Concetto Vecchio, la Repubblica 14/3/2014, 14 marzo 2014
UNA VITA DIFFICILE – [MACALUSO: “IO, COMUNISTA IN GALERA PER ADULTERIO”]
«A sedici anni mi ammalai di tubercolosi, mi diedero pochi mesi di vita, finii in sanatorio, a Caltanissetta era su in collina, un monte chiamato Babbaurra, là rimasi rinchiuso per molti mesi, non mi veniva a trovare nessuno, solo mio padre veniva, ma una mattina, sfidando il bacillo di Koch, mi trovai davanti Gino Giannone, il figlio del libraio della città. Era più grande di me, tante volte avevamo condiviso le nostre idee. Disse: ’Conosco i tuoi sentimenti. Se vuoi ti posso collegare al Partito comunista’. Tutto intorno a me sapeva di morte, ogni giorno usciva una bara, io invece mi salvai. Avevo 17 anni, era il 1941, e fu così che per me inizia un’altra storia: un destino diverso da come fin là me l’ero aspettato».
Vogliamo provare a fantasticare cosa sarebbe diventato Emanuele Macaluso senza la politica, senza la pedagogia del partito? Perito minerario? Impiegato di concetto? «Lei non può immaginare la povertà nella Sicilia di quegli anni, nessuno la immagina più». E invece la politica è stata la sua grande avventura, attraverso tutte le tempeste del Novecento: dirigente sindacale negli anni di Portella della Ginestra; amico di Vittorini e Sciascia; l’incontro a Roma con Togliatti («fu freddo e cortese») con cui compie un viaggio in Russia; l’amicizia con Berlinguer; il sodalizio con Napolitano sbocciato nel Dopoguerra a Palermo, dove il futuro Presidente della Repubblica faceva il militare; le battaglie per il Mezzogiorno, le cupezze del terrorismo, la direzione dell’Unità. È lui a fare quel titolo «TUTTI» il giorno dopo i funerali di Berlinguer. Chi è stato più importante, per la sinistra, e per il Paese: Berlinguer o Togliatti? Ci pensa. «Togliatti, senza dubbio».
Testaccio, interno piccolo borghese. «La casa è tutta qui», Macaluso indica il salone pieno di libri ai quattro operatori di Repubblica tv che sono venuti per registrare l’intervista sui suoi 90 anni: li compie venerdì 21 marzo e Napolitano lo festeggia al Senato. Sono le 9 e ha già letto i giornali. «Mi sveglio alle sei, faccio colazione, poi passeggio un’ora sul Lungotevere, passo dall’edicola a comprare i quotidiani, la notte mi addormento con un romanzo in mano: dormo sei ore. Non male, no?». Ai muri due quadri di Guttuso, «insieme girammo la Sicilia quando lo candidai per il Pci al Senato». Fuori Roma splende di luce.
C’è stato un momento, durante l’intervista, in cui il silenzio si è fatto più spesso, l’attenzione di tutti più acuta: ed è stato quando ha raccontato della sua storia d’amore con Lina, «donna sposata », una relazione clandestina che costò ad entrambi il carcere per adulterio nel 1944. «Io avevo 19 anni, lei 23, ci conoscemmo a una festa da ballo pomeridiano a Caltanissetta. Si era maritata a 14 anni con un uomo di 35 anni che lavorava in Comune, e avevano fatto due figli. Ci innamorammo perdutamente. Andammo avanti in segreto per un anno, poi, a Sicilia liberata, le dissi che dovevamo uscire dalla clandestinità: dalla doppia clandestinità che avevo fin lì vissuto, con lei e con il Partito comunista. Andammo ad abitare in un basso, nell’ostilità di tutti: dei miei, di sua madre, del partito. Una notte bussarono alla porta, era il maresciallo Vacirca, lo conoscevo perché il figlio era stato a scuola con me: ’Vi debbo arrestare’. Trascorremmo alcune settimane nel carcere Malaspina, il processo si fece rapidamente, fummo condannati a sei mesi di reclusione». Per adulterio? «Per adulterio». Dieci anni dopo uomini legati alla Dc lo denunciarono di nuovo, sostenendo in un esposto anonimo che i gemelli avuti da Lina, Pompeo e Antonio, non potevano essere figli loro, ma del marito di lei, perché così prevedeva la legge. Il magistrato lo avvertì: «Macaluso, lei rischia otto anni di carcere». Allora Amendola gli ordinò di sparire e mandò il grande avvocato Battaglia a risolvere il caso in Cassazione. Macaluso rimase chiuso per mesi in un casolare a Vignola, nel Modenese, in attesa della sentenza: per fortuna il verdetto fu favorevole. «Quella Dc era miserabile!» e si lascia andare nella poltrona.
Gli chiediamo la foto di Lina. Dice: «Non ce l’ho». E poi: «Non la trovo». Che generazione fatta col fil di ferro. A 17 anni comunista, a 19 sfida la morale comune per la donna di un altro, a 23 Di Vittorio lo promuove capo della Cgil siciliana. Perché si diventava uomini fatti così presto allora? «Io frequentavo solo adulti, gente più grande di me. C’era stata la guerra - le guerre - e c’era stato il fascismo: non si poteva parlare, questo portava a riflettere, a indagarsi ». Macaluso voleva fare il ginnasio, ma nell’Italia classista il ginnasio era roba per ricchi, allora fece l’Istituto minerario, dove si non pagavano le tasse di iscrizione, «una scuola che non amavo, mi piaceva la letteratura, un’estate lessi tutto Jack London ». E allora il racconto devia su Michele Calà, il compagno di partito che allo sbarco degli americani corre per mettere in salvo la biblioteca della loro cellula, piena di testi proibiti, e viene ferito ad una gamba da una scheggia. «Lo andai a trovare, l’avevano portato in un ospedale di fortuna, pochi giorni dopo morì». E qui Macaluso si commuove. «Pensi, è morto per salvare quei libri, per un pugno di libri!». Interrompiamo la registrazione. Per alleggerire la tensione lo interroghiamo sul saggio che ha appena scritto su Togliatti per Feltrinelli. «È andato benissimo, è alla seconda edizione, lo sto presentando ovunque».
Ora la malinconia si è un po’ attenuata. Ha mai temuto per la sua vita? «Qualche volta. Con Li Causi andammo a Villalba a sfidare il boss, ci spararono addosso, il processo naturalmente fu una farsa». Riprendiamo a parlare di Berlinguer. «Per quattro anni dividemmo la stessa stanza, aveva silenzi lunghissimi, ma quelli così hanno dentro una grande tenacia, Sciascia era uguale. Enrico confidò solo a me e alla sua famiglia il sospetto di essere stato vittima di un attentato in Bulgaria nel 1973. ’Non parlarne con nessuno’, mi disse. E io mantenni questo segreto fino al 1991».
Un pomeriggio squilla il telefono. «Sono Macaluso. Sono appena tornato da Messina, mi hanno dedicato un convegno all’Università. E poi avrei trovato la foto di Lina, venga domattina». Ed eccola Lina: slanciata, con un vestitino quasi corto in un pomeriggio di afa di settant’anni fa. «Era molto bella», davvero molto bella. Silenzio. «Ma io ho sempre avuto donne belle». E per la prima volta un lampo di malizia percorre lo sguardo del severo dirigente comunista che fu.