Concita De Gregorio, la Repubblica 14/3/2014, 14 marzo 2014
MAMME MEDEA – [DONNE CHE UCCIDONO I FIGLI]
Quello che davvero fa cambiare canale o voltare pagina non è il racconto di come una donna abbia ucciso i suoi figli. Ai dettagli degli omicidi ci si è lentamente assuefatti, un doping omeopatico che li ha resi agli occhi di molti persino attraenti. Lo testimoniano, purtroppo implacabili, i numeri: migliaia e migliaia di visualizzazioni online, milioni di persone all’ascolto dei programmi che ricostruiscono il delitto. Share da record. Plastici della casetta di Cogne e dirette da Avetrana. La retina collettiva degli spettatori del mondo intero, del resto, è abituata dal cinema e dalla diretta della realtà a montagne di cadaveri e ad esecuzioni individuali con pubblico esultante, a smembramenti torture e agonie di ogni genere. Non è dunque solo il racconto della morte quel che risulta inguardabile, nemmeno quando si tratta di bambini.
È il fatto che siano le madri a uccidere i loro figli ciò che fa portare la mano alla bocca e a dire no, non posso crederci, è contro natura, una madre non può.
Invece può. Una madre può: i grandi tragici, migliaia di anni fa, lo mettevano davanti agli occhi della comunità, rappresentavano in teatro una realtà da testimoniare e insieme esorcizzare. Si legge nelle Sacre scritture. Oggi succede un giorno sì e un giorno no, in Italia: quattro volte alla settimana si consuma un delitto o un tentato delitto di genitori su figli bambini. Sei volte su dieci sono le madri a provare ad uccidere o a farlo. Sei su dieci. Padri e madri, almeno in questo terribile angolo buio, sono quasi alla pari. Allora ricominciamo daccapo.
Nella storia della madre che ha accoltellato le tre figlie e le ha ricomposte sul suo letto nella casa di Lecco ad essere inascoltabile è che ancora una volta, di nuovo, si dica che è stato un raptus. La litania rassicurante e fasulla del raptus. La follia che tutto spiega, tranquillizza. Era matta, ecco perché. Non ci riguarda, era pazza. A noi non capita, noi siamo sani. E non importa se dice che voleva sottrarre le figlie al destino di miseria, se nel pianto spiega che temeva che avrebbero finito per prostituirsi, che non ce la faceva più da sola non aveva come crescerle, non aveva nessuno. Non importano le parole comprensibili, disperate. Era pazza e basta, perché una madre non può.
Invece può. Duecentocinquanta (è una cifra imprecisa, forse debole per difetto, una media dei dati forniti dalle associazioni che si occupano di infanticidio: qualcuno dice duecento, qualche altro trecento e del resto molte morti sono archiviate come accidentali) sono i bambini uccisi dai genitori negli ultimi dieci anni, lasciamo da parte le centinaia di tentativi non riusciti. Parliamo solo di madri, ora. Erano tutte donne in condizione di povertà estrema? No, a cominciare dal caso di Annamaria Franzoni: non tutte. Erano straniere, immigrate, “non italiane” come Eda, la madre di origine albanese delle tre bambine di Lecco? No. Nella larghissima maggioranza sono donne nate in Italia da genitori italiani. Erano, sono donne che vivono in periferie degradate, ai margini, magari al Sud? No. I luoghi dei delitti, dal 2013, sono Desio, Bologna, Venezia, Foggia, Lecco, Roma, Merano, Genova, Grosseto, Cosenza, la provincia di Milano, la provincia di Lecco, di nuovo Lecco e via così, da Nord a Sud, dalle città ai paesi. Ci si vuole concentrare sul fatto che nell’area di Lecco si sono consumati tre infanticidi in dieci anni? Si può farlo, ma credo si possa escludere il raptus di follia contagioso, con epicentro a Lecco.
Piuttosto questa tragica statistica potrebbe dare qualche altro elemento su cui pensare. Per esempio il come. Tutte le madri che hanno ucciso i loro figli lo hanno fatto con le mani. La maggior parte di loro col coltello, o con le forbici. Hanno tagliato. Uccidere con una lama è una modalità precisa: è molto difficile, intanto. Spingere nel vuoto, sotto un treno, sparare, avvelenare sono gesti di un istante. Usare le mani o impugnare una lama richiede un accanimento, uno sforzo fisico. D’altra parte è allo stesso modo che si viene al mondo: con accanimento, sforzo fisico e alla fine con un taglio.
Christina, di Merano, aveva 39 anni quando ha accoltellato suo figlio di quattro con lo stesso coltello con cui aveva imburrato le fette biscottate della colazione. Daniela, 43, ha ucciso il figlio di 11 con le forbici, a Rovito provincia di Cosenza. Ne aveva 36 la madre che, a Bologna, ha sgozzato i figli di cinque e sei anni, li ha adagiati sul letto matrimoniale e col quella stessa lama si è uccisa. Bologna, la città del processo a Lucia Cremonini, condannata per infanticidio nel Settecento. Era una strega, dicono le cronache d’epoca. Una strega? Bologna, la città di Grazia Verasani, scrittrice che in From Medea ha raccontato la storia — poi restituita in un film e in uno spettacolo di teatro — di quattro donne rinchiuse trecento anni dopo, alla fine del 1900, nell’ospedale psichiatrico di Castiglion delle Stiviere. Adriana Pannitteri, giornalista, ha parlato con molte altre di loro e ne ha scritto. «Ti verrà naturale essere madre, mi dicevano, invece non veniva». «Stavo tagliando le arance per la spremuta, ho avuto un buio come quanto continua a uscire l’acqua ed esce dalla vasca e non fai niente». «Ero completamente sola». «Piangeva e piangeva, non sapevo più cosa fare».
Non è vero che venga sempre naturale, non si diventa madri solo col parto e per istinto di natura. A volte, spesso, è difficile. A volte qualcosa si rompe. Quando la casa ha un odore cattivo le cose marciscono e non c’è un fuori per te, c’è solo un dentro. Quando tutti attorno ti dicono è un momento passerà, non sei felice del bambino?, quando il medico ti consiglia di riposare di più e ti congeda con due gocce. E non c’è un vicino non c’è un’amica, non c’è un lavoro fuori. Se non sai come fare a portare trenta euro a casa, e i figli chiedono. Se invece ce li hai ma ti sembra che i soldi non servano a comprare quello di cui hai davvero bisogno. Ecco. A volte passa, è vero, è una fase. Altre volte resta, imputridisce, annebbia. L’istinto di cui parlano non lo trovi. I figli però invece ci sono, eccoli, sono usciti dal tuo corpo, sono tuoi. Un pezzo, una proprietà — per allucinata estensione. Poi non sempre, per fortuna, ma a volte si fa buio. Un buio che non si può raccontare, dopo. Bisognerebbe vederlo prima. Il vero enigma non è cosa succeda quando le madri recluse diventano, titolano i giornali, mostri assassini. L’enigma forse è cosa succeda alle “persone normali” tutto intorno: quelle che non vanno mai fuoristrada, che non si alzano la notte quando sentono urlare. Che non s’impicciano, che salutano educate, che dicono l’ho vista ieri a scuola stava benissimo, è incredibile.
La vera domanda è come nessuno si accorga mai di niente, prima, e si sgomenti tanto, dopo. Come possano dire, tutti quanti e sempre: è stato un raptus di follia e poi tornare a dormire, cambiare canale. Dice don Gino Rigoldi che bisogna ricominciare ad immaginare case “di cortile”, per i giovani. Costruire luoghi da cui si possa uscire e stare insieme, a una certa ora del giorno, in uno spazio condiviso. Parlarsi, guardarsi. Come si faceva una volta nei paesi quando la sera, all’ora della veglia, le madri e le nonne uscivano per strada portando da casa la sedia di paglia e sedevano a osservare i figli e i nipoti giocare. Diceva Franco Basaglia che nella malattia della solitudine il vuoto che spaventa davvero non è il vuoto dentro ma il vuoto fuori: nella comunità e persino nella famiglia. Quello che manca, quello che davvero ci manca, è lo sguardo dell’altro che si accorge di noi e ci fa esistere.