Francesco Lo Sardo, Europa 14/3/2014, 14 marzo 2014
UNA STORIA DI DESTRA
«E capirono di essere stanchi per quella loro condizione di affamati, di randagi che non riuscivano a trovare riparo, con tutto quel risentimento che avvelenava le loro esistenze giovani, le loro vite che avevano bisogno di sole ed erano già semiclandestine». Vittoria si guarda indietro e ritrova Vittoria, più di trent’anni dopo. Cerca un perché che le è sfuggito a lungo, come i sogni del mattino, quasi afferrati. Ed è una freccia che corre nel tempo, riportandoci al futuro che a un pezzo della sua generazione è balenato davanti come una cometa perché il destino per molti, tra cui Vittoria, aveva stabilito che se ne avesse diritto solo al prezzo di restare per sempre marchiati da quegli anni. Vittoria è Annalisa Terranova, classe 1962, collega giornalista del Secolo d’Italia. Vittoria è il titolo del suo ultimo libro (Giubilei Regnani editore), ed è lei, VIttoria, la protagonista, come anticipa il sottotitolo, di Una storia degli anni settanta.
Quegli anni settanta sono la sua e la maledizione di molti quanto lo fu, si parva licet componere magnis, la seconda guerra mondiale per i nostri padri e la Grande guerra per i nostri nonni, un tempo breve di giovinezza che ti costringe, di fronte alla vita strappata a chi ti è vicino, a diventare adulto da ragazzino. Quattrocentoventotto morti, oltre duemila feriti. Il ’68 dei manganelli, delle legnate, degli sganassoni e dei sampietrini, Vittoria non ha mai saputo cosa fosse. I suoi sono già gli anni dell’odore della polvere da sparo, dell’olio delle armi automatiche e delle taniche di benzina, un tempo desaturato dalla gioia di vivere e colorato da troppe sfumature grigie che sarebbe sopravvissuto, dentro ciascuno dei suoi protagonisti, per sempre. Come il piombo della lamina della defixio romana, dove è stato scritto il nostro nome, arrotolata, inchiodata e sotterrata.
Ragazzina formata in una famiglia di cultura fascista, respira gli anni sessanta di Carosello e della plastica Moplen. Ma la felicità della Fiat 850 color crema ha già la tinta della militanza missina, che insieme alle minestre della mamma, alle vetrine della zia, da matrice si fa stile e cifra, tagliando un orizzonte – tra i palazzoni della Roma sud dove scorre la vita di Vittoria fino al grande salto a Colle Oppio, col debutto da piccola vedetta sulla cima del bunker del Msi – netto come la lama di un coltello.
Il poi di Vittoria si ferma ad Acca Larentia, alle scalette della strage del 7 gennaio 1978. Hanno diciotto, diciannove e vent’anni i tre ragazzi fascisti morti. A spezzargli la vita – girò voce tra noi di Radio Città Futura e di Democrazia proletaria – sono stati morti viventi perduti nelle nebbie della disciolta Lotta continua, i rifugiati nelle periferie degli accampamenti dell’Autonomia Operaia ai confini delle organizzazioni combattenti. E ai confini di chissà cos’altro poi perché, come si diceva, «segui le armi e ti dirò chi sei».
Nell’estrema sinistra romana Acca Larentia fa quel che non aveva fatto il rogo di Primavalle dei fratelli Mattei, di otto e ventidue anni, bruciati vivi in casa cinque anni prima. La ferrosa casamatta dell’antifascismo militante rovina su se stessa: gli slogan diventano colpi di Skorpion che ne sono la coerente declinazione. È troppo. Nel Movimento già in riflusso dopo l’acmé del 1977 l’orrore di Acca Larenzia risveglia dall’autoipnosi della reincarnazione nella lotta partigiana, dalla koiné unificante dell’antifascismo militante. Arriverà poi il rapimento e dell’esecuzione di Aldo Moro, tre mesi dopo, a calare la lapide sul quel che restava del Movimento. Ma i suoi numeri sono grandi, le schegge che non si arrendono al Novecento che se ne va, sono ancora migliaia. Di là, all’estrema destra, deflagrano i Nar. I morti non finiranno, la scia di ferocia e stupidità farà altre vittime, non solo a Roma, sporcando anche gli anni ’80. Trenta vittime nel 1978, ventidue nel ’79, trenta nell’80, diciannove nell’81, sedici nell’82…
Per Vittoria la pozza di sangue di Acca Larentia è il turning-point. Da lì Vittoria-Annalisa inizia un cammino critico segnato da dissonanze, irregolarità, orgogliosa devianza intellettuale di una militante di destra che si pone interrogativi senza più l’angoscia della ricerca ossessiva di certezze. La fede incrollabile negli uomini e nei loro atti non fa più per lei. Né lo farà mai più neppure per tanti dei «rossi» che vivevano dall’altra parte dello specchio di Vittoria e che a sedici anni già tiravano i primi colpi di pistola nelle cave di tufo della periferia romana.
Morti inutili e dolenti sopravvissuti? No. Quel pezzo di generazione cresciuta in un’adolescenza senza discoteche, immersa come dervisci rotanti nell’heavy metal dell’ideologia che altera gli stati di coscienza, oggi ha la silente forza di un’aquila che dall’altezza della sua sofferenza e delle sue cicatrici osserva il tempo dell’approssimazione e ne segnala i pericoli. La sua vista e i suoi artigli sono l’antidoto alle nuove fedi e alle febbri degli apprendisti stregoni. Vittoria, tante Vittorie, vigilano sul confine della violenza. Che è sempre lì, ricoperto da un sottile strato di modernità digitale, pronto a sputare altri orrori. Una guerra non si può fermare, una tragica parodia della guerra invece sì. Forse c’è anche questo nascosto nelle righe del romanzo di Annalisa Terranova: c’è una domanda che potrebbe aver afferrato la risposta, strappandola al sogno del mattino che svanisce e vuole portartela via. «Vittoria – gracchiava una canzone del ventennio – dispiega le ali al vento. Vittoria vola e va…». A quella proprio no, ma a questa Vittoria sì: buon volo.