Stefano Montefiori, Corriere della Sera 14/3/2014, 14 marzo 2014
TERESA CREMISI – «ESSERE DONNA? NELLA MIA CARRIERA NON HO MAI PENSATO FOSSE UN PESO. A VOLTE, ANZI, È UNA FORTUNA. FINALMENTE»
Madrigall è l’anagramma di Gallimard, la più bella casa editrice del mondo. Madrigall è la holding che racchiude Gallimard e Flammarion, e Antoine Gallimard ha affidato alla direzione di Teresa Cremisi: tocca a lei, a Parigi da 25 anni, occuparsi dello sviluppo editoriale del gruppo, cercare nuove idee «e senza trascurare i conti», dice sorridendo in un ristorante di Place de l’Odéon. Cremisi è l’editrice di Michel Houellebecq e di Yasmina Reza, è «il primo ministro» delle lettere francesi, come una volta la definì Philippe Sollers. Con il Corriere parla volentieri della sua infanzia ad Alessandria d’Egitto, dell’apparente disinteresse dei politici italiani per il mondo culturale, e del suo «sguardo strabico»: «Il mio mestiere è puntare un occhio da una parte, verso la letteratura, le idee e il gusto, e dall’altra, verso la sovracopertina che costa 39 centesimi e richiede un giorno di lavorazione in più. Per questo mi piace così tanto. Io amo anche gli autori che vendono, mi permettono di respirare per due mesi». E magari hanno qualità letterarie. «Certe volte sì, certe volte no. Ma se vendono è perché hanno un senso. Adoro i bestseller. Mi fanno andare in ufficio tranquilla».
Al comando
Un’italiana, una donna, in un posto chiave della cultura francese e quindi mondiale. Glielo fanno mai pesare? «Dell’origine italiana, a nessuno importa più niente. Sono abituati: il primo consigliere di Hollande per esempio, Aquilino Morelle, è di origine spagnola, la ministra della Cultura Aurélie Filippetti è nipote di italiani emigrati per lavorare nelle miniere della Lorena. E poi il francese è la mia lingua madre, quella che parlavo in casa da piccola ad Alessandria. Mio padre era un imprenditore italiano, importava ed esportava cotone, mia madre una scultrice di famiglia angloindiana. Quanto all’essere donna, nella mia carriera io non l’ho mai avvertito come un peso. Forse sono stata fortunata. Ma ormai quando sento frasi tipo “abbiamo bisogno di un nuovo amministratore per il consiglio di un giornale, di un museo o di un’università”, c’è sempre qualcuno che dice “prendiamo una donna”. Certe volte può essere la ragione che fa la differenza. È giusto così, dopo anni in cui accadeva il contrario e nei posti di comando c’erano solo uomini».
Francia e Italia
Una cosa che molti non sospettano è quanto tutto ciò che è italiano sia amato in Francia. Sembra anche a lei? «Decisamente, in particolare l’élite francese ha per l’Italia una passione che a volte trovo curiosa, perché poco basata su motivi veri. Per questo mi è piaciuto il libro del corrispondente di Le Monde a Roma, Philippe Ridet, L’Italie, Rome et moi : spiega ai francesi che la realtà italiana è un po’ più complicata, un po’ meno da cartolina. Poi sono due Paesi molto diversi, altro che cugini. Per esempio, la Francia protegge caparbiamente la sua tradizione. Con effetti talvolta paradossali, come quando il mondo aveva già Internet e i francesi continuarono per anni con il Minitel. Michel Houellebecq, che pubblico e che amo molto, in La Carta e il Territorio ha ipotizzato per la Francia un futuro da enorme hôtel de charme , per ricchi turisti stranieri ansiosi di calarsi nella tradizione francese. È una visione crudele, ma interessante. L’Italia invece è così spesso insofferente della tradizione! Lo spiegò benissimo Alberto Arbasino in un libro che pubblicammo da Garzanti trent’anni fa, Un Paese senza . Siamo un Paese senza nostalgia, senza tradizione, con una grande capacità di andare dietro alle mode, di dimenticare. Ma anche un Paese capace di rischiare, e con una colossale capacità di adattamento. Davvero molto lontano dalla Francia».
Attenzione per la cultura
Lei vive bene a Parigi, dopo tutti questi anni? «Molto, soprattutto visto il mestiere che faccio. Qui ho la sensazione di esistere, di partecipare alla vita della polis . Se dico qualcosa, se prendo una posizione, il giorno dopo è probabile che il ministro della Cultura o qualcuno agli Esteri chiami, si confronti. È sempre successo, con i governi di destra e di sinistra. Perché in Italia non accade mai? Qui il presidente della Repubblica prende il telefono per dire vorrei organizzare un pranzo con degli storici, lei ne ha pubblicati tre, chi invito? Verrebbe anche lei? Non che uno viva per questo, ma insomma fa piacere e dà la sensazione di essere utili, di fare parte di una collettività. Due anni fa il presidente era diverso ma non importa, grazie a Sarkozy ho partecipato al rapporto sulle librerie, voluto da lui, ci hanno messo a disposizione una stanzetta… Non costa niente perché non ci siamo fatti pagare, e loro usano l’esperienza delle persone, senza steccati. Dall’Italia invece non mi hanno mai chiesto niente. Lo trovo curioso, e mi dispiace. Io sono affezionata all’Italia, ovviamente non vorrei onori ma solo l’impressione di partecipare. Forse accade ad altri che dirigono case editrici italiane, ma ne dubito».
Alessandria addio
Si ricorda il primo libro che ha letto? «Sì, un Molière, credo fosse Il medico per forza . Ridevo da sola nel mio lettino. Avevo 8 o 9 anni, abitavo ad Alessandria d’Egitto. Le mie finestre davano su un giardino, e più lontano c’era il mare. Poco tempo dopo, a 10 anni e mezzo, ho assistito alla morte di una incomparabile civiltà cosmopolita, in una sola settimana. Greci, italiani, inglesi, francesi, ebrei vivevano assieme da sempre, lo ha raccontato bene André Aciman in Ultima notte ad Alessandria . Con la crisi del canale di Suez nell’autunno 1956 finì tutto all’improvviso. In un silenzio irreale della comunità internazionale. L’attenzione andò tutta sui carri russi che entravano a Budapest. «Milano fu la nostra nuova casa. Per i miei genitori, nati entrambi in Oriente, fu un dramma. Io ero figlia unica, e a 11 anni sperimentai che significa diventare genitore dei propri genitori. Mia madre non si alzava dal letto, fu terribile. Anni prima invece erano stati felici e spensierati, persino durante la guerra. Mio padre nascosto tra i contadini del delta del Nilo, mia madre a guidare le ambulanze e a farsi leggere poesie dai soldati inglesi».
È vero che più grande, a 18 anni, scelse di andare a lavorare alla Garzanti perché era vicina a casa? «Verissimo. Erano anni diversi, in cui in Italia il lavoro ancora c’era, anche e soprattutto in questo settore. Avevo mandato un curriculum di poche righe, mi risposero subito in tre. La Rizzoli era troppo lontana, la Garzanti stava in via della Spiga, mi sembrava perfetta. Giocavamo a fare gli editori, per gran parte dell’anno nessuno aveva idea del bilancio».
E adesso? «Adesso sai subito se stai guadagnando o perdendo soldi. Per questo il successo è importante, serve a essere liberi. Margini piccoli, rischi grandi: ci si innamora di un libro, magari lo si traduce e poi si vendono 600 copie… Se lei fa yogurt e azzecca due sapori straordinari, è tranquillo per 3, 4 anni. Qui invece bisogna inventarsi 10 libri al giorno. E nessuno renderà quanto uno yogurt azzeccato. Ma essere editori permette un’eccitazione particolare, l’eccitazione chimica prodotta dall’incontro tra l’arte e il mercato, tra le idee e il commercio».