al voto, code ai seggi
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«Torniamo a casa»
Schede elettorali in urne trasparenti (Epa)Schede elettorali in urne trasparenti (Epa)
Il referendum è stato definito «vergognoso e illegale» da Hollande e Renzi a nome di tutto l’Occidente. Eppure, sin dalle prime ore del mattino, migliaia di persone sono affluite ai seggi. «Torniamo a casa», ha detto qualche elettore mostrando la scheda elettorale alle telecamere e ai fotografi, prima di inserirla nell’urna. Che, fanno notare su Twitter, sono grossi contenitori trasparenti.
Kiev: «Altri 22 mila soldati russi»
La tensione militare tra Ucraina e Russia è ai massimi livelli. Il ministro della Difesa ucraino, Ihor Tenyukh, ha detto domenica che sono aumentate a 22.000 le unità militari russe presenti in Crimea. In altre parole il Cremlino avrebbe violato il limite di 12.500 soldati previsto dall’accordo che consente a Mosca di avere una base per la propria flotta a Sebastopoli, su Mar Nero. Si tratta, ha sottolineato il ministro, di «una brutale violazione degli accordi e della prova che la Russia ha illegalmente fatto entrare truppe nel territorio della Crimea». «Siamo di fronte a un aumento delle unità russe», ha aggiunto Tenyukh, «e le forze armate ucraine stanno prendendo misure appropriate lungo i confini a Sud».
Bocciata la risoluzione Onu
Continua insomma una pericolosa strategia della tensione. Sabato le autorità di Kiev hanno denunciato la presenza di truppe di Putin nella regione di Kherson, al confine con la Crimea. «Mosca ci invade, reagiremo», hanno detto le autorità ucraine. Il ministero degli Esteri di Kiev ha chiesto il «ritiro immediato» delle forze russe, minacciando di rispondere «con tutti i mezzi per fermare l’invasione militare». Sabato la risoluzione presentata al Consiglio di Sicurezza dell’Onu contro il referendum non è passata per il veto posto dalla Russia.
Strategia della tensione
Giovedì a Donetsk, nell’Est filorusso, ci sono stati due morti. Venerdì notte una misteriosa sparatoria a Kharkiv, zona russofona: un putiniano delle milizie popolari è rimasto ucciso assieme a un passante dell’ultradestra ucraina di Pravi Sektor. Il sequestro e il rilascio lampo del cappellano ortodosso della Marina di Sebastopoli, padre Mykola Kvych, minacciato da giorni. Un’incursione serale nell’hotel Mosca, nella capitale Crimea, dove dorme un centinaio di giornalisti. Oltre alle esercitazioni militari russe al confine e alle nuove incursioni («Ci sono numerosi appelli d’aiuto dei russi d’Ucraina, non possiamo ignorarli», spiega il portavoce della Duma).
DAGOSPIA
Articolo di Thomas L. Friedman per "The New York Times" pubblicato da "la Repubblica" - Traduzione di Fabio Galimberti
Thomas L. FriedmanThomas L. Friedman
Con la Russia che ringhia infuriata per la caduta del suo alleato che governava l’Ucraina e che continua a proteggere l’assassino suo alleato che governa la Siria, tutti si affannano a dire che stiamo tornando ai tempi della Guerra Fredda e che Obama e la sua amministrazione sono troppo timidi nel difendere i nostri interessi o i nostri amici. Mi pregio di dissentire. Io non penso che la Guerra Fredda sia tornata: la situazione geopolitica corrente è molto più complessa di allora. E non penso nemmeno che la cautela del presidente Obama sia del tutto fuori luogo.
La Guerra Fredda fu un evento unico, in cui si fronteggiavano due ideologie globali, due superpotenze globali, e ognuna delle due aveva dietro armi nucleari che potevano colpire in tutto il mondo e un’ampia rete di alleati. Il mondo era diviso in una scacchiera rossa e nera e l’identità di chi governava le singole caselle poteva avere ripercussioni sulla sicurezza, il benessere e il potere di ognuno dei due schieramenti. Era anche un gioco a somma zero, in cui ogni guadagno per l’Unione Sovietica e i suoi alleati era una perdita per l’Occidente e la Nato, e viceversa.
Thomas L. FriedmanThomas L. Friedman
Quel gioco è finito. Abbiamo vinto noi. Quello che abbiamo oggi è al tempo stesso un gioco più vecchio e un gioco più nuovo. La più importante linea divisoria nella geopolitica del mondo odierno è «fra quei Paesi che vogliono che il loro Stato potente e quei Paesi che vogliono che il loro Stato sia prospero», sostiene Michael Mandelbaum, professore di politica estera all’università Johns Hopkins.
Nella prima categoria rientrano Paesi come la Russia, l’Iran e la Corea del Nord, guidati da leader che puntano innanzitutto a costruire autorità, rispetto e influenza attraverso uno Stato potente. E avendo i primi due il petrolio e il terzo armi atomiche da barattare con rifornimenti alimentari, i loro leader possono sfidare il sistema globale e sopravvivere, se non addirittura prosperare, giocando al vecchio e tradizionale gioco della politica della forza per controllare la loro regione.
La seconda categoria, quella dei Paesi che puntano a costruire rispetto e influenza attraverso la prosperità della loro popolazione, include tutti i Paesi del Nafta in Nordamerica, dell’Unione Europea, del Mercosur in Sudamerica e dell’Asean in Asia. Queste nazioni sono consapevoli che la tendenza più importante del mondo odierno non è quella che porta verso una nuova Guerra Fredda, ma quella che porta verso una fusione tra globalizzazione e rivoluzione informatica.
putin obamaputin obama
Questi Paesi puntano a realizzare scuole di qualità, infrastrutture, banda larga, sistemi di scambi commerciali, aperture per gli investimenti e gestione economica, per fare in modo che una percentuale maggiore dei loro cittadini possa godere di benessere in un mondo in cui ogni lavoro di classe media necessita di maggiori competenze e dove la capacità di innovare costantemente determina il tenore di vita. (La vera fonte di potere sostenibile).
Ora però c’è una terza categoria, sempre più nutrita, e sono quei Paesi che non sono in
grado né di esercitare la forza né di costruire prosperità. Sono il mondo del «disordine», nazioni consumate da lotte interne su questioni fondamentali come: Chi siamo? Quali sono i nostri confini? Di chi sono questi ulivi? A questa terza categoria appartengono Siria, Libia, Iraq, Sudan, Somalia, Congo e altri punti caldi del pianeta.
putin- obamaputin- obama
Mentre le nazioni che puntano sulla potenza dello Stato giocano un ruolo in alcuni di questi Paesi - per esempio la Russia e l’Iran in Siria - quelle che si preoccupano innanzitutto di costruire la prosperità cercano di non farsi coinvolgere troppo. Sono pronte a dare una mano per mitigare le tragedie umanitarie, ma sanno che «conquistare » uno di questi Paesi nel gioco geopolitico odierno significa accollarsi un onere.
In Ucraina tutte e tre queste tendenze si accavallano. La rivoluzione di piazza Maidan è avvenuta perché il Governo è stato indotto dalla Russia, che vuole mantenere l’Ucraina nella sua sfera di influenza, a non sottoscrivere un accordo commerciale con l’Unione Europea, un accordo a cui tanti ucraini interessati soprattutto ad accrescere la prosperità della popolazione guardavano con favore. Questa spaccatura ha innescato anche le spinte di secessione da parte delle regioni orientali del Paese, dove la maggioranza della gente parla russo e guarda alla Russia.
iraq guerra 0013 ansairaq guerra 0013 ansa
Che fare, quindi? Il mondo sta scoprendo che gli Stati Uniti ormai ci pensano dieci volte prima di intervenire all’estero. Per una serie di ragioni concomitanti: la fine della minaccia alla propria stessa esistenza rappresentata dall’Unione Sovietica, il fatto di aver investito troppe vite umane e 2.000 miliardi di dollari in Iraq e in Afghanistan ricavandone molto poco in termini di impatto duraturo, la crescente indipendenza energetica dell’America, la capacità dei nostri servizi segreti di impedire un altro 11 settembre e la presa di coscienza che risolvere i problemi dei Paesi più tormentati del mondo del disordine spesso è un’impresa che va al di là delle capacità, delle risorse e della pazienza di cui disponiamo.
Nel mondo della Guerra Fredda era semplice decidere le politiche da adottare.
La guerra in Afghanistan la piu intensa dopo la guerra in CoreaLa guerra in Afghanistan la piu intensa dopo la guerra in Corea
C’era la politica del «contenimento », che ci diceva cosa dovevamo fare e che dovevamo farlo quasi a qualsiasi prezzo. Oggi chi contesta Obama dice che dovrebbe fare «qualcosa» sulla Siria. Lo capisco. Il caos che regna laggiù potrebbe finire per far sentire i suoi effetti nefasti anche da noi.
Se esiste una politica in grado di risolvere la situazione siriana, o anche semplicemente di fermare le uccisioni in modo stabile e duraturo, a un costo sopportabile e che non vada a discapito di tutte le cose che dobbiamo fare qui in patria per garantire il nostro futuro, contate pure sul mio sostegno.
Canti e gesti contro la polizia ucrainaCanti e gesti contro la polizia ucraina
Ma dovremmo aver imparato qualche lezione dalle nostre ultime esperienze in Medio Oriente. Innanzitutto che ne sappiamo molto poco delle complessità sociali e politiche dei Paesi di quell’area. In secondo luogo che siamo in grado - sostenendo costi considerevoli - di impedire che in quei Paesi succedano cose brutte, ma non siamo in grado, solo con le nostre forze, di fare in modo che succedano cose belle. E in terzo luogo che quando cerchiamo di fare in modo che succedano cose belle corriamo il rischio di assumerci noi la responsabilità di risolvere i loro problemi: una responsabilità che in realtà spetta a loro.