Rocco Cotroneo, Sette 14/3/2014, 14 marzo 2014
LA FILA INFINITA PER IL PANE, I RAID DELLE SQUADRACCE, LE PIETRE SCAGLIATE IN PIAZZA: COSÌ NEL VENEZUELA SCOSSO DAL DISASTRO ECONOMICO LA RIVOLTA SCOPPIA OGNI SERA AL TRAMONTO
Dopo un’ora di fila sotto il sole, e disposta a farne altre due purché arrivi il suo turno, la signora Maria Dolores Rojas ha detto basta e mandato tutti al diavolo. «Non sono una mucca, né in un campo di concentramento», risponde all’addetto del supermercato Premium quando le chiede di scoprire l’avambraccio. Pennarello nero in mano, l’uomo che gestisce la coda lunga un paio di isolati ha avuto un’idea infelice. Marchiare i clienti, per evitare liti: una riga e un numero per il latte in polvere, lo stesso per lo zucchero e poi per la farina di mais. «No, non siamo al macello!». Ora la donna, sui 60 anni, minuta, esausta, deve riuscire a tornare a casa incolume. Superando barricate di immondizia, cercando di non cadere negli scoli dell’acqua piovana lasciati senza grate come trincee, proteggendo il volto dal fumo dei lacrimogeni. Con la borsa della spesa vuota.
San Cristobal del Tachira, Venezuela, epicentro della rivolta contro il disastro economico del chavismo, il “socialismo del XXI secolo”. È una città ai piedi delle Ande, 30 chilometri dalla frontiera con la Colombia. Qui ai primi di marzo è cominciato tutto, e i gochos – come si chiamano gli abitanti del posto – si dicono disposti a resistere fino alla fine. Finché quelli là, i “servi di Cuba”, non se ne andranno a casa. Da quindici anni gli oppositori di Hugo Chávez, e ora del suo successore Nicolas Maduro, non ci riescono in alcun modo. Con le buone e con le cattive. Nelle urne, dove hanno sempre perso; attraverso un colpo di Stato (2002) durato appena due giorni; fermando l’industria petrolifera, scioperando, riempiendo le piazze di gente. È una storia che si ripete, con alti e bassi di tensione. Entrambi gli schieramenti, e i loro argomenti, hanno schiere di fan in ogni angolo del mondo. C’è una differenza, adesso, che può cambiare lo scenario: senza il suo leader, il chavismo sta facendo tutto il possibile per suicidarsi. E prima o poi potrebbe riuscirci.
I guai del sabato mattina di Maria Dolores sono gli stessi del Paese intero: economia a pezzi e violenza fuori controllo. L’argomento ufficiale per cui tutto è un complotto borghese-fascista-imperialista è debole. Nessuno shock esterno, guerra o carestia hanno fatto sì che a San Cristobal, come in gran parte del Venezuela, manchino latte, olio, farina e carta igienica, mentre lo stesso supermercato vende cinque marche diverse di whisky invecchiato 12 anni; o che il Paese conti 25.000 morti ammazzati all’anno, con una percentuale risibile di casi risolti dalla giustizia. La scomparsa di Chávez, un anno fa, ha soltanto accelerato la corsa verso l’implosione di un sistema che ha fatto sì sognare milioni di diseredati – e restituito loro un forte spirito di appartenenza e dignità – ma che permette una gamma infinita di illegalità, e considera i fondamenti dell’economia come una seccatura sulla strada del socialismo. Dove la presunta giustizia sociale attraverso il controllo dei prezzi ha bloccato la produzione, svuotato gli scaffali, portato l’inflazione alle stelle e disintegrato il valore della moneta.
Rafael Rodriguez, imprenditore senza lavoro di 40 anni, è appoggiato sull’uscio di un bar della città alta. Tra un po’ la strada si svuoterà, perché inizieranno gli scontri tra manifestanti e polizia, come ogni giorno al tramonto. A San Cristobal si contano centinaia di barricate improvvisate, polizia ed esercito non sono in grado di controllare tutti i gruppi che le mettono in piedi per paralizzare la città. Ogni tanto c’è un attacco con i lacrimogeni, o una banda di motociclisti favorevoli al governo minaccia i rivoltosi con le armi. Volano pietre e molotov. E il giorno dopo si ricomincia.
Traffici e contrabbando con la Colombia. «Perché il Tachira? Perché qui incompetenza e illegalità sono andate a nozze. È una regione di frontiera, dove molta gente vive di contrabbando con la Colombia», spiega Rodriguez. I suoi racconti sono da realismo magico, appunto. La benzina in Venezuela è praticamente gratis, con mezzo euro si fa il pieno, ed è ovvio che buona parte finisce oltre confine, dove i prezzi sono nella norma. «Guadagni anche il 1000 per cento, la cocaina in confronto è un affare da dilettanti». Da quando il governo ha deciso di imporre prezzi artificialmente bassi anche ad alimenti di base, dalla farina alla carne, ecco un altro grande business da esportazione. «Non solo i rifornimenti scarseggiano, perché nessun produttore è così scemo da perdere soldi vendendo sotto costo, ma molta roba viene accaparrata e finisce in Colombia. Il latte “socialista”, quando arriva, costa 60 bolivares al litro, ma di là te lo comprano a 400. Lo stesso avviene con lo zucchero, l’olio, la farina».
Non c’è bisogno di spalloni, né occorre varcare le Ande a piedi. In fila alla frontiera, a disposizione delle auto colme di prodotti da contrabbandare, c’è uno schema di corruzione semplice e geniale. Allunghi una banconota a un ragazzino ambulante in cambio di una parola d’ordine, che serve a far chiudere un occhio al controllo doganale. Come nelle chiavette per le transazioni online, la password cambia ogni dieci minuti. Così il doganiere continua a fatturare. Ma si fanno anche le cose in grande. Qualche settimana fa su una curva in Colombia si è rovesciato un camion pieno di cibo, era tutto di provenienza Pdval, il grande progetto di Hugo Chávez per sfamare i poveri: la compagnia petrolifera che controlla le più grandi riserve della Terra si incarica da qualche anno di distribuire “cibo a prezzo giusto”. Peccato che quasi nessuno più lo produca in Venezuela e debba essere importato, dal Brasile o dalla Colombia, dove poi torna con le truffe di cui sopra. Insieme alla benzina gratis (un tabù storico, nonostante gli stessi uomini al governo ammettono la follia) e ai progetti sociali, l’acquisto di cibo all’estero è una delle voci che condannano il governo venezuelano a spendere l’intera rendita petrolifera, e a dover in più stampare un mucchio di soldi per far quadrare i conti. Motivo per cui l’inflazione viaggia oltre il 50 per cento all’anno. La corsa ai dollari ha fatto esplodere il mercato nero. Il cambio parallelo è dieci volte superiore a quello legale. E mentre lo stipendio in bolivares non riesce a far campare una famiglia, noi stranieri siamo obbligati a vergognarci di pagare una discreta cena appena un paio di euro. Come in Italia si tiene d’occhio lo spread, in Venezuela l’incubo è un indice che segnala i prodotti che mancano. In questi giorni si aggira attorno a 28, il che significa oltre uno su quattro. L’indice è diffuso dalla banca centrale, controllata dal governo, quindi gli scaffali vuoti non possono essere considerati un complotto dell’informazione controrivoluzionaria.
Sotto un tendone di plastica, seduta su un materasso, Rosa è una studentessa di diritto esausta per le notti passate di guardia al presidio, ma assai orgogliosa. Siamo nei pressi dell’Obelisco de los Italianos, che celebra i nostri emigrati arrivati nel Tachira, negli anni Cinquanta. La rivolta venezuelana è cominciata dove lei studia, qui a San Cristobal, il 4 febbraio. La notizia che una sua compagna aveva subito un tentativo di stupro dentro l’università ha scatenato la prima manifestazione. Poi la protesta dei ragazzi si è allargata ad altre città, e il giorno 12 febbraio killer simpatizzanti del governo hanno ucciso tre persone a Caracas. Da allora la rivolta non si è più fermata e alcuni leader dell’opposizione hanno deciso di cavalcarla, supponendo che la spallata al governo fosse ormai matura. Uno di loro, Leopoldo Lopez, idolo della classe alta della capitale, è stato arrestato per incitazione alla violenza. Mai il regime aveva colpito così in alto. Rosa ammette che tutto ciò era difficile da immaginare, quando i ragazzi di San Cristobal scesero in strada per difendere la propria compagna. «Ma a guardare il livello di rabbia e di indignazione che si è scatenato, oggi mi sembra tutto così ovvio. Chi ancora non è con noi, è perché non sa. Tutti i media sono in mano al governo, noi studenti usiamo i social network, ma gli altri?».
In effetti la tv mostra un altro Paese, allegro e in pace come sempre. Amante delle spiagge e del reggaeton, popolato dalle donne più belle del mondo. A fine febbraio il governo ha allungato il ponte del Carnevale fino a sei giorni e invitato tutti ad andare al mare. Sugli schermi e nei giornali amici, per giorni, sono apparse lunghe code di auto per le spiagge e balli in maschera. La stampa indipendente è alle corde: la carta è tutta importata, ed è un organo del governo che decide a chi assegnare i dollari per acquistarla. E così El Nacional, vicino all’opposizione, grande quotidiano della capitale, è ridotto a un foglio di una decina di pagine. Come il cubano Granma.
I due lati delle barricate. Ma la cappa informativa, seppur opprimente, non spiega tutto. Il chavismo ha ancora un forte appoggio, i programmi sociali funzionano e la rivolta non è ancora penetrata nelle favelas delle grandi città, né nelle zone rurali, cioè nei bastioni rossi. Mentre la violenza si sta avvitando su se stessa. Una marcia pacifica affiancata da paramilitari può sfociare in un saccheggio ai negozi, e le due parti si accusano a vicenda di essere responsabili. Gli irriducibili delle barricate si trovano ad affrontare la polizia e i colectivos in moto (squadracce filochaviste), ma vengono anche attaccati dagli abitanti vicini che non ne possono più del trambusto. Come in ogni guerra che si rispetti, ciascun episodio ha almeno due versioni. La gente alza barricate perché non c’è cibo, e i camion che portano cibo non riescono a arrivare a destinazione. Di chi è la colpa? I negozi non aprono per paura delle violenze, non circolano gli autobus, sono chiuse le scuole. E la gente è sempre più inferocita. Nemesi da libri di storia, da queste parti. La scorsa settimana il governo ha celebrato i 25 anni del famoso Caracazo, la rivolta popolare contro il governo liberista di Carlos Andres Perez nel 1989. La repressione fece centinaia di morti, dopo giorni di anarchia totale nella capitale. Per Chávez quell’episodio fu la prima scintilla della sua rivoluzione, come quella del 1905 in Russia lo divenne per Lenin. Ma l’ombra del Caracazo si sta pericolosamente allungando su questo 2014 venezuelano. A parti invertite. Tutto può finire nel caos, altro che passione politica.
Caracas, quartiere di Palo Verde. Un sacerdote di 40 anni, padre Enrique Alaña, è parroco in una zona di frontiera. A poche centinaia di metri di distanza ci sono palazzine di classe media, su una collina, e la più grande favela di Caracas, Petare. Ha passato una notte da incubo, qualche settimana fa. Come quasi ogni sera, gli abitanti della zona hanno montato le loro barricate, le guarimbas, il simbolo di questa rivolta. Guarimba è una parola che viene da un gioco per bambini di una volta, è il posto sicuro dove nessuno ti può catturare. Sacchi della spazzatura, macerie, vecchi elettrodomestici, pneumatici, tutto serve per bloccare le strade. A Palo Verde vivono impiegati, commercianti, insegnanti, casalinghe - non colonie di black blocs - e sono loro a montarle. Gli stessi che hanno fatto una coda di un’ora in farmacia per comprare alcol, o non trovano da settimane una medicina importante. «Verso sera è arrivata una colonna di moto, avevano tutti il casco nero, bastoni e armi», racconta il religioso. «Hanno saccheggiato gli abitanti che stavano rientrando a casa. Un gruppo si è rifugiato in canonica, e abbiamo dovuto aspettare ore prima che si convincessero a lasciarli andare. Dalle finestre, intanto, volava di tutto sui motociclisti, soprattutto bottiglie di vetro, e quelli rispondevano sparando. La polizia? L’abbiamo chiamata, ma hanno risposto che per loro era troppo pericoloso arrivare fin qui». Dunque chi è chi in questa storia? Ci sono buoni e cattivi, o sono tutti ugualmente pervasi dalla voglia di farsi giustizia con le proprie mani? Se la classe media monta le barricate, e i motoboy chavisti intervengono per farle togliere, rapinando nel frattempo, dov’è finita la politica? «Invece sì», ci interrompe padre Enrique, «la politica c’entra, eccome. Le squadre di motorizzati vengono lasciate agire e persino incentivate dalle autorità, se si tratta di aggredire coloro che protestano. Quelli che Chávez chiamava escualidos, gli squallidi. Il paradosso è che in questa tragedia economica il governo sa tenere a bada la propria base, gli abitanti della favela, i più poveri, e li incentiva a piegare al silenzio la classe media».
Padre Enrique prende l’auto e ci accompagna al super di quartiere, il Bicentenario, dove ci sono metri e metri di scaffali vuoti, e altri – alla sovietica – strapieni di un unico prodotto: uno shampoo, la Coca-Cola, i cornflakes, le lenticchie. «E quando arriva la carta igienica c’è la rissa». Il Bicentenario era una catena privata, nazionalizzata anni fa per farne i supermercati del popolo. Poi ci mostra una distribuzione di cibo a prezzi popolari a Petare, nella favela vicina. «Ecco come funziona. Tutti soffrono allo stesso modo, ma qui c’è l’intervento politico sulla propria base. Lo Stato assiste, regala, pensa a te. Qui nessuno si ribella perché pensa che con un altro governo non arriverebbero nemmeno i camion con il cibo. E da qui partono le squadracce con le moto per zittire gli squallidi». Nel discorso arrabbiato del presidente Nicolas Maduro in occasione del primo anno dalla morte di Chávez, l’azione dei colectivos è stata esaltata come necessaria. Abbiamo bisogno di loro per ristabilire l’ordine contro i terroristi, ha detto Maduro, ammettendo di fatto la violenza.
All’ennesima marcia di studenti a Caracas incontriamo il loro leader. È un ragazzone con la barba di 24 anni, si chiama Juan Requenses. Finisce una sessione di selfie con i manifestanti e si ferma a parlare. «Abbiamo bisogno di appoggio dall’estero», esordisce, senza aspettare domande. «È molto importante». Perché, gli chiediamo, dovrebbero essere gli studenti a spaccare questo muro tra le due società, l’odio reciproco che dura da 15 anni? «Noi abbiamo cominciato a protestare su temi nostri, specifici, e la società civile ci è venuta dietro. Qui si lotta per tutti i cittadini, non esiste il problema, come molti dicono, che i poveri non si stanno unendo a noi. Il malcontento c’è ovunque, io stesso vengo da un quartiere popolare e posso assicurarvi che la maggioranza non ne può più». Altri ragazzi fanno notare che lo schema di una guerra tra ricchi e poveri, tante volte evocata raccontando la frattura in Venezuela, non ha più fondamento. «Nelle università pubbliche l’accesso è gratuito, quelli che vedete qui in piazza sono ragazzi che rappresentano tutte le classi sociali», ribadisce una studentessa. Ma come finirà è difficile dire. Chávez ha resistito ad almeno tre ondate di rivolta simili a quella in corso. Per venirne fuori, più che la forza ha usato il suo acume politico. I suoi successori si trovano adesso a ereditare i pasticci della sua gestione, moltiplicati dal tempo che passa, senza le doti del “Comandante eterno”, che sorride sornione da tutti i muri di Caracas ma non può più fare nulla.
Rocco Cotroneo