Alessandro Lacché, l’Unità 14/3/2014, 14 marzo 2014
L’ODISSEA STALINIANA DEGLI ITALIANI DI CRIMEA
Anatolij Cernjavskij apre la porta di casa. È un uomo sulla settantina, capelli bianchi radi, lineamenti dolci. Lo abbiamo incontrato davanti la scuola dove lavora da sempre come insegnante di matematica. «Dopo 30 anni di lavoro, il sistema mi ha fornito questa casa» dice mentre ci invita ad entrare. Sorride. La casa è piccola ma dignitosa: uno stretto corridoio dove, come spesso da queste parti, bisogna scambiare le scarpe con un paio di ciabatte, apre ad un ampio salone arredato con arazzi appesi al muro e con i quadri che lo stesso Anatolij dipinge durante i «momenti di annoiato». Sulla credenza una piccola foto di Yulia Timoshenko, sul tavolo un’antica copia di una bibbia in russo. Anatolij siede su un divano imbottito e comincia a raccontare la sua storia. È uno dei sopravvissuti alla deportazione ordinata da Stalin a danno di alcune minoranze presenti sul territorio dell’Unione Sovietica. Un monumento nella città portuale di Kerch, in Crimea, ne commemora le disgrazie: tartari, armeni, azeri. Nessun riferimento agli italiani.
La presenza di esponenti della popolazione italiana comincia ad affermarsi in Crimea soprattutto in relazione a due eventi importanti: il grande esodo che interessò il nostro paese a metà del XIX secolo e la guerra di Crimea, combattuta dal Regno di Sardegna insieme con Francia, Regno Unito e Impero Ottomano contro la Russia zarista per evitare che questa ottenesse il controllo dello stresso del Bosforo e Dardanelli, e dunque l’accesso ai «mari caldi». Si conta che la presenza di italiani in Crimea arrivasse al 3% del totale verso la fine del 1800. In maggioranza provenienti dalle regioni del Sud, soprattutto la Puglia, gli italiani erano ben inseriti all’interno della società, occupando posizioni di tutto rispetto per lo più collegate al commercio.
La situazione muta sensibilmente con la rivoluzione d’ottobre e la presa di potere da parte dei bolscevichi. Inizialmente vengono espropriate le terre per creare un colcos, una fattoria collettiva. È in Crimea l’unico colcos «italiano», chiamato Sacco e Vanzetti. Questo spinge molti a fare ritorno in patria, facendo scendere la presenza a 1,5% del totale. I fatti prendono una brusca accelerazione durante la seconda guerra mondiale. Il professor Cernjavskij ricorda bene il 29 gennaio 1942, perché quello era il giorno in cui compiva gli anni.
SUL TRENO
«Sono venuti a prenderci di mattina presto, ci hanno dato due ore di tempo per prendere un minimo di cose. Il resto avremmo dovuto abbandonarlo per sempre». «Ci hanno ammassati sul pontile e ci hanno imbarcato verso la Russia. Quello era solo l’inizio». Non nasconde l’emozione di richiamare quei momenti, Anatolij Cernjavskij si incupisce. «Ci hanno forzato dentro treni merci insieme agli animali. La gente moriva di continuo, ad ogni stazione qualche corpo era lanciato fuori dal treno».
Il viaggio sarebbe durato due mesi interi, attraverso il territorio russo fino a Volgograd, e poi dritto fino alle gelide steppe del Kazakistan. «Non avevamo un posto dove andare, niente da mangiare. I vestiti erano leggeri per quell’inverno. Abbiamo chiesto un po’ di legna da ardere ma ce l’hanno negata: eravamo emarginati e trattati come bestie». «Un giorno racconta morì un cavallo, stremato dagli sforzi. Mi ricordo solo che la gente gli si è avventata sopra per dilaniarne la carne. Mia madre è riuscita a prendere un pezzo di zampa e con quella ha fatto un brodo. Così abbiamo potuto sopravvivere ancora».
Anatolij prende un respiro, poi si blocca. È la parte della storia in cui il padre muore, fucilato. Difficile immaginare che cosa possa aver provato un ragazzino di fronte ad una simile atrocità. Come lui molti altri, che abbiamo incontrato in seguito: Giovannella Fabiano, Clara Giacchetti Korciaghina, Inna Di Pinto, le signore Dell’Olio, Giulia Giacchetti Boico, presidente dell’associazione Cerkio italiani di Crimea. Tutti deportati o discendenti di italiani che hanno subito sulla propria pelle l’orrore della deportazione. Le loro storie si intrecciano in un turbine di lacrime e sangue, tra chi è stato deportato in Siberia o in Kazakistan, chi ha visto i genitori giustiziati e chi la propria famiglia decimata dal freddo e dagli stenti. Un dolore esagerato.
«Siamo sopravvissuti per molti anni in quelle condizioni», riprende Anatolij. «Poi Stalin è morto e ci hanno permesso di andare via». Con la morte di Stalin, il 3 marzo 1953, prende avvio un processo che culminerà nella destalinizzazione, ovvero un ripensamento dell’atteggiamento oltranzista del vecchio dittatore da parte della nuova guardia, il triumvirato Kruscev, Malenkov, Berisha. Da qui il riconoscimento degli sbagli fatti, e il monumento in memoria dei popoli deportati. Ma gli italiani non figurano. Chiedo come mai ad Anatolij e lui risponde secco: «I sopravvissuti erano traumatizzati, avevano molta paura che denunciando la propria situazione e la propria provenienza le persecuzioni sarebbero continuate». «Tornato in Crimea, a Kerch, la mia famiglia è riuscita con un sotterfugio a cambiare i documenti da italiani a russi. Solo allora abbiamo potuto vivere dignitosamente, ma questo è anche il motivo per cui oggi il governo italiano non ci riconosce la cittadinanza». Mentre lasciamo Anatolij, ci arrivano le sue ultime parole: «Sono nato Natale Demartino, il destino mi ha fatto diventare Anatolij Cemjavskij».