Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  marzo 14 Venerdì calendario

L’EUROPA E LA BCE A ROMA “DOVETE FRENARE DEFICIT E DEBITO” RENZI SPINGE SULLA SPENDING REVIEW


L’esame è già iniziato, sia a Francoforte che a Bruxelles. Nel suo bollettino mensile, per la verità stampato prima che il governo di Matteo Renzi annunciasse le sue misure, la Banca centrale europea ieri ha riservato all’Italia una messa in guardia inusuale: il Paese è in ritardo nel sentiero di riduzione del deficit, osserva l’Eurotower, e da quando a novembre sono arrivate le ultime raccomandazioni di Bruxelles non si sono visti sufficienti progressi.
A quel tempo, quattro mesi fa, la Commissione europea aveva chiesto informazioni e impegni più precisi sul programma di privatizzazioni e sull’applicazione della spending review affidata a Carlo Cottarelli. Anche ieri Bruxelles è tornata a chiedere che l’Italia mantenga gli impegni presi. Eppure da Roma, almeno per ora, sono mancate le risposte attese e si continua a lavorare sugli annunci: senza dispositivi di legge sui quali rispettare gli impegni.

I PACCHETTI
Il primo pacchetto di misure del governo di Matteo Renzi, questa settimana, non fa eccezione alla regola. Non solo mercoledì sera in Consiglio dei ministri non è circolato nessun documento: i ministri hanno dato il loro via libera a dieci miliardi di tagli alle tasse senza avere davanti a sé un dispositivo che precisasse il costo degli interventi, l’impatto delle contromisure per contenere il deficit e il modo in cui quelli e queste saranno attuati.
È anche in dettagli come questo che, secondo alcuni, il premier Matteo Renzi segnala che intende cambiare il rapporto tradizionale con il ministero dell’Economia. I suoi predecessori sono uno dei mille esempi che non vuole seguire. Silvio Berlusconi aveva in Giulio Tremonti un contropotere di cui temeva il sabotaggio; Mario Monti era così certo di non volerlo avere, che a lungo ha tenuto per sé anche le redini del Tesoro come ministro e premier a un tempo; e anche la convivenza fra Enrico Letta e Fabrizio Saccomanni, in certe fasi, è stata facile.

I DUE CONTROLLORI
Renzi segnala che vuole agire diversamente: Palazzo Chigi decide, negli uffici che ospitano il premier e i suoi uomini più fidati, poi la pratica dovrebbe arrivare al ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan per trovare tecnicamente il modo di eseguirla. Che il Tesoro riceva gli impulsi con il timbro della presidenza del Consiglio cambia la gerarchia in modo tutt’altro che impercettibile.
Ieri Renzi agli appunti della Bce e della Commissione ha risposto in modo indiretto. Ha sottolineato che l’Italia rispetterà gli impegni, ma che anche l’Europa “deve cambiare” perché vive una crisi di rappresentatività. Neanche appelli del genere però modificano il fatto che l’interlocutore più attivo con il resto dell’area euro sarà probabilmente Pier Carlo Padoan. È a lui che arrivano le telefonate dagli altri ministri finanziari europei che vogliono sapere come saranno coperte le spese e gli sgravi già annunciati.

LE RISPOSTE DEL TESORO
In assenza di documenti, la contabilità è esigua. Ieri sera il Tesoro ha fatto sapere che i tagli alle tasse si potrebbero fare in deficit per circa tre miliardi. Stime che circolano al ministero fissano poi in 1,5 miliardi le entrate Iva in più sul 2014 legate al pagamento degli arretrati dello Stato alle imprese: ciò significherebbe che nel dicastero dell’Economia si pensa che quest’anno sarà possibile saldare non più di altri 27 miliardi, come già previsto da Letta. E anche queste entrate sarebbero una tantum, mentre le tasse più basse resterebbero. Quanto al rientro dei capitali dalla Svizzera, è impossibile per ora usarli a copertura delle misure del governo perché il provvedimento è stato ritirato e va riscritto. Nessuno sa quanto potrà fruttare alle casse dello Stato. E la minore spesa per interessi sul debito può essere contabilizzata a fine anno, ma non usata a copertura finanziaria di un provvedimento in anticipo.

L’ALBERO DI COTTARELLI
Ciò lascia alla spending review in corso un ruolo vitale. Ma più avanza, più quell’esercizio affidato a Carlo Cottarelli prende la forma di un albero. In basso, relativamente facili da cogliere, spuntano i frutti più piccoli. Quelli più ricchi di polpa invece sono in alto, meno a portata di mano: per arrivarci serve tempo e soprattutto chi vuole arrivare lassù deve armarsi di coraggio, perché correrà dei rischi.
Qualunque sia la strategia del governo di Matteo Renzi, deve partire da qua per valutare il rischio che il debito salga ancora di più. I tagli agli stipendi dei dirigenti dell’amministrazione potranno dare qualche centinaia di milioni di euro, ma per avvicinarsi ai 15 miliardi circa che servono per coprire a regime gli sgravi ai redditi più bassi, la riduzione dell’Irap, il piano casa e gli interventi per la scuola, servirà molto di più. Fra le voci nella lista di Cottarelli figurano i sussidi agli autotrasportatori, che valgono circa mezzo miliardo. Ma è difficile convincere il resto della platea delle imprese ad accettare sforbiciate agli aiuti di Stato per sei miliardi, se i sacrifici non sono ripartiti fra tutti. Ma far propria la raccomandazione di Cottarelli, per il governo Renzi significa andare incontro alla certezza di proteste e scioperi dei camion che rischiano di paralizzare la penisola. Altrettanto delicata, fra le molte, è l’idea dei tecnici della spending review di passare a un centro amministrativo unico delle varie forze armate: Esercito, Marina, Aeronautica, Carabinieri; per non parlare di Guardia di Finanza, Corpo Forestale e le sovrapposizioni nei corpi di polizia.
È sullo sfondo di arbitraggi del genere che si gioca nei prossimi mesi o anni il rapporto fra il premier, il suo ministro del Tesoro. Ma più ancora, il posto dell’Italia in Europa.