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 2014  marzo 14 Venerdì calendario

IMITARE PERON NON AIUTA LA CRESCITA


Il premier Renzi aveva promesso una terapia da elettroshock per la crescita economica, ma questa per ora non si vede. Ciò che emerge è un modello redistributivo di tipo argentino, di ricordo peronista, a spese e a danno del ceto medio che sgobba e risparmia. È probabile che l’operazione di Renzi, nella sue intenzioni, gli serva a ottenere popolarità a sinistra per le elezioni europee, ma la tesi che il suo programma serva per la crescita è velleitaria, e le coperture finanziarie dei suoi provvedimenti sono fantasiose, salvo la patrimoniale sulle rendite finanziarie e il contributo di solidarietà sulle pensioni sopra i centomila euro, senza considerare se siano state conseguite con contributi equivalenti. Al pragmatismo lento di Letta che strizza l’occhio ai «padroni del vapore» Renzi sostituisce un sogno neo peronista. La sua misura principe è la riduzione di 10 miliardi di imposte sul reddito. Essa dà a 10 milioni di lavoratori dipendenti che guadagnano sino a 1.500 euro al mese mille euro l’anno ciascuno, ossia 76 euro al mese, 3,33 euro al giorno e 152 nella tredicesima. Il modello è fantasioso. Credere che con 76 euro mensili cresca in modo sostanziale la domanda globale di consumo è fantasioso. I maggiori consumi connessi ai 76 euro mensili ai lavoratori a basso reddito, in gran parte andranno in importazioni di generi alimentari, tessili e prodotti domestici vari a basso costo, non alle produzioni italiane di qualità. Dieci miliardi di tagli alla spesa pubblica, da parte del commissario Cottarelli, sono ben poco probabili e non si sa di quali spese si tratti. Inoltre il taglio delle spese pubbliche, anche quando sono fonte di spreco, genera una riduzione di domanda, sebbene porti nel medio e lungo termine un’economia più efficiente. Supponiamo che il taglio di 100 auto blu generi subito anche il taglio di 100 autisti (cosa poco probabile trattandosi di addetti con posto fisso): è ovvio che si sono ridotti i salari pubblici e quindi le spese di consumo. Esiste un teorema economico di Haavelmo (celebre economista scandinavo) che sta nei libri elementari di economia che lo spiega. Ma di tutto ciò Renzi non si occupa. Il suo scopo è avere il consenso dei lavoratori dipendenti a basso reddito. Il taglio di Ronald Reagan e di Lady Thatcher delle tasse sul reddito riguardava quelli medio alti e generava crescita perché premiava il merito e dava più soldi a chi investe. È iniquo, ma crea crescita. E non tramite la domanda di consumo, bensì attraverso lo sviluppo dell’offerta. Non è il modello felice per cui redistribuire dai ceti alti a quelli bassi crea ricchezza, ma è la teoria dello sviluppo economico tramite l’offerta nel mercato di concorrenza, in cui vincono quelli che si impegnano di più. Non è molto equo, certo. Ma nel paniere in cui poteva pescare Renzi, c’era una proposta che combina merito, equità sociale e competitività. Si trattava di utilizzare i 10 miliardi per tagliare l’Irap sul costo del lavoro dipendente, che si può fare con un credito di imposta per questa entità, che la riduce di 9 decimi, portando la pressione del 4% del costo del lavoro comprensivo di contribuiti sociali, allo 0,4. Così si premiano soprattutto le imprese con molto lavoro, efficiente e qualificato ad alti salari. E l’economia italiana può essere più competitiva nelle esportazioni e rispetto alle importazioni, producendo e vendendo di più. Ciò crea crescita, ed è equo. Invece Renzi annuncia l’aumento al 26 per cento della cedolare secca sulle rendite con gettito di 2,4 miliardi per ridurre del 10% l’Irap sul costo del lavoro. Una mancia alle imprese e al lavoro autonomo per ridurre la loro delusione. C’è però un progetto meritorio fra quelli di Renzi, l’abolizione dei vincoli al contratto a termine posti dalla riforma Fornero. Ma è solo un inizio rispetto alla liberalizzazione del mercato del lavoro che servirebbe per accrescere la produttività, la vera terapia shock possibile senza incappare nei vincoli di bilancio, che bisogna rispettare non solo perché lo chiede Bruxelles ma perché il debito pubblico è il 132% del Pil.