Claudio Lindner, L’Espresso 13/3/2014, 13 marzo 2014
QUELLI CHE L’EURO NO
Togliersi un po’ di eurini dalle scarpe è diventata la tentazione dominante. Tra gli italiani e tra gli europei. Più a destra che a sinistra. Più al Sud che al Nord. Più urlata che ragionata. Ma anche più appassionata, questa tentazione, di quanto sia l’imperturbabilità degli euroconvinti. Che la rabbia stia montando anche in Italia lo dimostra il sondaggio esclusivo di Demopolis che pubblichiamo in queste pagine: un terzo degli italiani si pronuncia a favore dell’uscita dall’euro, per il ritorno alla lira. Nel 2012 erano il 21 per cento. Nel 2008, l’anno che finì con il tracollo finanziario, il 12 per cento. Il boom è sorprendente e preoccupante per gli effetti che può provocare.
L’austerità imposta dai Paesi ricchi ai paesi poveri d’Europa, per la verità con la complicità dei secondi che non sono riusciti a mettere i conti a posto, produce risentimento soprattutto tra coloro che il loro dovere, per esempio pagare le tasse, lo fanno. D’altra parte, chi propone ricette alternative ottiene poco ascolto a Bruxelles, dove parametri e criteri formali prevalgono sulla solidarietà e quindi su una maggiore unione politica dei Paesi. Ovunque in Europa il populismo e il nazionalismo anti-euro prosperano, così che alla fine il governo dell’Europa sarà certamente frutto di larghe intese (anche qui e ancora una volta) tra il Partito socialista europeo e il Partito popolare europeo, che il 25 maggio si spartiranno gran parte dei seggi nell’Europarlamento e le principali cariche istituzionali. Un patto obbligato.
EURO STAI SERENO
I partiti che vorrebbero tornare alle monete nazionali, puntando sul malcontento diffuso, vengono dati in crescita rispetto alle forze tradizionali. L’ultimo dato in ordine di tempo, certo maldigerito dal premier britannico David Cameron, è quello pubblicato lunedì 10 marzo secondo cui l’Ukip, partito indipendentista di Nigel Farage, ferocemente antieuropeo (non sono neppure nella moneta unica), sarebbe attorno al 20 per cento ma col 30 per cento degli inglesi che ne condividono alcune battaglie. In Francia Marine Le Pen col Fronte nazionale creato dal padre Jean-Marie è in grado di scavalcare Ump e socialisti di Hollande. Stessa ambizione ce l’ha l’olandese Geert Wilders mentre gli ungheresi sono addirittura governati da un partito di estrema destra anti-tutto.
In Germania la Corte costituzionale ha appena decretato l’abbattimento del muro del 3 per cento per andare a Strasburgo (la soglia minima del 5 per cento resta per le elezioni nazionali) aprendo un viatico a partiti minori e particolarmente aggressivi. Se il debutto di Alternative fuer Deutschland, quello che propugna l’uscita della Germania dall’euro, è dato per scontato visto che alle politiche aveva sfiorato il 5 per cento, la vera sorpresa potrebbe essere l’arrivo anche di uno o due nazisti della Npd.
L’ultimo PollWatch2014 prevede, per la supremazia nell’Europarlamento, un testa a testa tra il Pse di Martin Schulz (209 seggi) e il Ppe di Jean-Claude Juncker (202), un calo per i liberal-radicali e i verdi a fronte di un successo della sinistra estrema tipo Lista Tsipras che diventerebbe il terzo gruppo. Più confuso è il panorama all’estrema destra, dove i partiti in forte ascesa potrebbero però dividersi poi vari nei gruppi parlamentari europei.
L’ASSE LEGA-GRILLO
«Sveglia alle 5, si vola a Strasburgo, a difenderci da Euro Criminali» è uno dei tanti tweet di Matteo Salvini, impegnatissimo a far saltare il banco. Sua l’idea del “Basta euro” tour, curato dall’economista della Cattolica, Claudio Borghi Aquilini. Prima tappa a Firenze, poi Milano, con un migliaio di presenti, il 15 marzo a Torino, poi il Nord-est per spiegare “come uscire dall’incubo”. Ai presenti viene distribuito un manuale con 31 domande e 31 risposte, una trentina di pagine, grafici, vignette, sciocchezzaio altrui, linguaggio diretto. L’Europa vende le nostre vite. Solo i cretini possono dire che l’euro va bene così com’è. Beati svizzeri, inglesi e norvegesi, quelli senza moneta unica. La Padania con la lira era nella stessa posizione di vantaggio che la Germania ha adesso con l’euro. Conquistata la sovranità monetaria si potrebbe pensare a due monete diverse per il Nord e il Sud d’Italia. E tornare alla moneta nazionale (lira, scudo, fiorino o euroitalia) è facile: basta convertirla 1 a 1 con l’Euro, perché così non ci sarebbero problemi per fare i conti. Poi dopo la conversione, dicono Borghi e Salvini, quello che la nuova moneta varrà nei confronti delle altre monete lo deciderà il mercato, ma a noi a quel punto interesserà poco, come oggi non ci interessa quanto valga l’euro rispetto al dollaro.
Se il messaggio della Lega è esplicito, quello dei grillini risulta simile ma più confuso. Tant’è che tra le Euro-sciocchezze segnalate nel manuale Salvini ne include una di Beppe Grillo («Non ho mai detto che bisogna uscire dall’euro», 22 settembre 2012) e una di Gianroberto Casaleggio («Se usciamo dall’euro non risolviamo il problema», 23 maggio 2013), oltre naturalmente a quelle di Renzi, Prodi, Monti e Draghi. Più scontate. Nelle ultime settimane il vento è un po’ cambiato. L’astuto Grillo, già in campagna elettorale e sempre bravo a cogliere umori e mal di pancia, sta forzando su alcuni temi con timbro leghista. Prima invoca le macroregioni, come la Repubblica di Venezia o il Regno delle due Sicilie, poi mutua sul blog il linguaggio leghista sul “Fiscal compact che ammazza l’Italia”, tra l’altro «la solita parola inglese che dà spessore intellettuale a chi la usa e che non fa capire di che si tratta». Conclusione: il M5S lo cancellerà (s’intende il fiscal compact, o che dir si voglia).
Grillo come Salvini. Anche lui lancia il tour “Te la do io l’Europa”. Si comincia a Catania il primo aprile, il 7 a Milano e 14 al Lottomatica di Roma. Qui però si paga. In euro. Tra i 20 e i 33 in base al posto. Una performance sul «mostro che si aggira per l’Europa: si chiama euro, chi lo ha frequentato è finito spesso in miseria».
Tempo fa il leader dei Cinquestelle ha proposto un referendum tra gli italiani per decidere se restare o uscire dall’euro. In un post recentissimo (11 marzo) prende le difese degli eurobond, i titoli del debito pubblico dei Paesi dell’eurozona, emessi dalla Bce, la cui solvibilità sia garantita da tutti i Paesi. Quelli che la Merkel non vuole. L’eurobond (un dubbio: ma non è anche questo un termine che dà spessore intellettuale e non si capisce...) è la soluzione per non uscire dall’euro. «La Germania non li vuole?», si chiede Grillo,«esca lei dall’euro». I pentastellati, sicuramente euroscettici, appaiono però altalenanti tra il rifiuto totale della moneta unica e una lotta dura alla politica di austerità nell’ambito però del sistema esistente.
Incertezza e confusione che rispecchiano bene quello che pensano gli elettori. Secondo il sondaggio Demopolis, infatti, i M5S sono al 45 per cento favorevoli all’uscita dell’Italia dell’euro. Si tratta della percentuale più alta tra i partiti principali, ma è anche vero che sembrano quasi spaccati in due i simpatizzanti di Grillo, cosa che rende più complicato prendere una posizione netta e definitiva. Un discorso analogo potrebbe valere addirittura per Silvio Berlusconi, almeno a leggere la ricerca dell’istituto guidato da Pietro Vento: ben il 41 per cento degli elettori di Forza Italia sostiene di voler uscire dall’euro. Alla destra del Cavaliere ci sono infine i no-euro di Fratelli d’Italia capitanati da Giorgia Meloni e Ignazio La Russa, che si apprestano a fare in questa direzione la campagna elettorale per le europee del 25 maggio.
NUOVI GURU
Fino a poco tempo fa l’uscita dall’euro era considerato argomento tabù. È vero, molti economisti americani anche premi Nobel, hanno espresso scetticismo sulla moneta unica, ma da quella parte dell’Oceano non poteva stupire. Ora il gruppo si allarga. Hanno fatto molto discutere in Francia le tesi di François Heisbourg, autore del saggio “La fin du rêve européen», la fine del sogno europeo, non tradotto ancora in italiano, nel quale si sostiene che l’Unione europea in senso politico si può salvare solo abbandonando l’euro. Qualche settimana fa era a Milano invitato da Ernesto Preatoni, ex scalatore di banche negli anni Ottanta («Cuccia mi chiamava sovversivo», gli piace ricordare), inventore al momento poco fortunato di Sharm El Sheikh e ora preso dal fuoco sacro anti-euro, con frequenti comparsate televisive su tutti i canali. «I giornalisti hanno in larga parte un pregiudizio pro-euro», sostiene il finanziere, che esprime quattro certezze. Primo, tra trent’anni nessuno avrà più dubbi sul fatto che l’euro sia stato un errore. Secondo, un’uscita ben programmata ci consentirebbe di svalutare un debito pubblico ormai insostenibile e di far ripartire il mercato interno attraverso un’inflazione programmata. Terzo, l’inflazione stessa, come dimostrano i casi di Giappone e Usa, non è uno spauracchio. Quarto, proprio con la moneta unica si rischia invece il baratro di un’inflazione incontrollata. Preatoni ha avviato un club di discussione “Un’Europa diversa” e al primo dibattito, assieme a Heisbourg, erano presenti Paolo Savona e Giuliano Urbani. Sostiene però di non avere un colore politico e quindi di non voler essere strumentalizzato.
Due economisti diciamo “dissidenti” e spesso interpellati sono Alberto Bagnai ed Emiliano Brancaccio. Il primo insegna a Pescara, tiene il blog “Goofynomics”, scrive sul “Fatto quotidiano” ed è autore di “Il tramonto dell’euro”, nel quale si spiegano gli errori fatti e si prefigura un percorso di uscita dalla moneta unica che salverebbe democrazia e benessere in Europa. Il secondo insegna all’università del Sannio, ha scritto il pamphlet “ L’austerità è di destra” ed è stato cofirmatario di un manifesto apparso sul “Financial Times” nel settembre dello scorso anno nel quale si avverte che affidando il riequilibrio dell’Europa alle sole riforme strutturali, il destino dell’euro sarà segnato e l’esperienza della moneta unica si esaurirà con ripercussioni sulla tenuta del mercato unico. «Occorre tenere presente che, qualora saltasse il sistema, esistono modalità alternative di uscita dall’eurozona: una gattopardesca, di stampo liberista e liberoscambista, che si limiterebbe ad affidare i tassi di cambio al gioco erratico delle forze del mercato». E una seconda, che si potrebbe chiamare “di sinistra”, definibileanche statuale e protezionista, per mettere in discussione il mercato unico, ipotizzare la nazionalizzazione del sistema bancario, e mirare soprattutto a salvaguardare le retribuzioni dei lavoratori dipendenti.
CAMBIO DI PASSO
Il sondaggio Demopolis, al di là dei pasdaran anti-euro rivela comunque uno scetticismo molto diffuso. Per il 58 per cento degli italiani l’abbandono della lira è stato negativo e per il 51 per cento l’Unione europea tutela di più i mercati e gli equilibri finanziari piuttosto che i cittadini. «C’è esattamente questo alla base del malcontento nel Nordest», conferma Giuseppe Bortolussi della Cgia di Mestre, «abbondanza di normative Ue, eccessi burocratici su regole imposte che valgono tanto per aziende con 50 o cento dipendenti quanto per chi ne ha solo tre. Il piccolo imprenditore veneto va poi in Austria e Germania e vede autostrade e asili nido gratis. E si chiede: perché da noi no? Perché io pago?».
Ma si può anche cambiare idea. Come accaduto all’italiano più famoso e potente nel mondo. Un superpaladino dell’euro che con i suoi interventi ha dato una scossa alla crisi e si è preso applausi da tutti, persino da Angela Merkel. Indirettamente ha aiutato il nostro spread nei confronti dei tedeschi. Si chiama Mario Draghi. Non fu sempre così. Da laureando, nel 1970, scrisse una tesi critica sulla moneta unica, relatore Federico Caffè. Dimostrò che sarebbe stata una missione quasi impossibile: 110 e lode. Poi andò in America per continuare gli studi. E si convertì.