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 2014  marzo 13 Giovedì calendario

SINISTRA MIA NON STAR SERENA

[Colloquio Con Emanuele Macaluso] –

Il primo giorno di primavera, il 21 marzo, saranno novanta, Emanuele Macaluso li festeggerà al Senato con l’amico di sempre, Giorgio Napolitano. Dirigente del Pci, capo della destra interna (i miglioristi), disciplinato ma libertario, fedele al partito ma con il gusto dell’anti-conformismo e dell’autonomia di pensiero, polemista fulminante, nella casa romana di Testaccio Em.Ma. ripercorre decenni di vita politica. Memoria di ferro, giudizi sferzanti: «Matteo Renzi? Vuole dare il cioccolatino a tutti, ma farà il botto». E previsioni: «Napolitano se ne andrà e questo Parlamento dovrà eleggere il suo successore: lì ti voglio».
L’infanzia a Caltanissetta, la famiglia operaia, l’Istituto minerario, il ricovero per tubercolosi, l’amicizia con Leonardo Sciascia, l’adesione al Pci nel 1941 («a convincermi fu un ragazzo più grande di me, Gino Giannone, mi venne a trovare nel sanatorio, tranne i miei genitori nessuno lo faceva, e mi disse: se vuoi fare una battaglia vera l’unica organizzazione è il Pci. Non conoscevo né Gramsci né Togliatti, divenni comunista per ribellione»), la Cgil («Con trentasei sindacalisti uccisi, la lotta alla mafia allora non si faceva a chiacchiere, dopo la strage di Portella della Ginestra del 1947 toccò a me il primo comizio, avevo 23 anni»). Infine, l’arrivo a Botteghe Oscure: «Nel 1956, in mezzo ai fatti di Ungheria, passai dalla Cgil al Pci. Mi trovai tra due fuochi, tra Giuseppe Di Vittorio e Palmiro Togliatti. Leggendo anni dopo i verbali della direzione in cui ci fu il loro durissimo scontro sull’invasione sovietica ho scoperto che nella stessa riunione Di Vittorio protestò perché ero stato spostato dal sindacato al partito. Nel ‘62 entrai nella segreteria».
Da chi era composta?
«Togliatti, Longo, Berlinguer, Amendola, Pajetta, Alicata, Natta e Ingrao. E poi c’ero io, il più giovane della compagnia».
Uno squadrone. Tipo l’Inter di Herrera.
«Longo era il numero due, Berlinguer era il responsabile dell’ufficio di segreteria, la gestione interna toccava a lui. Nasce lì il mio rapporto forte con Enrico, per quattro anni non c’è stato giorno in cui non siamo stati insieme, il nostro rapporto di amicizia e di fiducia andava oltre la politica. Raccontò solo a me e alla famiglia di aver subito un attentato in Bulgaria nel 1973. E anche quando fui in dissenso con lui mi chiese di fare il direttore dell’“Unità”. Napolitano era il presidente dei deputati, Gerardo Chiaromonte il capogruppo del Senato, anche loro avevano contrastato la sua ultima svolta. C’era un modo di concepire la lotta politica interna al partito che non è paragonabile a oggi».
Il Pci è stato un partito o una religione?
«Anni fa ebbi un bellissimo scambio con Montanelli. Il Pci è stato una Chiesa, mi scrisse, e anche tu sei stato un chierico. In parte era vero, più che una chiesa la consideravo una comunità, una mezza chiesa, in cui si facevano i conti sul piano politico e sui comportamenti privati».
Aveva trasgredito qualche precetto?
«Da giovane ero stato in carcere, condannato a sei mesi e mezzo per adulterio con la mia compagna Lina che era già sposata e con cui ho avuto i miei due figli. Una storia che non finì li. Anni dopo, ero deputato regionale, ebbi uno scontro violentissimo con la Dc sulla giunta Milazzo. I carabinieri dei servizi fecero un’inchiesta sulla mia famiglia, scoprirono che avevo registrato i miei bambini all’anagrafe come “figli di Emanuele Macaluso e di donna che non vuole essere riconosciuta”, allora non c’era il divorzio. Mi volevano condannare per alterazione dello stato civile, da otto a dodici anni di carcere, un giovane magistrato, Emanuele Curti Giardina, mi mise in guardia. Mi salvai perché la Cassazione con una sentenza che fece epoca annullò il reato. La Dc voleva liquidarmi con questi metodi. Quando sento parlare con nostalgia della Prima Repubblica ricordo che c’era una guerra politica che si svolgeva con armi proprie e armi improprie».
Nel Pci come fu presa la sua irregolarità?
«Nel primo caso fui accusato di avere una condotta non confacente, mi vietarono di partecipare al primo corso politico di formazione nazionale del Pci. Nel secondo, invece, fui difeso. Andai latitante a Modena, in Emilia, a casa di un contadino, Giorgio Amendola mi portò dall’avvocato Battaglia».
Nel Pci erano tutti con le carte in regola?
«Macchè! Togliatti fu costretto a chiedere al partito una commissione per decidere sulla sua convivenza con Nilde Jotti, Longo aveva lasciato Teresa Noce, quasi tutti i dirigenti erano nella stessa situazione, tranne Amendola che era molto intransigente. E il mio maestro Girolamo Li Causi: lui era stato mollato dalla moglie che si era messa con Riccardo Lombardi. Pertini s’indignava con me: “Come fai a essere amico di Lombardi che si è messo con la moglie di Li Causi mentre lui era in carcere?”. Io replicavo che Li Causi riteneva la cosa chiusa e aveva trovato al suo posto una ragazza bellissima... Ma nessuno nel gruppo dirigente faceva una battaglia aperta contro questo moralismo. Era lo specchio di un partito che era una comunità, una famiglia».
Cinquant’anni fa fu lei a organizzare i grandiosi funerali di Togliatti. Il Pd di Renzi dovrebbe celebrare il capo del Pci?
«Dovrebbero celebrarlo tutti quelli che difendono la Costituzione. Dovrebbe saperlo il professor Gustavo Zagrebelsky: non si può alzare quella bandiera e poi sputare su Togliatti. Senza Togliatti quella Costituzione non ci sarebbe stata».
Ci sarebbe stato il Pci?
«Sì, ci sarebbe stato un partito comunista in Italia, come in tutti i Paesi europei, ma che comunismo sarebbe stato? Con la svolta di Salerno Togliatti salvò l’Italia. Cambiò tutto: dalle occupazioni delle terre contro la legge alla lotta per l’applicazione della legge, dal ribellismo alla politica. Togliatti ha costruito una sinistra che pensa al governo».
I suoi eredi lo hanno esaudito...
«Eh, già... tranne il povero Occhetto sono tutti andati al governo, tutti ministri: D’Alema, Veltroni, Fassino, Livia Turco, Bassolino, Bersani, Mussi... ma senza un progetto, senza un orizzonte politico. La crisi della sinistra nasce da qui: quando il Pci era all’opposizione aveva un progetto di governo, quando il Pds-Ds-Pd è andato al governo non ha avuto più un progetto, una direzione. Togliatti voleva andare democraticamente e gradualmente verso il socialismo, sarà stato sbagliato, ma ora verso cosa si va? Verso niente! L’obiettivo di stare al governo è scisso totalmente da un’idea di società».
Quando è finito il Pci?
«Nel 1984, dopo la morte di Berlinguer, il Pci alle elezioni europee diventò il primo partito, io ero in tv a commentare, allora la Rai faceva sedere gli ospiti politici in ordine di grandezza, spostai la sedia e mi misi prima del dc Giovanni Galloni, feci io il sorpasso... Però è vero che in quel momento il Pci cominciò a declinare. Cambiò il gruppo dirigente, Natta promosse gli elementi più anti-socialisti della nuova generazione, i riformisti furono esclusi. Anche se fummo Napolitano, io e altri, nell’86, a inserire nelle tesi del congresso di Firenze la frase sul Pci “parte integrante della sinistra europea”».
Che effetto le fa vedere che il processo di adesione al Pse è stato concluso da Renzi?
«Alcuni amici mi dicono che Occhetto è incazzatissimo perché rivendica di essere lui tra i fondatori del Pse. Forse avete ragione, ho risposto, ma se non me ne sono accorto io, figuriamoci gli altri!».
Chi è Renzi nella storia della sinistra? Un intruso? Un invasore? O il risultato più compiuto della svolta dell’89, la Bolognina?
«Quando nel 2007 è nato il Pd con la Margherita dissi che eravamo al capolinea. Il Pd è stata un’operazione rovesciata rispetto alla storia complessa della sinistra europea. E ora Renzi è l’espressione più radicale dei tratti distintivi della Seconda Repubblica: il prevalere dell’immagine mediatica e della comunicazione sul progetto. Mi sono stropicciato gli occhi quando ho visto Renzi baciarsi e abbracciarsi con Landini dopo averlo fatto con i finanzieri della City. Mi è venuto in mente Alcide De Gasperi che governava con il sindacato e con la Confindustria, l’interclassismo...».
Gli fa un complimento enorme!
«Ma no! Quello di Renzi è una caricatura, è l’interclassismo del cioccolatino: uno a Landini e uno a Squinzi. Arrivato a novant’anni, confesso, ho un’angoscia: se fallisce Renzi dopo di lui cosa c’è?».
Angoscia condivisa. Cosa si risponde?
«Che non c’è niente. La mia preoccupazione è che Renzi andrà a fare il botto, come si dice in Sicilia. Fa un grande gioco, sta con Landini e con Squinzi, con Berlusconi e con Alfano e con la sinistra del Pd. Ritiene che il suo carisma gli consentirà una manovra a maglie così larghe da portargli rapidamente i risultati. Perché appena dovesse mostrarsi una difficoltà lui andrà alle elezioni. Dirà: non mi fanno fare le cose, con questi non posso lavorare, andiamo al voto. Per questo ha cominciato con la legge elettorale».
Su cui si sono già aperte le prime crepe...
«Renzi si sta già accorgendo che le cose sono più complicate. Il voto sulle quote rosa sull’Italicum è stato un segnale. Ma il punto nodale della legge elettorale è la preferenza. La preferenza è la rivoluzione che rompe il berlusconismo, il grillismo. E anche il renzismo».
Rino Formica scrive che è in corso un golpe della coppia Br (Berlusconi-Renzi) per stravolgere la Costituzione e sostituire Napolitano al Quirinale. Fantapolitica?
«Formica non dice mai fantasie. Quando denuncia l’abolizione di organi costituzionali con l’articolo 138 fa una critica intelligente, ha ragione. Vogliono abolire il Senato? E allora perché non anche la Camera? E perché non sottrarre, almeno in linea teorica, la sovranità popolare?».
Lei è uno dei più cari amici di Napolitano: firmerà questa legge elettorale?
«Come ha detto lui, la valuterà con attenzione».
Cosa è cambiato per Napolitano con Renzi al governo?
«Dopo la crisi del berlusconismo il presidente ha puntato su Mario Monti per ristabilire il rapporto con l’Europa. Ma con le elezioni Monti ha fatto la coglionata più colossale che la storia politica repubblicana ricordi, invece di fare l’uomo delle istituzioni è andato a fare un partitino con alcuni residuati bellici. Poi c’è stata la rielezione, con Bersani e Berlusconi che andarono a chiedere in ginocchio al presidente di restare. Lui aveva già organizzato il suo ufficio in Senato, la sua casa nel quartiere Monti, aveva perfino scelto i suoi collaboratori. E invece è stato costretto a restare e ha scelto Enrico Letta per la guida del governo. Letta si è dimostrato un po’ lento, ma è una delle poche personalità che ha il senso della complessità del governo. E dopo le primarie è scattata l’opposizione vera, non era quella di Berlusconi ma di Renzi. La crisi è stata decisa dalla guerriglia nel Pd. Napolitano ha preso atto delle dimissioni obbligate di Letta, non poteva fare altro. Con Monti e Letta c’erano governi originati da una crisi in cui il presidente era stato obbligato ad avere un ruolo. Con Renzi non è più così. Cambia la ragione sociale per cui rimane al suo posto».
Fino a quando resterà?
«Resta al Quirinale perché vuole che si faccia la riforma elettorale. Ma ritengo che manterrà fede a quello che ha detto in Parlamento al momento della rielezione. Approvata la legge elettorale Napolitano farà un ragionamento, ricorderà che a tutto pensava tranne che a un secondo mandato, che ha cercato di sanare una situazione di crisi e di paralisi istituzionale, che c’era un tempo di diciotto mesi per fare le riforme. Se ne andrà prima. E questo Parlamento dovrà eleggere il suo successore: lì ti voglio».
Di Amendola, citando Sciascia, lei ha scritto: «Contraddisse, e si contraddì». Si può dire anche di lei?
«La contraddizione è nella persona. Chi ritiene di essere sempre stato coerente lo considero un ipocrita. E io mi sono contraddetto più volte».