Davide Frattini, Corriere della Sera 15/3/2014, 15 marzo 2014
SIRIA, TRE ANNI DI GUERRA
Settantadue ore per leggere centomila nomi. Tre giorni per ricordare i morti di tre anni. Non bastano a elencare tutte le vittime della carneficina in Siria: i caduti della guerra raggiungerebbero almeno i centoquarantamila, cifre ufficiali non ne esistono da quando le Nazioni Unite hanno smesso di tenere la contabilità del massacro. La scrittrice Amal Hanano ha chiesto ad altri siriani (come lei auto-esiliati negli Stati Uniti) di presentarsi a Washington, di piazzarsi davanti alla Casa Bianca. E leggere.
Da settimane Hanano (il nome è di copertura per evitare le rappresaglie del regime) pubblica su Twitter i ritratti realizzati dall’artista americana Molly Crabapple: pochi segni a china su sfondo seppia per commemorare uomini come Rami Al Sayed, 26 anni, che ha documentato con il suo telefonino e la videocamera le violenze fino al febbraio del 2012 quando la sua macchina è stata centrata da un razzo. Bambine come Batoul, 12 anni, uccisa da un’autobomba a gennaio. Ragazzi come Firas Al Salem morto sotto tortura dopo aver passato un anno nelle celle del regime. Volontari come Mohamed Abyad, 28 anni, chirurgo con Medici senza frontiere ad Aleppo assassinato da uno dei gruppi fondamentalisti che ormai spadroneggiano nel nord del Paese.
«La gente indica diverse date per l’esordio della rivoluzione: il 17 febbraio, il 6 marzo, il 15, il 18 - scrive Hanano -. Tutte queste giornate sono cominciate alle stesso modo. Con una voce». Una voce che si alza sopra le altre e che presto le altre seguono: «Allah, Siria, Libertà». È la prima volta in quarant’anni che la gente osa emendare lo slogan insegnato ai bambini fin dalle elementari. Prima la sacra triade si concludeva con Hafez, il capostipite della dinastia degli Assad. Dal 2000 bisogna inneggiare al figlio Bashar richiamato da Londra e dagli studi di oftalmologia per raccogliere lo scettro paterno. Con la rivolta una sola parola cancella i due nomi odiati in silenzio. Razzan Ghazzawi, una delle attiviste più influenti, sopravvissuta al carcere del regime, rievoca l’euforia di quelle prime manifestazioni pacifiche: «Ritrovarsi insieme, scoprire che eravamo tutti donne e uomini con sogni repressi. Raggiungo il luogo stabilito per la protesta, vedo gli altri che si raggruppano. Salto, canto, stringo mani: muoviamo i nostri corpi in sintonia con i cori. Nessuno potrà toglierci quei giorni». Nessuno, neppure l’ironia lugubre del parlamento siriano. In un Paese da dove 2,5 milioni di civili sono fuggiti al di là delle frontiere e dove altri 6,5 milioni sono rimasti senza casa intrappolati nel conflitto (profughi in patria), il Parlamento ha votato la nuova legge elettorale: vieta a chi non abbia la residenza da almeno dieci anni di candidarsi, in pratica esclude i leader dell’opposizione e lascia aperta a Bashar Assad la strada per il terzo mandato.
Non certo l’esito immaginato dai cittadini di Deraa, 110 chilometri a sud di Damasco verso il confine la Giordania. L’autostrada a quattro corsie scende dalla capitale parallela alla vecchia provinciale, che si spezza verso i villaggi dove i cammelli pascolano tra i dadi grigi delle case non intonacate. La piana di Hauran è a stragrande maggioranza sunnita, ancora più che il resto della Siria: gli alauiti al potere, la setta religiosa della famiglia Assad, sono da sempre ossessionati da un’insurrezione etnica che parta dalle tribù di quest’area.
Così nell’aprile del 2011 raccontava la fine della paura - di protestare, di sperare - il gruppo di insegnanti e impiegati che si era ritrovato a guidare le prime manifestazioni: «Un gruppo di ragazzini decide di imitare i giovani che hanno visto ribellarsi dalla Tunisia all’Egitto. Ripetono lo slogan che hanno sentito in televisione: basta con il regime. Lo scrivono con lo spray rosso sui muri di cinta in quattro scuole. La frase viene subito coperta con la vernice bianca, la polizia cerca i colpevoli. Hanno tredici anni, il più giovane undici. In quindici vengono fermati e incarcerati. Quando li rilasciano raccontano di essere stati picchiati, girano voci che a qualcuno di loro siano state strappate le unghie delle mani».
Hanano ha voluto leggere proprio davanti alla Casa Bianca i 100 mila nomi di chi è morto da allora per protestare contro il non-intervento scelto dal presidente Barack Obama e dal resto dell’Occidente, la volontà di starne fuori anche nei primi mesi, quando la rivolta ancora non era armata, quando il Paese non era frammentato.
Gli abitanti del villaggio di Kafranbel ogni venerdì di questi ultimi tre anni hanno mostrato al mondo i loro cartelli satirici. Per denunciare le atrocità del regime, per criticare le decisioni degli americani e degli europei, negli ultimi mesi per accusare i gruppi legati ad Al Qaeda di aver sequestrato la loro rivoluzione. Settimana scorsa lo striscione sorretto da decine di mani recitava: «Fratelli ucraini, tenete duro, contate su di voi, non sperate mai nella comunità internazionale».