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 2014  marzo 14 Venerdì calendario

GRILLINI D’INDIA


Mumbai. «Vuoi sapere come la vedo? È molto semplice. Noi giovani abbiamo fretta. Vogliamo correre a mille all’ora, ma qui in India non ci lasciano neanche sfiorare i dieci chilometri orari». A Naga Srinivas la sintesi piace e si fa una grassa risata, mentre racconta la strana terra che il miglior ritrattista della megalopoli Mumbai ha ribattezzato Il Paese del No (Sukethu Mehta, Maximum City). «Ho pagato tutta la mia educazione, dalla prima elementare fino alla laurea in Architettura, con 50 mila rupie (circa 600 euro)» spiega Naga. «Oggi solo per iscrivere tuo figlio all’asilo qui a Mumbai devi offrire una donazione di 75 mila rupie. È così per tutto. Ti serve una medicina? Vuoi una latrina pulita nel quartiere? Paghi. E se hai una buona idea, la burocrazia trova il modo di bloccarti».
Incontro Naga nella sezione che l’Aam Aadmi Party (Aap, Partito dell’Uomo Comune) ha aperto da poco a Mumbai in un ufficio di Andheri Est, uno dei sobborghi cresciuti caoticamente a nord del cuore storico della città. La sede è animata da un continuo via vai di simpatizzanti, candidati e aspiranti tali. Tutti dilettanti – rivendica Naga – scesi in campo per terremotare un sistema politico anchilosato.
Come buona parte dei dirigenti del nuovo partito, anche Naga si è formato nel movimento di Anna Hazare, il carismatico attivista che ispirandosi alle tecniche di resistenze civile del Mahatma Gandhi ha lanciato la «seconda lotta per la liberazione del Paese». Il nemico da abbattere è la corruzione, il male della più grande democrazia del mondo.
Nulla di nuovo. Già ai tempi del British Raj i funzionari della Compagnia delle Indie Orientali pescati con le tasche piene venivano rinchiusi nella Torre di Londra. Cacciati i britannici, la corruzione – in modo non poi così diverso da quanto accadeva nell’Urss attorno alla quale la non-allineata India ruotava durante la guerra fredda – è diventata il perno di un sistema dove amicizie e bustarelle dettano la distribuzione di risorse scarse.
Lo Stato elefantiaco costruito dopo l’indipendenza ha regalato un immenso potere discrezionale alla burocrazia che controlla l’accesso a licenze, concessioni e semplici diritti. Ancora oggi, malgrado le riforme avviate all’inizio degli anni Novanta, se vogliono Daud – espressione hindi che descrive l’odissea necessaria per ottenere una cosa qualsiasi da un ufficio pubblico – l’indiano deve affidarsi a un esercito di mediatori e mettere mano al portafogli.
È questa esperienza diretta, prima ancora della serie di casi collezionati dalle autorità nell’ultimo decennio – secondo Naga – che ha acceso lo spirito di rivolta in India. «L’uomo comune non conosce gli intricati dettagli degli scandali nei quali si è trovato invischiato il governo, ma sa quanto gli costa il sistema». Il grande economista indiano C.K. Prahalad nel 2010 ha stimato le opportunità perdute ogni anno in termini di investimenti, lavoro e crescita a oltre 50 miliardi di dollari. Uno spreco intollerabile, tanto più ora che il miracolo indiano si sta ingolfando. Anche negli anni migliori – quando il Pil cresceva in media dell’8 per cento all’anno – l’economia faticava a creare nuovi posti di lavoro. Ora sta sotto al 5. Naga però è convinto che la svolta per l’India sia già iniziata. I giovani sono tanti, quindi – argomenta – la situazione non può durare: «Con il 65 per cento della popolazione tra i 18 e i 35 anni, l’India è il Paese più giovane del mondo». Se non lo è ancora, lo diventerà presto. Nel 2020, stando alle proiezioni dell’Onu, quando l’indiano medio sarà un homo urbanus di 29 anni.
Quello di Naga non è solo crudo determinismo demografico. «La spinta per il cambiamento si è accelerata negli ultimi cinque-sei anni» spiega «e coincide con l’accesso a nuove fonti di informazioni». L’ennesima ribellione generata dai social media? «L’innovazione tecnologica ha avuto un impatto profondo». Ha portato ricchezza e opportunità in India – terra di giovani tecno-prodigi – ma anche un accesso senza precedenti a esperienze lontane.
La primavera è dietro l’angolo. Ad aprile l’India vota per le politiche e alle urne saranno chiamati per la prima volta oltre 150 milioni di nuovi elettori. Dopo dieci anni di governo, il partito del Congresso, primo attore della lotta di liberazione e a lungo forza egemone del sistema politico indiano, va incontro a una pesante sconfitta. Se non sarà una rivoluzione poco ci manca, assicura Naga, che ha lasciato da poco l’architettura per dedicarsi a tempo pieno al partito dell’Uomo Comune. Ora studia i flussi dei voti, in cerca di una via che permetta all’Aap di ripetere a Mumbai l’exploit realizzato nella capitale, conquistata a sorpresa nelle elezioni locali di novembre.
A Delhi durante la campagna decine di migliaia di volontari hanno portato la buona novella affiancati da uno sciame di autorickshaw, i motofurgoni gialli-neri a tre ruote figli della mitica Ape nostrana, che scorrazzavano per la metropoli esponendo i simboli del partito: berretto da manovale e scopa.
L’Aap ha presentato all’elettorato una piattaforma semplice: mani pulite e servizi decenti a buon prezzo, promettendo, ad esempio, di dimezzare il costo dell’elettricità, gonfiato fin qui dall’accordo tra fornitore e governo locale. Un’offerta politica attraente per una popolazione urbana in costante crescita, che è stanca di dover pagare una mancia per avere accesso a servizi sempre più scadenti.
Così il 45enne Arvind Kejriwal e la sua pattuglia di peones hanno preso Delhi (28 seggi su 70) ricevendo – di fronte a uno stallo simile a quello registrato in Italia dopo le politiche – l’incarico di formare un governo di minoranza con l’appoggio esterno del vituperato partito del Congresso. Esperienza peraltro durata poco: la bocciatura di una legge anticorruzione ha indotto il leader dell’Aap a lasciare la poltrona di Chief Minister della capitale dopo solo 49 giorni.
La vittoria di Delhi è stata liquidata dagli analisti come irripetibile, propiziata dalle condizioni particolari di una città dove il reddito medio è tre volte superiore al resto del Paese, e mancano le divisioni identitarie che altrove dettano i temi della politica. Condizioni ideali per un partito che taglia trasversalmente le comunità e parla alla classe media urbana – chiosano gli analisti – ma che per questi stessi motivi non può sfondare a livello nazionale. Da allora le sezioni dell’Aap si sono moltiplicate. Gli analisti sono diventati più prudenti. E i militanti hanno iniziato a crederci. «La sfida è tra città e campagne» sintetizza Naga, squadernando grafici artigianali che tagliano a fette l’elettorato della Grande Mumbai. È la metropoli con la più alta densità di popolazione al mondo (oltre 30 mila abitanti per km quadrato), e ci passa una marea di denaro (il 70 per cento delle transazioni di capitali dell’economia indiana si fanno qui) anche se il 60 per cento dei suoi abitanti vive negli slum. Ma se ti sposti da sud a nord, i dati non cambiano tanto, l’affluenza non supera mai di molto il 40 per cento (il dato nazionale nel 2009 era 59,7)».
«Sono disillusi, i loro interessi non vengono difesi. Il governo li spreme e dà poco o nulla in cambio. Ma cambierà, le vedi queste cifre? Raddoppieranno!» s’infervora Naga. «E a votare non andranno solo le classi medie, ma anche gli intoccabili, com’è accaduto a Delhi. Perché capiranno che l’Aap difende i loro interessi, anche nelle cose più semplici». L’India non è l’America. Qui i poveri votano più degli altri, e in campagna più che in città. Il partito del Congresso lo sa e in questo decennio ha investito molto nel welfare. Ma solo una frazione del denaro arriva a destinazione.
Il bilancio del decennio, però, non è del tutto negativo. La percentuale degli indiani che vive sotto la soglia di povertà (16 dollari al mese in città, 13 in campagna) è sceso del 34 per cento dal 2005 al 2012, secondo un recente rapporto della Planning Commission. Al netto della corruzione e del boom al rallentatore, negli anni di governo della coalizione progressista in India 137 milioni di persone sono usciti dallo stato di povertà (da 407 a 270 milioni). Al partito del Congresso non basterà, dicono i sondaggi, ma il bipolarismo imperfetto indiano dovrebbe reggere. A meno di sorprese, gli elettori riporteranno al governo la destra del Bharatiya Janata Party (Bjp) guidata dall’estremista indù Narendra Modi, che piace agli imprenditori. L’Aap potrebbe sfiorare il 10 per cento, un ottimo risultato per un terzo polo al debutto, ma insufficiente per cambiare il Paese da cima a fondo.
Al quartier generale di Mumbai sono tutt’altro che rassegnati. «Il Congresso è già fuori gara, ci giocheremo le elezioni con il Bjp. Modi ha cantato vittoria troppo presto. Il suo indice di gradimento sta scendendo» assicura Mayank Gandhi, che guiderà la lista del partito qui nel Maharashtra. «A Delhi stiamo facendo vedere come si governa. Abbiamo iniziato liberandoci di tutti i privilegi, e questa rinunzia parla in profondità al Paese. Ci vedono vivere in modo semplice e ci amano».
Tutti, o quasi. Gandhi nega che vi sia una spaccatura città/campagna e definisce «una manipolazione» l’idea che l’Aap sia solo il partito dei ceti medi urbani: «A Delhi ci hanno scelto i più poveri – i musulmani, gli abitanti degli slum – che prima votavano per il Congresso. Per noi, come insegnava il Mahatma, l’ultimo uomo della fila è il primo a cui dobbiamo dedicare la nostra attenzione».
Gandhi è stato scelto come capolista e accoglie le congratulazioni con un po’ d’imbarazzo. È la prima volta che si candida. Anche lui si occupava di altro. «Avevo una piccola impresa, facevo persiane» racconta, «ma per andare avanti dovevo pagare continuamente delle bustarelle, e non riuscivo ad accettarlo».
Il candidato segue con interesse l’esperienza dei Cinque Stelle in Italia, ma ha altri punti di riferimento. «Ciascun Paese ha il suo ethos, se non costruisci su quello, l’edificio sociale non sarà solido. Noi dobbiamo tornare alle lezioni della nostra lotta per l’indipendenza, quando Gandhi scelse la non-violenza della verità e della rinuncia».
Ma la rivoluzione indiana è rimasta incompiuta. «I padroni inglesi puntavano solo a ricavare denaro dal popolo. Noi abbiamo conservato questo sistema, limitandoci a sostituire il funzionario coloniale con quello autoctono. La sfida rimane la stessa. I governanti sono i padroni, noi i loro servitori».
Mayank Gandhi non è un gradualista. «Le piccole riforme incrementali non bastano, serve un grande balzo in avanti, altrimenti l’India non cambierà». La stella polare è lo swaraj, modello gandhiano dell’autogoverno basato sul potere della comunità. La rivoluzione che evoca però coincide solo in parte con le richieste di Naga e di molti suoi coetanei che vivono nelle grandi città. Gandhi s’inspira in primo luogo al «pensiero indiano tradizionale, il più potente sistema di conoscenza al mondo». L’India che verrà – spiega – deve attingere da esso e «trovare il giusto equilibrio con il modello occidentale adottato in modo acritico».
I giovani come Naga vogliono una rottura più profonda con la tradizione. Rivendicano il libero perseguimento dei desideri individuali, la ricerca della felicità anche in contrasto con i dettami della comunità. Per molti di loro l’apertura al resto del mondo non è stata solo virtuale. Con il rallentamento dell’economia, il flusso di giovani indiani costretti a cercare fortuna altrove si è ingrossato. Migra la bassa manovalanza, ma fuggono anche i cervelli.
Quando torna a casa, il migrante riporta con sé nuove idee e abitudini coltivate fuori. Ma qui è dura, mi racconta Gayatri, giornalista originaria del Kerala, sbarcata da poco a Mumbai dopo aver girato il mondo con il suo compagno tedesco. Il costo della vita è alto, gli stipendi una miseria. Così molti devono accasarsi con i genitori e si trovano a sfidare – oltre a un sistema economico e sociale bloccato – una società patriarcale refrattaria al cambiamento. Chi se lo può permettere cerca rifugio a Bandra, il quartiere meno bigotto della città dove «affittano le case senza problemi anche alle coppie non sposate, perfino interrazziali». Gayatri ha provato a scuotere qualche tabù aprendo un sito di educazione sessuale. «I contatti sono tanti e l’80 per cento degli utenti sono donne». Anche lei sottolinea l’influenza dei social media «perché fanno girare informazioni e garantiscono l’anonimato. Chi ha domande imbarazzanti non deve esporsi. Ma il cambiamento da virtuale poi diventa reale». È un mutamento lento e faticoso quello cui lavora Gayatri, lo stesso che poco più di un anno fa ha portato in piazza per giorni migliaia di indiane e indiani nel nome di Nirbhaya (l’impavida), ennesima vittima di uno stupro di gruppo. Poco più di un banale fatto di cronaca purtroppo, ma nei giorni in cui la ragazza lottava tra la vita e la morte, una parte della società indiana ha detto basta, dando inizio a una rivolta senza precedenti.
«Con la morte di Nirbhaya qualcosa è cambiato» conferma Gayatri. «Quando ero piccola ci dicevano di tornare a casa prima del buio, ora insegnano alle ragazze i loro diritti. Le donne sanno che possono difendersi, e hanno anche imparato come».
La farmacia vicino all’ospedale centrale pubblicizza uno spray anti-aggressione. Il farmacista dice che «è un prodotto nuovo, c’è da pochi mesi e si vende molto bene, soprattutto alle ragazze più giovani». Lo racconto a Gayatri. Non si stupisce. «L’autodifesa femminile è diventata un business» spiega. «Ormai le aziende includono un workshop anti-stupro nel pacchetto che offre alle nuove dipendenti».
Il percorso di cambiamento però è solo all’inizio. I partiti sono refrattari a fare campagna sui diritti delle donne. Si sono limitati fin qui a raccogliere le urla più forcaiole della piazza, e un tribunale ha condannato a morte – cosa rarissima in India – gli assassini di Nirbhaya. Ma sebbene oggi siano molte di più le donne che trovano il coraggio di denunciare uno stupro, la distinzione tra vittima e criminale nei commissariati di polizia rimane spesso nebulosa. E la macchina della giustizia stenta. Non può essere diversamente, peraltro, in un Paese che ha oltre 30 milioni di casi arretrati pendenti. Per smaltire i suoi, ha fatto sapere l’Alta Corte di Delhi, servirebbe quasi mezzo millennio. Se non vuoi aspettare, la bustarella aiuta. Così i lacci e i lacciuoli che imbrigliano il Paese del No aiutano anche a conservare le regole non scritte della società patriarcale.
«L’India sarà davvero libera solo quando una donna potrà camminare senza paura per strada a mezzanotte» ammoniva Gandhi all’alba dell’indipendenza. Sessant’anni dopo, il Mahatma ispira ancora la lotta per una nuova stagione di diritti. Neanche la grande anima, però, sfugge del tutto allo sguardo critico dei giovani che sfidano l’India dei padri. «Non hai letto la biografia di Jad Adams (Gandhi: Naked Ambition, 2010)?» mi interroga Jansi, una ricercatrice universitaria che incontro in un locale di Bandra. «Era ossessionato dal sesso e ha dormito fino all’ultima notte nudo con due ragazze accanto per mettere alla prova la sua castità. Neanche lui può essere un esempio. Non su tutto, almeno, ti pare?».