Francesco Pacifico, IL marzo 2013, 13 marzo 2014
INTERVISTA A FRANCESCO DE GREGORI
Per telefono, prendendo appuntamento per pranzo, mi ha chiesto che genere di intervista volessi fare. Gli ho detto che volevo solo fargli domande sul suo lavoro e non gli avrei chiesto le sue opinioni sul mondo. Ha risposto: “Ah bene, ecco, così mi avevano anticipato”, preferisce anche lui così.
Pranzo in un ristorante nel quartiere Prati, a Roma, diluvia, macchina in seconda fila, sala fumatori, pesce al forno. Francesco De Gregori è una specie di ragazzo molto romano dall’aria leggera, maglia a maniche lunghe, sigarette francesi, barbetta. Prima di cominciare parla molto del mestiere di scrittore e di cos’è la poesia e delle tecniche di scrittura del poeta Valerio Magrelli, suo amico. Fa molte domande; sono state espunte.
Componi alla chitarra?
Mmm no compongo anche molto al pianoforte però quando sto in giro mi lamento che in camerino non c’è l’ho quasi mai quindi compongo con la chitarra, però a casa con il pianoforte…
Ma come è organizzata casa tua? È uno spazio dedicato?
A casa mia c’è una tastiera elettronica che simula il pianoforte perché non c’è spazio per un pianoforte, poi ho un posto con un pianoforte vero vicino casa, dove vado proprio lì nel momento più disciplinato, quando sono molto avanti col lavoro di una canzone ma anche di due o tre e ho bisogno di uno strumento che mi dia anche una gratificazione sonora…
Ma è una sala?
No no, è una casa, è una casa… una specie di studio-ufficio a casa. Ma niente di tecnologico, ci sono solo un pianoforte e qualche chitarra in più. I testi li scrivo a casa. Io scrivo con la macchina da scrivere. Prima scrivo a mano, queste idee vanno su pezzi di carta sparsi, poi i più meritevoli finiscono dentro una cartella, con il titolo provvisorio dell’eventuale canzone. Quando la cosa prende una sua forma, quando riesco ad avere una sintesi di tutto questo dal punto di vista del testo, avendo comunque già un’idea di musica su quello che questo testo, allora passiamo alla fase più disciplinata che è quella che chiama in causa la macchina da scrivere perché mi piace vedere la bella copia. Però ti dico la macchina da scrivere e non il computer perché con la macchina da scrivere premere un tasto significa assumersi una responsabilità, perché non cancelli, è subito lì. Se devi scegliere un aggettivo non è che lo scrivi e dici tanto poi lo cambio, ci pensi un minuto?, no anche troppo, trenta secondi? Però ci pensi…
Quando hai detto cartella io stavo pensando spontaneamente a cartella del computer invece no, una cartellina.
No no, una cartellina di quelle che si comprano da Vertecchi… Questo appartiene un po’ alla mia cultura cartacea: sul computer, io non sopporto che a volte non risponda, perché sai i computer a volte fanno cose strane. Allora io preferisco incazzarmi perché fisicamente non trovo dove ho messo la cartella, se l’ho poggiata su quel ripiano lì o su quell’altro piuttosto che incazzarmi con il computer perché non mi si apre la cartella. Però quello fa anche parte del mio essere un uomo del Novecento.
Quando non hai una penna ti capita di dire a mente, ripetere una cosa per non dimenticartela?
Se non ho una penna se ne va… Però sono anche convinto che se la cosa merita di essere dimenticata viene dimenticata, se la cosa deve essere ricordata riaffiora. Forse lo dico per consolarmi, però a volte mi tornano in mente delle cose che ricordo di aver pensato un anno prima, e dico “vedi, era questo”… [fa una smorfia, per dire che era brutto, NdR] Però ovviamente non posso sapere di quelle che non mi tornano in mente, quindi… Ma con la testa pratichi una specie di selezione naturale, virtuosa… Penso proprio di sì, perché le cose veramente belle che mi vengono in mente hanno un peso e tendono a tornare, sono convinto di questo.
Tu hai un’idea quando scrivi di essere troppo te stesso e ti infastidisci? Sai, lo stile, la cosa “alla De Gregori”…
Ah no me ne frego, se la cosa è uscita così… De Gregori sono io e mi prendo le responsabilità. Sì lo so, c’ho uno stile o anche dei vizi letterari e musicali, me li tengo. Fammici pensare, aspetta… A volte dico ai miei musicisti mentre stiamo suonando “questa cosa è troppo da cantautore”, forse questo che intendi sì, quello sì… è troppo da cantautore, questo mi capita spesso di dirlo…
E come descriveresti la cosa “troppo da cantautore”?
Possiamo dire le parole non si mescolano abbastanza col suono: la parola tende ad essere enfatica rispetto a quella che è la dimensione della canzone. Io considero la canzone qualcosa di molto popolare e easy, mentre l’immagine del cantautore, che pure io ho incarnato e incarno, non voglio spogliarmi di questo, viene identificata spesso come un artista che vuole tirare molto il tessuto della canzone per farla diventare qualcosa di più nobile…
Quindi troppi accenti, troppe…
Troppa importanza, troppa autoreferenzialità, forse, troppo voler dire “guardate come scrivo bene, guardate che bell’aggettivo è questo”, queste cose qua…
Nel tuo suono dal vivo degli ultimi anni la voce scompare molto nel sound, canti cercando poco di far emergere la voce, ogni tanto dài i tuoi accenti, quelli tuoi insomma…
Sì, sì, quelli degregoriani insomma… però ecco, detesto il fatto che ci sia un cantante che sta sopra una base musicale e che, capito, declama la sua… il suo essere un piccolo Omero dentro una situazione che non lo rappresenta abbastanza perché la canzone troppo sommato è troppo povera. Ecco io questo non l’ho mai pensato. Sembra una falsa modestia, in realtà è esattamente il contrario: è la rivendicazione dell’importanza della canzone come forma d’arte, come forma espressiva autonoma che non va imparentata né alla poesia né a qualsiasi altra forma, la rivendicazione dell’autonomia dell’arte che pratico… e non suo la parola arte a caso, né per elevare: è un’arte, come le altre.
Parliamo della voce. Tu parti da Dylan, e da Leonard Cohen diciamo no. Io poi Leonard Cohen lo associo più a De André e Dylan a te. Tu eri più zompettante.
Come timbro di voce sicuramente, perché la voce di Leonard Cohen io non ce l’ho, De André un pochino riusciva, faceva delle note basse importanti. Infatti a me piaceva molto quando cantava così all’inizio. Sai che la moglie di De André – non Dori Ghezzi, la moglie storica – disse una volta una cosa divertentissima. Si riferiva al periodo in cui io avevo lavorato con Fabrizio per scrivere un album insieme, e lei era venuta a trovarci all’inizio di questo lavoro e poi è tornata alla fine, dopo un mese… In Sardegna, in una casa di Fabrizio in Sardegna. E lei a distanza di anni disse: “Lasciai De Gregori e De André che erano De Gregori e De André, poi alla fine De André cantava come De Gregori”. E lui non era attratto da me, quanto dai miei maestri: da Dylan. Dylan glielo feci un po’ conoscere io; lui conosceva il mondo francese, quindi conosceva Cohen perché essendo canadese veniva da là; però Dylan lo guardava un po’ con sospetto. Credo di avergli rotto le scatole per un mese con Dylan, gli feci sentire tutto… il motivo per cui c’eravamo incontrati era che lui aveva sentito “Desolation Row” fatta da me, la voleva rifare, quindi poi la traducemmo insieme. Addirittura io partecipai alla session dove venne registrata, quindi mi chiamò a Milano per suonare la chitarra e l’armonica su “Desolation Row”. Lui era molto forte con queste note basse, impressionanti. Un po’ lasciò perdere perché si lascio affascinare dal canto.
(Torniamo a parlare del problema “cantautore”.)
Sì c’è questo equivoco che il cantautore…
Ma come si è formato questo equivoco?
Verso l’inizio degli anni 70… Fin lì, levati alcuni esempi fantastici tipo Gino Paoli o Endrigo, il mondo della musica leggera era fatto di autori e di interpreti, c’erano i grandi autori di canzoni, i grandi parolieri, poi c’erano gli interpreti che potevano essere Iva Zanicchi, Caterina Caselli, o Mina. E poi c’era una pattuglia di autori che andavano da Pallavicini, a Mogol. C’era poi Paoli, De André che era poco conosciuto: alcuni che venivano definiti cantautori. Paoli veniva identificato con un ruolo abbastanza lugubre, sempre con gli occhiali da sole, esistenzialista, cultura francese… Però con me e Bennato e Venditti e Baglioni, coevi proprio come nascita, improvvisamente i cantautori diventano la parte dominante del mercato e dell’attenzione. Prima dell’attenzione del pubblico giovanile, poi del mercato. Quindi si forma una categoria di cantautori, che sono la musica emergente italiana, e in quel momento proprio si volta pagina: la musica leggera italiana volta pagina. Per questo i cantautori poi diventano un simbolo. Infatti ogni mio coetaneo, nel ‘71, nel ’72, voleva suonare la chitarra ed esprimersi attraverso la scrittura di una canzone, e questo lo facevano tantissimi. Ci fu una fioritura di cantautori e il pubblico giovanile era attratto dai cantautori come oggi sono attratti dall’hip hop o dal rap, dal fenomeno musicale e culturale che sembrava più diretto e girava pagina con il mondo di Iva Zanicchi, di Gianni Morandi, di Caterina Caselli… E improvvisamente divennero appartenenti al passato musicale. Questo non vuol dire che prima non esistessero i cantautori: ti ho detto Paoli ma potevo dire Modugno, in qualche modo Battisti. Anche se non si scriveva le parole, più ci penso e più sono convinto che Battisti sia stato il più grande cantautore, nel senso che la sua parte autorale nelle cose che faceva – anche se poi c’era Mogol di mezzo – è predominante. È stato un autore che ha sparigliato.
E per quanto riguarda l’artigianato del cantare, lo stile di canto, come cambiavano le regole i cantautori? Voi non studiavate canto.
Guarda, all’inizio non sapendo cantare tranne alcuni che cantavano bene o per grande forza naturale, un talento innato. Nel mio caso io non sapevo cantare: ora ho trovato il mio modo ma allora ero legato alle cose che cantavo, al testo…
Le influenze di Baglioni, di Venditti, quali erano?
Ti dico Antonello perché Baglioni lo conoscevo poco, lo frequentavo poco. Credo per Antonello Elton John, per quella parte pianistica. Credo che me l’abbia fatto sentire lui… “Your Song”… Ma poi le influenze erano comuni, lì era il periodo della West Coast, Crosby Stills & Nash.
Neil Young, tu…?
Be’ insieme a Dylan uno dei più grandi. È uscita o sta per uscire una sua autobiografia.
Dicono che è abbastanza delirante.
Sì, me l’hanno detto: i primi tre capitoli parlano di trenini elettrici perché lui è un amante dei trenini elettrici.
Quando vi siete affermati, com’era il rapporto con l’estero? Era una cosa così basata sull’italiano… Andavate a suonare fuori?
No, no, nessuno di noi in particolare.
Vi capitava di incontrare musicisti stranieri, di scambiare…
Non musicisti famosi, però in quel periodo facevano tutti i dischi all’RCA, sulla via Tiburtina, e c’era una specie di consorteria inglese che stazionava lì, che erano musicisti molto bravi, ti dico i nomi: Derek Wilson, Dave Summer, Douglas Meakin… Erano venuti in Italia presso Mal, erano buona parte dell’entourage dei Primitives, e poi si erano stanziati all’RCA, erano credo stipendiati dall’RCA, facevano da home band e suonarono sia per i provini che in certi casi per i dischi, un po’ per tutti noi, quindi ci fu una specie di scuola estera tecnica che fu importante, ecco. Anche molti turnisti italiani impararono molte cose da questi inglesi, che sapevano in effetti suonare meglio di noi la musica che noi volevamo fare, il rock, è qui il concetto… Derek Wilson era un batterista che ha cambiato il modo di suonare di molti batteristi italiani. Antonello ancora credo che lavori con Derek alla batteria…
Mi ricordo, questo è qualche anno dopo, quando Lou Reed era già famoso, aveva già fatto Walk On The Wild Side. Venne a fare un concerto a Roma… forse ‘75… e venne a fare delle prove della sua band dentro lo studio dell’RCA, e noi chiaramente sapevamo che doveva venire lui, puoi capire, eravamo in fibrillazione. E io riuscii a vedere un po’ di questa prova perché mi intrufolai in regia per non farmi vedere perché lui era incazzoso e non voleva nessuno, giustamente. Assistetti a un po’ di queste prove.
E c’era qualcosa da imparare dal suo atteggiamento in studio?
Mah, il suo atteggiamento in studio non so quale fosse, non lo notai più di tanto, però la potenza di suono che emetteva con la sola sua chitarra era impressionante…
Questa è una cosa che mi ha sempre colpito, come suona la chitarra…
Lui c’ha un suono molto curato, passa ore a guardarsi tutto, mettere a punto il suono, prima di fare l’accordo e questo era impressionante, allora io lì capii, capimmo un po’ tutti la differenza di suono. E noi cercavamo di avere un suono americano, più americano che inglese, e credevamo che fosse un problema di tecnica, di strumentazione tecnica, di compressori, di mixer, di microfoni… Lì capimmo che invece no: questo stava usando il nostro stesso materiale però faceva così e veniva fuori qualcosa che noi avremmo tanto desiderato possedere…
Quindi comunque voi volevate importare delle cose, però poi avete creato una cosa completamente diversa.
Be’, sì, come sempre succede: prelevi, fai dei prelievi e poi chiaramente nelle tue mani diventano una cosa terza, vale anche per la letteratura, la pittura…
Mi interessa sapere com’è entrato nella tua musica quel suono più solare, che sembra un po’ tutto una crociera, al di là del fatto di Titanic voglio dire.
Sai cos’è, forse a un certo punto io, sempre con questa smania di non essere il cantautore che ero, ho cercato di dare una ritmica più importante ai miei pezzi perché io sono partito con la chitarra facendo fingerpicking, una linea melodica che non aveva bisogno di grandi lineamenti ritmici dietro tant’è che quando doveva suonarla un batterista non sapeva esattamente cosa fare… Quindi poi in questa ricerca ritmica sono andato a cercare le cose più appariscenti, che vanno dal calipso alla rumba… Quelli sono i movimenti ritmici che a un certo punto ho detto vabbè, tutto sommato questi reggono anche un testo molto narrativo, molto più del rock in sé e per sé. Adesso non ti so spiegare tecnicamente però se assumi come rock in sé e per sé i Rolling Stones, per dire, su quel tipo di ritmica, la ritmica di “Satisfaction” scrivere un testo italiano è ridicolo, senza cadere in tronche… mentre invece queste ritmiche che sti stavo dicendo io, derivate da qualcosa di europeo, c’è qualcosa di… reggono anche il testo di una canzone come Titanic che è una lunghissima litania, senza molte tronche, non troppe per lo meno, e riescono ad avere una scansione ritmica importante, quindi forse quello…
Anche “Caterina”… Quali sono stati i primi pezzi che hai fatto in questo… te lo ricordi?
Titanic…
Lì hai dovuto cercare musicisti però che sapessero fare queste cose… cioè…
Ma lì imparavamo un po’ tutti insieme. Mi ricordo che alla fine però, ecco, arrivò un batterista inglese a finire il lavoro, avevamo registrato tutto ma non mi piaceva la parte della batteria… E alla fine venne un batterista punk, Chris Whitten, ragazzo giovanissimo: appena lo vidi mi fece paura, aveva un’enorme cresta in testa, un vero mercenario. Però insomma avevo sentito come suonava e mi piaceva. E nonostante il suo aspetto si mise a suonare queste cose con un amore e una professionalità unica e finì tutto il lavoro in due giorni. Risuonò la batteria sui pezzi dove avevano già suonato con la batteria e non andava bene e rifacemmo tutte le batterie…
E Bufalo Bill invece è di metà anni ’70… 76? C’era Ivan Graziani…
C’è sul disco perché io ricordo che Ivan suonava con noi spesso ma in session improvvisate come spesso succedeva all’RCA. Ti dicevo, c’erano questi turnisti che stazionavano là, in realtà stazionavamo tutti lì, però dovresti capire cos’era l’RCA allora: era da una parte un grande ministero, con uffici e vari parti, la promozione il marketing creativo… All’altezza dell’uscita del grande raccordo naturale, molto facile da raggiungere…
La vostra Highway 61… La Tiburtina poi era una zona industriale, un po’ sbrindellata…
Sì, era una zona industriale e infatti c’erano questi capannoni, no capannoni, erano edifici belli ma erano in mezzo alle fabbriche, c’era anche la fabbrica dei dischi, lì si stampavano i dischi… C’erano i magazzini e la stampa dei dischi… Poi gli uffici che ti ho detto e gli studi. Gli studi erano aperti, e ce n’erano tanti: c’erano quattro studi enormi dove si poteva registrare anche la grande orchestra, e c’erano altrettanti o forse sei studi medio piccoli che spesso erano vuoti perché non c’era tanto da fare, non si facevano tanti dischi come oggi, la produzione dei dischi in Italia era molto fievole… senonché, siccome comunque i fonici erano stipendiati…
E anche voi eravate stipendiati?
Stipendiati noi no… però erano stipendiati i fonici e molti dei turnisti per intenderci… il che faceva sì che la società senza aggravi di spesa poteva tranquillamente concedere a tutti noi artisti, artistoidi, artistucci che giravamo lì, la possibilità di suonare dentro lo studio e lavorare…
Poi suonavi con gente brava…
Sì, poi c’era un enorme bar, dove si passavano le ore in serenità e letizia…
Quindi tu verso che ora andavi?
Ma io anche la mattina perché non avevo veramente niente da fare. Sapevo che lì avrei incontrato amici, gente simpatica… Andavamo a mangiarci qualcosa sulla Tiburtina, questi ristoranti sai da camionisti che c’erano… Quindi si stava lì e si passava il tempo lì e si diceva “Sai c’ho un’idea, senti questo pezzo”… E quindi al bar ti facevano sentire, magari Ivan, “Andiamo a vedere se ci fanno registrare un provino allo Studio E”… Allo Studio E “possiamo fare una cosa per mezz’ora?”, “Fate…” Sai, solo a Roma, a Milano non si sarebbe potuto fare…
Quindi tu eri andato a cazzeggiare e ti ritrovavi col demo.
Col demo e col disco… No era veramente una specie di età dell’oro rispetto a come oggi si pensano e si producono i dischi.
(Torniamo all’inizio del pranzo: prima di parlare della composizione, mi aveva raccontato di com’è suonare dal vivo, girare l’Italia, perdere tempo prima del concerto.)
A volte dura diciotto ore al giorno fra spostamenti cose, prove… però è sempre molto… caotico, disordinato…
Non potrei mai fare il cantante e andare in viaggio tutte le ore vuote tra una cosa e l’altra, impazzirei.
Devo dire, ha il suo fascino.
Prendiamo il Never Ending Tour di Bob Dylan per capire questa estrema possibilità del…
Io penso che Dylan abbia tirato l’elastico all’estremo perché la mia idea, che mi sono fatto, è che Dylan ami la musica in modo talmente totale che tutto il resto della sua vita vuole… Vuole stare solo lì. E allora anche in situazioni diciamo non dico indegne di Dylan, ma anche posti piccoli… In Italia quest’anno è venuto a suonare in un paesino del Piemonte su una piazza che poteva tenere duemila, tremila persone. Da Dylan non ti aspetti questa cosa, ti aspetti che faccia diecimila persone. Lui vuole solo continuare e ogni tanto si prende delle pause di due tre mesi ma poi insomma appena può.
Insomma come funziona la parte fisica di questo lavoro.
La parte fisica consiste nel trasportare le cose che io ho scritto e che poi ho registrato sul disco, portarle in una dimensione calda dove la verifica di quello che io canto è immediata, dura due ore, io in due ore canto ventidue canzoni che sono un bel pezzo, le cambio abbastanza spesso… Non cambio solo gli arrangiamenti, cambio proprio la scaletta per non avere un senso della routine e tutto quanto. E in due ore c’ho un riassunto di tutto il mio lavoro di autore e un confronto immediato.
Come avviene questo effetto? Come si capisce la presa dei vari pezzi, della struttura, della band?
Be’ una serata che va bene da una serata che va male si distingue dal fatto che ti battono le mani in modo più convinto… C’è anche un tipo di attenzione, tu capisci anche questo, non capisci solo l’applauso ma anche quanto il silenzio mentre tu stai lavorando sia un silenzio che non deriva dalla noia ma dall’attenzione, a volte dalla commozione o dall’emozione… E queste sono cose che tu non provi mentre scrivi e non provi nemmeno mentre registri un disco in una sala di registrazione che davanti c’hai un vetro, hai musicisti con cui intrattieni un rapporto più tecnico… E poi canti canzoni che nel mio caso vanno da quella scritta nel ‘73 a quella scritta nel 2012…
Com’è alternarle?
Alternarle anche questo è interessante perché chiaramente io cerco – spontaneamente vorrei dire trovo – un’unità in tutto quello che faccio… Tra un pezzo del ‘75 e uno del 2012 a me non mi sembra di essere un uomo diverso e in realtà non sono un uomo diverso… Suonare dal vivo mi permette anche di restituire contemporaneità, attraverso il suono che produco che non è più quello del disco, alla canzone del ‘75 o del ’73. Quindi riporto un po’ tutto quanto sul terreno del giorno in cui sto lavorando: perché anche “Buonanotte Fiorellino” che io mi diverto a farla, deve diventare qualche cosa che abbia a che fare…
Qual è il punto più lontano a cui hai portano “Buonanotte Fiorellino”? Suonandola per darle una…
Adesso prima la faccio tutta quanta in una versione molto simile all’originale. Chitarra, pianoforte, basso, batteria ma suonato molto soft, molto molto piano… E poi la rifaccio tutta quanta di nuovo attaccata in una versione che cita ampiamente una canzone di Dylan che è “Rainy Day Women…” [Canticchia, NdR] E quindi metto a confronto una cosa tradizionale, storicamente depositata nella memoria un po’ di tutti, non solo della mia, con una versione che sento in qualche modo diversa…
Quando la serata va male, il pubblico è distratto, con che spirito tiri avanti?
Be’ direi che il professionismo in quel senso lì è molto importante… non è che come dire, visto che la serata va male allora canti in modo scazzato, cerchi di dare comunque il massimo… poi ti rendi conto che, per qualche misterioso motivo, o tu non sei abbastanza in forma, che può succedere, o il suono tecnicamente, perché gli altoparlanti sono messi male, succede questo, ti tocca un suono sbagliato, o il pubblico si aspettava una cosa diversa… Allora capisci che qualcosa non funziona, non sai bene cos’è però devi fare il tuo spettacolo, devi cercare di dare il meglio… Quando hai finito te lo dici con quelli della band “che è successo?” “e chi lo sa!”, perché non è che puoi saperlo, ma succedere raramente comunque eh… quando magari capiti in un posto sbagliato, quando hanno messo un biglietto troppo alto allora ti ritrovi le prime file che sono persone che hanno pagato molti denari e vogliono da me le cose classiche e basta, capito? Oppure cose banalmente tecniche, ad esempio in molti teatri all’italiana il palcoscenico davanti è molto profondo e noi suoniamo qua perché qui sotto c’è la buca dell’orchestra che non è praticabile per vari motivi, quindi noi abbiamo davanti almeno tre quattro metri prima della prima fila fisica di poltrone: questa è una distanza che rende tutto molto difficile, perché tu non li vedi e non li senti… Tu devi sentirlo, se lo senti ti aiuta molto. Se invece non lo senti perché stanno lontani oppure sono troppo composti e magari stai facendo un teatro storico importante, sei al Valle di Reggio Emilia e lì la gente entra a teatro con un atteggiamento di ascolto totalmente diverso di quello che ci può essere se sono all’Atlantico di Roma o all’Alcatraz di Milano, nei locali dove spesso mi piace andare perché so che lì c’è gente in piedi che magari beve, beve la birra mentre sto cantando…
Certo in teatro non puoi bere.
Non solo non puoi bere, hai anche l’idea che devi stare composto. Questo poi si supera, eh. Nella maggior parte delle serate mi diverto tantissimo. Nelle piazze d’estate… Però delle piccole differenze derivano anche dal tipo di posto dove vado a suonare…
Allora, intorno all’esibizione come si passa il tempo, quanto dura la procedura?
Mah dipende dai chilometri che uno deve fare per andare da un posto all’altro, di solito si viaggia e questo può richiedere una mattinata, partendo la mattina anche presto. Io c’ho da arrivare in un posto in cui devo suonare all’ora di pranzo, per poi stare in albergo fino alle 4.30, le 5, e poi parte il discorso del soundcheck, del controllo del suono del posto, si va lì e o si rimane lì fino alle 21 oppure se è vicino all’albergo si torna in albergo…
Quando arrivi in albergo che fai? Dormi, mangi?
Dormo, leggo, guardo la televisione. Raramente vado in giro a piedi perché, non lo so… è un modo di concentrazione per lo spettacolo della sera. Comunque se la sera devi lavorare non hai quella disposizione d’animo che ti consente di entrare in una galleria d’arte, in un museo, o anche visitare il centro storico di una città spensieratamente. Non è mai vacanza, ecco. Anche se sei a Verona, sei a Venezia, sei in una città dove veramente c’è gente che viene dal Texas per vedersela un pomeriggio, però io non sono in quella disposizione d’animo…
E quando sei nel teatro, nel posto del concerto, come passano le ore?
Quando sto in camerino? Be’ fondamentalmente è una rottura di scatole…
Ma guardi l’orologio? Stai lì, ci rinunci?
Be’, non vedo l’ora di cominciare sì poi c’è sempre qualcuno che ti viene a trovare o comunque passo il tempo con i musicisti che lavorano con me. È come fare il militare, si aspetta si aspetta si aspetta… A volte capita anche che tu in camerino abbia da mettere a punto alcune cose per il concerto della sera allora magari stai lì con due chitarre… Oppure provi a scrivere qualche cose, e qui arriviamo forse al tema di come si scrive una canzone, che è fatta di momenti, ci stai otto mesi, un anno, due anni… Quindi magari c’è qualcosa che hai in testa, delle parole, degli accordi, e non avendo proprio niente da fare per due ore stai lì e se hai voglia ci giri intorno, no?