Carlo Lodolini; Marta Serafini, Sette 14/3/2014, 14 marzo 2014
UNA GUERRIGLIA COMBATTUTA CON I NEW MEDIA
UNA GUERRIGLIA COMBATTUTA CON I NEW MEDIA–
«Scusa non ti posso rispondere adesso. Stanno lanciando i lacrimogeni e devo andarmene, ci sentiamo dopo». Sono le 00.45 ora italiana quando arriva questo messaggio su WhatsApp. Mentre il mondo disquisisce dell’idea di Zuckerberg di comprare un’applicazione di messaggistica per 19 miliardi di dollari, Rodolfo, che ha 25 anni e fa il giornalista per un portale indipendente di news a Caracas, proprio grazie a quel software scrive sul suo smartphone. Intorno a lui ci sono i materassi in fiamme, la Guardia Nacional di Maduro pesta a sangue gli studenti e li lascia lì agonizzanti per terra. È infatti più di un mese che il Venezuela è attraversato da proteste e rivolte contro le mancate riforme del successore di Chávez, accusato di non aver saputo combattere la criminalità e di non aver fermato l’inflazione. Prima sono scesi in piazza i giovani nello Stato di Tachira. Poi le manifestazioni si sono estese a tutto il Paese e sono arrivati gli oppositori. I fascisti, come li chiamano i governativi che affermano di difendere il popolo dall’assalto imperialista.
Dopo qualche ora Rodolfo si riconnette, gli scontri danno tregua. «Qua è un incubo. Lanciano i lacrimogeni dentro le case», racconta. Le sue parole illuminano lo schermo del telefono. E rimangono lì, quasi a galleggiare nell’etere. Intanto su Twitter Alfredo Romero, avvocato e attivista per i diritti umani, nonché direttore della Ong Foro Penal Venezolano, denuncia come ci siano stati 500 arresti, molte denunce di maltrattamenti, quattro casi accertati di tortura e uno di stupro. Passano tre giorni. Le manifestazioni non si fermano. Rodolfo continua a scrivere. «Ma ti prego non citare il mio cognome, ho paura che mi ammazzino o che facciano del male a mia moglie». Scendono in strada anche le “damas en blanco” capitanate dalla moglie di Leopoldo Lopez, Lilian Tintori. Il suo volto, giovane, sorridente, i capelli biondi al sole e con il pugno chiuso che le fa ombra, ha già fatto il giro del mondo. «I coniugi Lopez sono al soldo degli americani», sibilano i fedelissimi di Maduro. «Sono la speranza per il nostro Paese», dice, «la classe media che non ce la fa più». Secondo Silvia Auña, 64 anni, «il problema più grande che abbiamo è che non possiamo uscire di casa. Qui sono capaci di ucciderti per un telefonino», spiega via mail. Poi aggiunge: «Io non sono più giovane come prima ma voglio darmi da fare per cambiare le cose. Ho aderito a un movimento di donne, ci incontriamo e organizziamo le riunioni su WhatsApp. L’altro giorno ci siamo attivate per recuperare dei materiali per fare delle barricate e delle protezioni di gomma piuma».
Così mentre Silvia taglia la gomma per proteggersi dai manganelli, gli analisti di Washington rispolverano le loro analisi sul peso geopolitico delle risorse petrolifere venezuelane (l’Opec stima che il potenziale sia di 296,5 miliardi di barili). Sempre dagli Stati Uniti, su Twitter rimbalzano gli hashtag #prayforVenezuela, #SosVenezuela, #ResistenciaVzla e #LasCallesSonDelPueblo. Anche i vip come Madonna e Ricky Martin si mobilitano e si schierano coi manifestanti. Perfino i red carpet diventano una buona occasione per promuovere la propria causa. In piena notte degli Oscar, mentre Sorrentino ritirava la sua statuetta e Ellen DeGeneres faceva impazzire il social network di Jack Dorsey con l’autoscatto degli attori, su Instagram sono girati i fotomontaggi degli Oscar con la maschera antigas e i colori della bandiera venezuelana. Roba da propaganda? Forse. Ma anche per chi non fa politica far sentire la propria voce dal Venezuela in queste ore sta diventando sempre più pericoloso. Meglio allora sfruttare ogni palcoscenico. Se poi è quello del nemico imperialista di Maduro che censura la cerimonia di Hollywood, ancora meglio.
Non va meglio alla stampa tradizionale. Molti reporter stranieri sono stati espulsi o arrestati (è successo anche alla fotografa italiana Francesca Commissari). Le informazioni faticano ad arrivare attraverso i canali ufficiali e le agenzie fotografiche come Reuters e Ap riescono a inviare poche immagini al giorno. Segno che, evidentemente, le denunce degli oppositori non sono tutte invenzioni. Così, chi dissente si organizza, apre profili, chatta su Skype, usa Facebook anche navigando in modo protetto. Tanto know-how tecnologico non stupisce per un continente che ha 75 milioni iscritti ai social network e per un Paese che è il quinto mercato Twitter con il 21 per cento di penetrazione. All’occorrenza si impara ad aggirare la censura e a navigare in modalità protetta. «I governativi stanno cercando di bloccare anche Twitter», denunciano quasi tutte le persone che abbiamo contattato. Ma l’account di Noticias sin censura non si ferma e lancia rete migliaia di foto e video al giorno. Anche gli Anonymous scendono in campo. Gli hacktivist venezuelani chiamano a raccolta i loro compagni in tutto il mondo. La chat #Iberoamerica si fa caldissima. «In pochi giorni abbiamo tirato giù centinaia di siti governativi, ormai ho perso il conto», racconta Iggy in uno dei canali Irc, le chat anonime. È il loro modo di protestare contro la censura e la repressione. In qualunque parte del mondo sia. «Io non mi trovo in Venezuela in questo momento ma sto dando una mano, insegno ai manifestanti come navigare in Vpn, in modalità protetta», spiega. Anche in Italia gli hacker si mobilitano. «Ma l’operazione di sostegno alle manifestazioni sono state contestate. Qui sono tutti convinti che Maduro sia di sinistra e dunque buono e che i dissidenti siano tutti fascisti», racconta un esponente italiano del movimento di Guy Fawkes. La percezione insomma non è sempre lineare sia che i mezzi di informazione siano mainstream, sia che ci si rivolga ai circuiti indipendenti.
Dal quartiere generale di San Francisco analizzano il flusso di cinguettii delle rivolte in Ucraina. In quelle stesse ore dall’altra parte del mondo sta cadendo il regime di Yanukovich. «Possiamo avere i numeri sul Venezuela?», chiediamo. Niente, il mondo sta andando a fuoco tutto insieme. Per quei dati ci vuole tempo, anche qualche mese. Ma chi sta in mezzo al caos non ha tempo di aspettare. Nacho Espinola, giovane videomaker spagnolo che vive a Maracaibo, realizza un filmato. Con l’aiuto di un amico programmatore e con il computer del suo ufficio monta pochi minuti di immagini, la musica è coinvolgente, all’inizio del video i manifestanti sono di spalle poi si girano e mostrano il loro volto. In poche ore la clip diventa virale su Youtube e Vimeo. «L’ho fatto perché qui in tre mesi la situazione è precipitata», scrive in chat su Facebook. Nacho ha molti amici: «Io ho 28 anni sono un art director, non mi interessa la politica», racconta Renée Velásquez. «Abbiamo gli smartphone ma ci manca la carta igienica. A cosa ci serve la libertà se poi non abbiamo un tenore di vita decente?».
Un Paese o una prigione? Tra i giovani venezuelani c’è anche chi, come Enrique ha studiato in Italia e poi ha trovato lavoro all’estero. E ora si preoccupa per i familiari che sono rimasti a casa. «In genere parlo con mio fratello su Zello (un’altra applicazione di messaggistica molto usata in Venezuela, ndr). Per qualche giorno però non sono riuscito a contattarlo. Solo dopo mi ha spiegato che il governo aveva bloccato anche quella e che i programmatori del software hanno lanciato un aggiornamento per imbrogliare la censura e permettere agli utenti di continuare a dialogare», dice.
Nel mirino del governo ci sono finiti anche i media tradizionali, la programmazione del canale colombiano allnews Ntn24 è stata fatta sparire dal palinsesto. Ma per aggirare il blocco si usa Youtube o Fb. A volte funziona, a volte no. Anche i meno giovani si sono attivati. Alle 14 ora locale (in Italia sono le sette di sera) Carlos Aguirre, pensionato si collega a Skype. Carlos era dentro il comitato di controllo elettorale. Lo hanno licenziato. Mentre racconta cosa sta succedendo in strada sotto casa sua, ha le lacrime agli occhi: «Io sono un genitore, i miei figli sono andati a lavorare all’estero. Ma vorrei che potessero tornare a casa un giorno con i nipoti. E invece no, questo Paese è una prigione che non fa entrare più nessuno», si sfoga. Il lavoro, già. È sempre quello il problema, sebbene il tasso di disoccupazione si sia abbassato negli ultimi due anni. Héctor Alonso è un grafico freelance. Si sfoga via mail: «Con tutto il rispetto per i giornalisti, il problema non è che ci censurino Twitter. Il problema è che non c’è lavoro e che tutte le grosse multinazionali che ci davano da mangiare sono scappate perché la situazione è troppo instabile».
Servizi in rete. E mentre le madri del Venezuela seppelliscono gli studenti uccisi e si lanciano contro la polizia gridando «lasciate stare i nostri figli, sono anche vostri», pure gli uomini di Maduro si attrezzano per dire la loro su Twitter. Le foto delle manifestazioni pro-governo sono ritoccate in modo da far sembrare più grande la folla. Si ricorda al popolo che Leopoldo Lopez, incarcerato con l’accusa di terrorismo, ha studiato ad Harvard e dunque è venduto all’imperialismo. In rete vengono postate le foto di Lopez con i figli e la moglie, tutti felici la mattina di Natale, per dimostrare che sono ricchi mentre il governo lotta per i poveri. E non solo. Il sito Kaos en la Red (che appartiene a un’associazione culturale anti-capitalista) raccoglie esempi di immagini diventate virali tra gli oppositori, ma risalgono in realtà ad altri contesti. Sull’altro fronte, intanto, per gli oppositori la foto simbolo delle proteste diventa l’immagine di una poliziotta che massacra il volto di una manifestante con un casco e se ne vanta online. Ma basta poco e quell’icona, terribile, viene rielaborata graficamente e trasformata nella bandiera degli oppressi. Non importa più se sia vera o meno.
Risultato, come sottolineano sia The Atlantic sia il giornalista esperto di rete Matthew Ingram, quello che si dice online diventa ancora più importante della realtà stessa, soprattutto in contesti dove aumenta la tensione sociale come il Venezuela o l’Ucraina. I social network rappresentano, in alcuni casi, anche una garanzia e una tutela: «Sono stanca di avere paura, abbiamo messo le nostre radiografie su Facebook per far vedere che i poliziotti ci stanno spaccando le ossa, voglio vedere adesso cosa possono farci», denuncia la madre di un ragazzo arrestato dalla polizia.
Secondo chi studia la rete, come Nathan Kallus del Mit di Boston, il flusso di cinguettii e di post può essere utile anche per predire l’andamento delle rivolte. Kallus, a partire dagli ultimi riots al Cairo, ha elaborato un modello di sentiment analysis. Gli chiediamo se può prevedere quello che capiterà a Caracas: «Al di là delle previsioni che mostrano un coinvolgimento sempre maggiore e lasciano pensare a un inasprirsi delle proteste, è interessante notare come i manifestanti venezuelani cambino linguaggio. Per esempio, non usano più la parola manifestazione ma incontro e questo stratagemma permette di evitare la censura. Ma rende più difficile analizzare il flusso con gli algoritmi», sottolinea. La rete, insomma, è al servizio di tutti. Manifestanti, oppositori, governativi e analisti. Ma c’è un altro dato interessante: «Quello che sta accadendo in Venezuela ricorda quanto successo a Cuba», spiega ancora Kallus. Dargli ragione è molto facile, soprattutto se si pensa che Castro ha inviato i suoi agenti a Caracas per dare man forte a Maduro e si è palesato a Caracas per l’anniversario della morte di Chávez. Ma tra i due Paesi c’è un enorme fondamentale differenza. A Cuba ha accesso alla rete il 25 per cento della popolazione, in Venezuela il 44. Un dato di fatto, che non ha a che fare solo con i selfie e con i meme. Ma anche con l’obbligo per i governi di rispettare i diritti umani.
@carlolodolini e @martaserafini