Mattia Feltri, La Stampa 15/3/2014, 15 marzo 2014
L’ULTIMA TROVATA DI ROTONDI
Il governo ombra guidato dal premier Gianfranco Rotondi si riunirà per la prima volta la settimana prossima «a casa mia». Dove per «mia» si intende di Rotondi medesimo. «Non l’ho ancora detto ai ministri», spiega. Ha deciso di seguire il suggerimento sarcastico di Giovanni Toti il quale ha ipotizzato che il governo di Rotondi si riunirà a casa Rotondi, «e perché dargli una delusione?». Sedici ministri, nove uomini e sette donne, il governo ombra - cioè il governo d’opposizione che, almeno sin qui, in Inghilterra ha nobili tradizioni e in Italia ignobili imitazioni - nasce con «l’esigenza e la soavità democristiana di riscattare il ventennio berlusconiano». Il programma ambiziosetto è di superare i contrasti ventennali con la sinistra e con la magistratura, indicare a Silvio Berlusconi che «il fascino stantio della società civile» annacqua davanti ai politici di professione («a noi i Marchini e i Toti non piacciono»), e incalzare e supportare Renzi «anche se lui è la serie A e io la serie C», dice Rotondi sospirando.
Perché in effetti il suo governo sembra non volerlo nessuno. Anche il capogruppo al Senato, Paolo Romani, ha ammesso che «noi non ne sapevamo nulla». Un ministro se ne è già andato, ed è il sindaco di Salerno, Vincenzo De Luca: è del Pd e doveva essere il simbolo di una nuova e florida epoca di dialogo. Un’epoca, accidenti, già tramontata. Ma non è così, dice Rotondi: «Eravamo d’accordo che io lo avrei designato e che lui avrebbe rifiutato». Accordo abbastanza bizzarro, ma Rotondi si consola alla constatazione che «se avessi vinto le elezioni sarebbe rimasto». Sul piano della logica, si noterà, il governo ombra nasce un po’ sbilenco, ma il premier ombra non ha timori. In fondo c’è pur sempre il sottosegretario Giampiero Catone, uno che andava in giro dicendo di aver lavorato per Romano Prodi, sinché dallo staff prodiano risposero: «Non sappiamo nemmeno di che cosa si parla». E poi, continua Rotondi, «abbiamo obiettivi più interni che esterni»: far vedere al capo di che pasta sono fatti. «Il nostro fuoriclasse è Antonio Martino: io che non voglio tradire la rivoluzione liberale l’ho messo all’Economia». Conoscendolo, Martino si vorrà sparare. «Macché, è entusiasta. Lo sono tutti, e sono tutti migliori di me. Io sono mediocre, ma mi ero proposto per le primarie del centrodestra lo scorso settembre e dunque, in quanto unico candidato premier, mi sono sacrificato». Ci sarebbe da capire se Berlusconi lo sapesse. «Naturalmente sì». E dunque era d’accordo. «No». No? «Mi ha guardato con affetto sincero, come si guarda un caro amico le cui condizioni si sono aggravate».
Insomma, i presupposti non paiono solidissimi. Eppure Rotondi ha progetti fitti. Vertici settimanali, e poi il «giro delle cento città». Si comincia il 22 a Napoli, poi Palermo e via, altre novantotto. Alla perplessità forse un po’ troppo sguaiata del cronista, Rotondi risponde cortesemente che no, le città saranno cento e col grosso della truppa ministeriale al seguito. Una cosa organizzata sul modello dei meetup di Beppe Grillo (in tutta Forza Italia, Rotondi è l’unico estimatore esplicito del grillismo). Purtroppo il nostro presidente del consiglio ombra non vuole rivelare dettagli sul rivoluzionario programma che animerà il gabinetto, ma dice di fidarsi dei suoi «campioni», Daniela Santanché alla Difesa («la Difesa va sempre a persone di destra, e poi lei è così grintosa»), l’ex senatore Nicolò Sella allo Sviluppo economico («caspita, è discendente collaterale di Quintino!»), Micaela Biancofiore alle Riforme, sebbene sia stata l’unica del partito a votare contro la legge elettorale. Alla fine esaudisce le insistenti preghiere: «Vogliamo dividere l’Italia in sei maxi regioni, i dettagli chiedeteli al ministro competente, Giancarlo Galan». Ecco, è così che Rotondi indicherà a Berlusconi la strada da seguire. Del resto, dice, «il mio talento è un prodotto per semplici amatori». E tuttavia, per il dopo Renzi, «sono abbastanza rassegnato al governo Rotondi».