Stefania Rossini, L’Espresso 13/3/2014, 13 marzo 2014
CRISTIANO NON FABRIZIETTO
[Colloquio Con Cristiano De Andrè] –
Cristiano De Andrè è un uomo grande e grosso di 51 anni che porta nei lineamenti, nel linguaggio e soprattutto nella mente l’impronta indelebile di suo padre Fabrizio. Non si parla con lui di musica, di successi, di affetti, persino di vita quotidiana, senza che la presenza di quel grande padre venga evocata per essere rimpianta, esaltata o attaccata, secondo le emozioni discontinue di questo cantautore ormai importante che a Sanremo ha dato prova definitiva del proprio talento. Un suo brano, “Gli invisibili”, è stato infatti molto apprezzato dalla critica sfondando anche il muro del grande pubblico tv che, forse per la prima volta, lo ha visto come artista autonomo, al di là dell’ingombrante cognome. Ma anche la sua bella e intensa canzone, che evoca una città, Genova, e una generazione che alla fine degli anni Settanta è stata decimata dall’eroina, non può non ricordare Fabrizio e le sue ballate dedicate agli ultimi della terra. È un’impressione che resta intatta anche dopo una lunga conversazione in cui Cristiano si è messo a nudo quanto poteva, in un’altalena di slanci e timidezze, confidenze e improvvise durezze che sono, con tutta evidenza, la cifra stessa della sua vita.
Il grande successo, finalmente. Se lo aspettava?
«Sapevo che la canzone era bella, e anche vera. Ma non si è mai davvero sicuri prima del confronto con gli altri. E anche dopo, come capitava persino a mio padre nonostante la sua grandezza».
Eppure il suo brano “Gli invisibili” è stato apprezzato incondizionatamente
«Se è così, ne sono felice. Ho portato al festival la sfida di un pezzo poco sanremese, con contenuti forti. C’è dentro tutta la rabbia e il dolore per un amico morto di eroina e per una società che ha colpevolmente abbandonato una generazione a distruggersi nella droga. Non era scontato che tutti capissero».
C’era anche lei in quell’autodistruzione?
«Le dico soltanto che ho sempre preferito gli angiporti ai salotti della borghesia. Ma sono stato salvato dalla passione per la musica. Fare musica dà un piacere più forte perché non è solitario, anzi si esalta nella condivisione, e vi si può esprimere tutto il proprio mal di vivere».
Sta dicendo che la creatività viene dal caos interiore?
«Assolutamente sì. Tutti gli artisti, siano essi poeti, musicisti o pittori, creano perché gli manca una gamba e cercano di ritrovarla attraverso l’arte. Vale anche per me e anche per mio padre, la cui feroce sensibilità non si è mai placata. Saliva sul palco con la bottiglia di Glen Grant e ti coinvolgeva nel suo dolore fino a farti piangere».
Come faceva?
«Nella sua canzone “Un amico fragile”, c’è una frase che io ho vissuto sulla mia pelle: “Se mi vuoi bene piangi”. Era il suo modo di sentire che era corrisposto. Tutti quelli che lo hanno amato sanno che vuol dire. Io di più, perché sono suo figlio e gli somiglio pure fisicamente tanto che da piccolo non avevo neanche il mio nome: mi chiamavano Fabrizietto. Con un padre così non ci si può permettere neppure il complesso di Edipo!».
Un’osservazione singolare. La spieghi meglio.
«Quello è il classico passaggio in cui un ragazzo ha bisogno di mettersi in contrasto con il padre per diventare uomo. Ma io avevo a che fare con un genio. Mi potevo incazzare finché volevo, ma lui restava un gigante inarrivabile. E poi è stato sempre molto duro con me. Io gli avevo promesso: “Vedrai che un giorno riuscirò a trovare un rifugio per Cristiano”. Lui mi aveva risposto: “Se fai musica, il mio cognome ti stira”».
E invece ce l’ha fatta. Quando ha capito che avrebbe camminato con gambe sue?
«È stato un processo lungo. La prima volta, mentre studiavo al Conservatorio, mio padre mi fece salire sul palco e mi presentò: “Questo è mio figlio e suonerà il violino”. Avevo 22 anni e, se posso dirlo, suonai meglio di Lucio Fabbri. Poi l’ho accompagnato nei tour acquistando sicurezza. Oggi riempio gli stadi con 8 milapersone, rivisitando il suo repertorio a modo mio».
Eppure quell’infanzia difficile le ha lasciato anche un ambiente prezioso...
«Questo sì. A casa c’era sempre un sacco di persone: Walter Chiari, che io adoravo, Lauzi, Paoli, Tognazzi e tanti altri. Non volevo mai andare a dormire per non perdere gli spettacolini che ogni sera erano improvvisati su un palchetto ricavato da un ballatoio».
Ne ricorda qualcuno?
«Quasi tutti. C’era una specie di procedura: venti minuti a testa per recitare o esporre le proprie idee. Lì è nato quasi per caso il Fantozzi di Villaggio. Lì una sera Tognazzi, che cucinava sempre per tutti, ha fatto un dolce a forma di tette che ha ispirato “La grande abbuffata”a Marco Ferreri, un genio che cercava di sembrare un imbecille. Lì ho visto ideare tante scene di “Amici miei” e ho capito quanto si divertissero a creare insieme e a condividere la contrapposizione all’ambiente borghese oppressivo».
C’era anche Grillo?
«No, agli spettacolini c’era suo fratello Andrea, che era un po’ più grande. Ma Beppe, anche lui di casa, mi ha visto praticamente nascere. Cominciava ad avere successo con quella sua parlata alla Govi e stava affinando una comicità studiata, tutta sua. Adesso c’è questa macchina del fango che lo vuole far passare per fascista».
Lei oggi è grillino?
«Sono grillino, ho votato per Grillo e lo rifarò. Con lui voglio dire basta a tutta questa gente inetta che ha rubato, ha diffuso sottocultura e ha ammazzato lo spirito delle persone tenendole in vita come fossero dei cactus. Questo vale per la sinistra, dove ora è arrivato questo signor Renzi che è già una delusione, e per la destra dove Berlusconi, che pure rispetto perché ha la capacità di essere teatrale, ha steso l’Italia a tette e culi. Ci voleva gente così per distruggere i nostri figli, per creargli idee su che cosa fare nella vita...».
Si riferisce a sua figlia Francesca che ha partecipato a “L’Isola dei famosi”?
«È una ragazza un po’ ribelle per natura. Ha preteso di fare “L’isola”, e va bene, anche se ho dovuto lasciare la mia pagina Facebook per sfuggire a tutti quei moralisti di merda che scrivevano: “Tua figlia sta sputtanando Fabrizio”. Poi ha voluto posare per la copertina di “Playboy” e le ho detto: “Guarda che ti bruci!”. Avevo ragione perché quello che ha fatto non le è servito a emergere. Ma è intelligente, canta bene e io la sto aiutando per un disco. Penso invece a tutte quelle ragazzine sprovvedute disposte a tutto per dieci minuti di “Colorado Caffè”. Anche le prostitute sono cambiate dai tempi di mio padre».
Non sono più come Bocca di rosa?.
«Sono molte diverse. Allora lo facevano per mangiare, oggi ragazzine di 15 anni vanno a fare dei servizietti a un settantenne per comprarsi le scarpette di Prada, che il padre chirurgo non vuole comprare. Escono da lì e cancellano il senso di colpa, che sarà pure cattolico, ma almeno fa da argine».
Ha altri tre figli, due dei quali adulti. Ritiene di essere stato un buon genitore?
«No, sono stato un padre assente per loro come il mio lo è stato per me. Lui era un uomo fragile che mi aveva avuto a vent’anni. Ma anch’io sono diventato padre a soli 24 anni di quella meravigliosa ragazza che si chiama Fabrizia e che brutte campagne di stampa hanno cercato di mettermi contro. Invece i miei figli sono venuti anche a Sanremo e mi sono sempre stati vicini».
Lei più di una volta è finito nelle cronache per liti violente con una donna. Si è mai domandato il perché di questi scatti di rabbia?
«Va bene, è stato vergognoso, inaccettabile, è avvenuto in momenti in cui non dovevo giustificare niente a nessuno. Però non voglio neanche passare per un violento. Sono cose che accadono anche a persone supervalutate, registi, attori importanti. Pensi a Sean Penn per cui questi fatti sono all’ordine del giorno».
Siamo di nuovo a genio e sregolatezza. Pensa di aver imparato a governare questo sua aggressività?
«Il mio dolore è finito. Sto benissimo, ho conquistato la sicurezza di me e sono pieno di progetti per il futuro: un musical, un film e un libro».
Tutto insieme, Cristiano? Ha davvero preso la rincorsa...
«Perché no? Le ho già detto che sono felice? Il musical, che si chiamerà “La discarica delle occasioni perdute”, è dedicato all’amore e ho già contattato Gianna Nannini. Il film, di cui ho appena finito la sceneggiatura, racconta la storia di una donna in carriera che scopre il vuoto e l’inanità del successo. Il libro è la mia autobiografia. Ci ho messo tutto, finalmente».