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 2014  marzo 13 Giovedì calendario

GEOPOLITICA DELLO IOR


IN UNA CITTÀ CON DUE STATI LA GEOPOLITICA diventa toponomastica. Gli edifici del potere si scrutano a vicenda, corteggiandosi o rivaleggiando nelle alterne stagioni della storia. Le mura trasudano umori e rumori. Se ne è immediatamente reso conto e fatto partecipe il pontefice argentino. Restio all’attrazione del palazzo ma sensibile alla suggestione dei luoghi.
Ricevendo in Vaticano alla vigilia dell’estate Giorgio Napolitano, e accingendosi a ricambiare la visita in autunno al Quirinale, Francesco ha quindi adottato di buon grado «l’immagine dei due colli che si guardano con stima e simpatia», per dipingere l’attuale fase, idilliaca o quasi, dei rapporti bilaterali. Una metafora che Pietro Parolin ha ripreso in Senato il 12 febbraio, commemorando i trent’anni della revisione del concordato, che rispetto al testo primitivo di Benito Mussolini e del cardinale Gasparri sancisce, a detta del più stretto collaboratore del papa, «un nuovo modo nel reciproco riguardarsi tra Stato e Chiesa: non più sospettosamente, come nel 1929, ma in maniera amichevole, aperta, leale».
Insomma, questione di sguardi. Al punto che a vedere bene, tuttavia, le sue parole lasciavano trasparire sotto la veste celebrativa un invito e un’aspettativa pendenti. Con sottile ironia diplomatica, celebrando la ricorrenza insieme ai craxiani emeriti della Fondazione socialismo, il neosegretario di Stato si è rivolto alle suocere di ieri per mandare un messaggio alle nuore di oggi, che alloggiano a pochi metri dal Quirinale, nel sacrario repubblicano della Banca d’Italia, guastando alla Santa Sede la panoramica del colle più alto.
Palazzo Koch raccoglie il testimone della sfida che da un secolo e mezzo avvicenda gli edifici delle istituzioni e ha raggiunto la punta più avanzata, e azzardata, nella provocazione urbanistica del Palazzo di Giustizia, ribattezzato «palazzaccio» dai romani, eretto ai primi del Novecento sul greto instabile del fiume, a rischio di smottamenti, per contrapporre al papa, dirimpettaio, una basilica laica di fronte a San Pietro, algido baluardo umbertino di una battaglia combattuta principalmente a colpi di simboli.
In tale cornice si deve inquadrare, all’alba del 2013 e a quaranta giorni dalle dimissioni di Benedetto XVI, il blocco dei pagamenti elettronici all’interno della città leonina, imposto da Via Nazionale, che ha negato alla filiale italiana di Deutsche Bank l’autorizzazione a erogare il servizio in Vaticano, in assenza di un’adeguata policy antiriciclaggio. Il provvedimento, applicato in autonomia e in automatico, sopravalutando gli effetti pratici e sottovalutando quelli politici, è stato percepito dal destinatario come un vulnus alla sovranità e operatività dello Stato. Un punto di non ritorno, assai più dei ventitré milioni di euro sequestrati dalla procura di Roma nel 2010 sul conto dell’Istituto opere religiose (Ior) presso il Credito Artigiano, ampiamente noti alle cronache per avere innescato il processo di adeguamento agli standard del Consiglio d’Europa intrapreso il 30 dicembre dello stesso anno da Ratzinger con il varo dell’Autorità d’informazione finanziaria (Aif), e proseguito da Bergoglio dopo battute d’arresto e marce indietro.
Psicologicamente, il «disarmo» dei dispositivi per i pagamenti elettronici (Pos), che faceva seguito al rifiuto di negoziare gli assegni, ha riaperto e allargato nella memoria ecclesiale la ferita di Porta Pia. Una breccia e un’irruzione in profondità dove neppure Cadorna si era spinto, con i bancomat e le carte di credito al posto degli zuavi pontifici, ai quali almeno i bersaglieri avevano concesso gli onori di rito.
Nell’immaginario curiale si è trattato del fendente decisivo per rassegnarsi, e consegnarsi, alla protezione dello straniero, come in altri passaggi storici, favorendo l’approdo alla presidenza del banchiere e barone svevo Ernst von Freyberg, cavaliere di Malta, erede lontano dei crociati e difensore ravvicinato dalle insidie degli «infedeli». Si perfezionava così l’assunzione diretta di responsabilità da parte dei «poteri forti» della finanza cattolica internazionale, usciti platealmente quanto brutalmente allo scoperto il 24 maggio 2012 con la defenestrazione di Ettore Gotti Tedeschi, pianificata e imposta dallo statunitense Carl Anderson, cavaliere di Colombo, attuale segretario del board dell’Istituto e in passato collaboratore di Reagan alla Casa Bianca.
Venature ideologiche e congiunture giudiziarie non devono distrarre l’attenzione dal profilo e dall’oggetto geopolitico del contendere. Pur essendo istituzione di un altro Stato, lo Ior ha costituito fino a pochi anni fa un’enclave strategica e un asset formalmente non integrante ma sostanzialmente integrato dell’economia italiana. Una riserva repubblicana e un convitato di pietra, comparsa sfuggente o comprimario ingombrante, sullo sfondo dei drammi e delle commedie nostrane. Comunque un interlocutore e investitore privilegiato, massivo acquirente del debito pubblico, come si evince dall’ultimo e primo bilancio del mese di ottobre.

2. La svolta decisiva nel Torrione di Niccolò V, misterica ed ermetica sede dell’ente, si consuma e completa tra lunedì 11 e venerdì 15 febbraio 2013, con un tempismo che obbedisce, in parti uguali, ai ritmi narrativi di Dan Brown e a quelli coercitivi delle Borse. Colti di sorpresa dall’annuncio di Benedetto XVI, americani e tedeschi, che con le loro generose offerte sostengono la Chiesa e mantengono la curia, non sono rimasti spettatori passivi, nella prospettiva di un conclave al buio e con il rischio di una parabola discendente dei depositi, proporzionale all’escalation della conflittualità interna ed esterna.
In quattro giorni gli assedianti hanno rotto l’indugio dello stallo che durava da nove mesi e sferrato l’assalto finale, mettendo il forziere in sicurezza e ponendo il nuovo pontefice, chiunque fosse, davanti al fatto compiuto. La democrazia dei numeri, che il 13 marzo avrebbe affidato le chiavi di Pietro al continente di maggioranza delle anime, è stata preceduta dalla democrazia del censo, che ha delegato la chiave del tesoro alle terre dei maggiori donatori. Quello che allora sembrò agli osservatori un colpo di mano della segreteria di Stato si rivela piuttosto un’azione altrui, programmata in altri Stati e subita dai porporati del Belpaese, giunti all’appuntamento con il voto in schiacciante superiorità rispetto ai latinoamericani, agli statunitensi e ai tedeschi, e tuttavia puntualmente schiacciati sotto il peso delle proprie divisioni. La nemesi storica riverbera impietosa sui principi della Chiesa, in proposito, il giudizio amaro che Machiavelli formulò all’indirizzo delle signorie rinascimentali, che in preda a ulteriore litigiosità finirono per essere predate dall’estero della propria egemonia: «Credevano i nostri principi italiani che bastasse sapere negli scrittoi pensare una acuta risposta, scrivere una bella lettera, mostrare ne’ detti e nelle parole arguzia e prontezza, volere che le parole loro fussero responsi di oracoli; né si accorgevano i meschini che si preparavano ad essere preda di qualunque gli assaltava».
La conquista del potere è avvenuta con impeto e passo di carica, in modo congiunto, ad opera di due reggimenti acquartierati sulle alture romane dell’Aventino e del Gelsomino, che hanno accantonato nell’occasione ataviche quanto aneddotiche rivalità. Vincitori della campagna dello Ior risultano al dunque i «cavalieri», di Malta e di Colombo, guidati da von Freyberg e Anderson, presidente e segretario del consiglio di sovrintendenza, l’equivalente di un consiglio di amministrazione, determinati a tagliare il traguardo in anticipo sul verdetto della Sistina e animati da una spiccata devozione alle rispettive patrie, oltre che a Santa Madre Chiesa.
Il presidente Ernst von Freyberg, di pedigree aristocratico e griglia manageriale, tesoriere del rigoglioso ramo tedesco dell’Ordine di Malta, si sentiva di per sé «sovrano» anche al di fuori dalle sacre mura, provenendo da un sodalizio che gode dell’immunità diplomatica ed è accreditato in più di cento paesi. A ottocento anni dai fallimenti di Barbarossa, Federico II e Corradino di Hohenstaufen, che avevano legato i propri nomi alle origini del ghibellinismo, la nobiltà sveva si fa guelfa e in luogo di un guerriero espugna la città leonina con un re di danari, promotore di pellegrinaggi a Lourdes.
Il segretario del board Carl Anderson, businessman e cavaliere supremo di Colombo, a capo di una corporation che fieramente si definisce «braccio destro forte della Chiesa», dispiega una massa di manovra senza uguali, umana e finanziaria, con un milione e ottocentomila membri e un’armatura di polizze da ottanta miliardi di dollari. Anche lui, come von Freyberg, è artefice di un paradosso storico a rovescio, con riguardo questa volta agli Stati Uniti. La superpotenza, infatti, nel momento in cui perde terreno e arretra nel mondo, pianta il vessillo sul colle del Vaticano. O quanto meno si consolida morfologicamente è si staglia orgogliosamente nel suo paesaggio, come un prolungamento territoriale, trasformando il bastione dello Ior in un promontorio yankee, anzi meglio in un Promontory, dal nome dell’advisor sbarcato in riva al Tevere la primavera scorsa, con una task-force di venticinque incursori, per passare al setaccio clienti e capitali, sovrapponendosi de facto alla potestà ispettiva dell’Aif, impari nel confronto per uomini e professioni.
Salendo ai piani alti, esclusivi ed elusivi della torre, si avverte la sensazione di varcare non una ma due frontiere. Il reame papalino dura poche decine di metri, nell’incrocio fugace tra il clero in tenuta d’ordinanza, che muove solerte verso i dicasteri, e le massaie in ordine sparso, che incedono lente dallo spaccio alimentare, le borse appesantite dalla spesa e alleggerite dall’iva. Tutt’altra l’atmosfera che si respira dentro lo Ior, teatro di un’alleanza inedita e interepocale fra impero americano, nella versione dei Knights of Columbus, e imperi centrali, nella rilettura delle aristocrazie cattoliche della Mitteleuropa. Queste ultime hanno avocato i compiti della comunicazione, sottratti alla Sala stampa e demandati a un’agenzia bavarese, diretta da un nobile asburgico, diffondendo anche sonoramente la percezione di una svolta linguistica, non di solo linguaggio, che accentua e accenta il nuovo corso dei rapporti d’affari, trasferiti al di là delle Alpi.
Nella ripartizione dei ruoli, l’America si è riservata la funzione di intelligence, estendendo capillarmente la propria influenza, mediante il controllo esercitato dai consulenti, e vigilando sulle iniziative a potenziale risvolto geopolitico. A dimostrazione dell’assunto per cui, anche in «terra consacrata», Germania e Stati Uniti non resistono all’impulso di mettere sotto tutela e osservazione, rispettivamente, i flussi monetari e quelli delle informazioni sensibili.
Se la componente teutonica della governante garantisce pertanto le piazze finanziarie, il partito americano rassicura invece soprattutto se stesso, verificando i percorsi vecchi e nuovi dell’interventismo papale, che in frangenti nevralgici trovò nell’Istituto per le opere di religione una leva segreta e miracolosa, in grado di moltiplicare i pani e i pesci.
Del resto proprio Anderson, impegnato negli anni Ottanta nell’amministrazione di Reagan, durante il periodo del sostegno wojtyliano a Solidarność, custodisce la reminiscenza del valore aggiunto e dell’effetto moltiplicatore dell’Istituto, ben oltre la sommatoria delle risorse, che ammontano al presente a sei miliardi di euro, cifra sicuramente modesta se comparata con i colossi globali del credito.

3. Nonostante l’arretratezza della sua struttura e le croniche zone d’ombra che ne hanno caratterizzato la gestione, radicate in una persistente tendenza a considerarsi supra legem e conseguente insofferenza per la cultura della legalità, lo Ior possiede tuttavia una capacità di proiezione e penetrazione che lo rende unico nel suo genere e nell’immaginario collettivo: irrimediabilmente provinciale come fu lo Stato pontificio e irrinunciabilmente universale come sa essere la Chiesa del post-concilio, affrancata dal fardello del temporalismo. Un atout che Washington ha sperimentato a proprio vantaggio durante la guerra fredda e che a maggior ragione paventa oggi, davanti all’improvviso quanto imprevisto raffreddamento del feeling con Francesco.
Dopo avere contribuito a portare il papato oltreoceano con il voto determinante dei cardinali a stelle e strisce, gli Usa si ritrovano nel cortile di casa il più temibile dei competitori: l’unico a disporre di un soft power e di un disegno strategico alternativo al sogno americano, dietro al quale Bergoglio intravede l’incubo dell’individualismo capitalista e consumistico. Mai un pontefice si era mostrato così vicino e così lontano, appartenendo al medesimo emisfero e contestualmente a quello opposto. Sudista prima che occidentale.
Applicato ai processi di due diligence delle amministrazioni vaticane, l’approccio geopolitico traccia una netta demarcazione tra lo Ior e gli altri enti, dal governatorato a Propaganda fide passando per l’Amministrazione del patrimonio della sede apostolica (Apsa). Su di essi Francesco gioca una partita essenzialmente interna, che ha per posta l’efficienza e la trasparenza della curia, guarita dalle patologie. L’Istituto per le opere di religione, al contrario, indipendentemente da qualunque bonifica, sembra fisiologicamente destinato a suscitare all’esterno attenzioni e tensioni, almeno fino a quando permarrà l’attuale assetto, che piaccia o meno lo configura come una delle realtà finanziarie più importanti del pianeta. Troppo rilevante per convogliare e mantenere le proprie dinamiche tra le due sponde del Tevere.
L’internazionalizzazione dei vertici è stata perciò preceduta, e preparata, da quella dei conti, nell’orizzonte breve di un paio d’anni a partire dal 2010. Lo Ior infatti, come si legge nel sito istituzionale, «poiché non possiede sedi all’estero, per effettuare i trasferimenti di fondi a nome dei propri utenti si appoggia su banche corrispondenti in tutto il mondo». Ed è appunto l’allocazione di queste ultime, più delle mete d’investimento, a definire l’operatività, cioè il parametro che individua le alleanze politiche e le appartenenze economiche. Il Fatto Quotidiano, riportando un’informativa della Guardia di Finanza del 7 giugno scorso, ha rappresentato il nuovo scenario, evidenziando che nel periodo 2010-12 lo Ior ha «progressivamente concentrato all’estero la propria operatività», chiudendo gran parte dei conti di corrispondenza presso le banche italiane, a vantaggio di quelle tedesche.
Il trasferimento dei depositi ha proceduto con andamento sistematico e spedito, come una legione in marcia, prendendo la via della Germania, terra non solo di von Freyberg, ma anche del vicepresidente dello Ior Ronaldo Hermann Schmitz, che aveva ricoperto analogo ruolo in Deutsche Bank unitamente a quello di amministratore delegato. Ma soprattutto è membro qualificato di due influenti think tank globali, la Commissione trilaterale e l’Institute for Advanced Studies. Un’entratura transatlantica che gli conferisce verosimilmente un ruolo di trait d’union e aiutoregista del kolossal a coproduzione tedesco-americana in cartellone nella torre rinascimentale di papa Niccolò, con un cast da multinazionale e un tempismo da action movie.
Mentre i conti si spostavano all’estero, la coalizione nordatlantica completava infatti l’occupazione dei posti che contano, il 30 novembre 2013, con la promozione a direttore di Rolando Marranci, una lunga esperienza in Bnl e nella City ma espressione, da ultimo, del Promontory Financial Group, che lo ha inizialmente aggregato come suo consulente e a seguire integrato stabilmente insieme ai propri responsabili per l’Europa, Elisabeth McCaul e Raffaele Cosimo, che assumono la carica di senior advisor dell’Istituto. L’abito anagrafico dell’italianità non può in questo caso nascondere la corazza di «Capitan America». Sul suo scudo, forgiato nella lega e nel legame d’acciaio con il mondo anglosassone di provenienza, si è infranto il sospetto del conflitto di interessi, lanciato in extremis dal cardinale Attilio Nicora, presidente dell’Aif e indomito patrono della finanza bianca lombarda, nel tentativo di prendere il tempo necessario «all’acquisizione di ulteriori informazioni presso le autorità competenti nel settore finanziario e bancario negli Stati nei quali il dottor Marranci ha operato in passato, come pure circa eventuali precedenti legami con società anche private o di consulenza».
Uscita dalla Città Leonina e approdata nelle redazioni, la lettera di Nicora è stata subito percepita come il ciak di un potenziale sequel di VatiLeaks, a un livello superiore, geopolitico, nonché più coerente con l’origine stessa del neologismo, dove ai contrasti tra persone subentrano quelli tra nazioni, alla stregua di WikiLeaks. E a prescindere dai meriti o demeriti dei singoli protagonisti.
L’azzeramento dei conti di corrispondenza nelle banche italiane, in tale ottica, non realizza soltanto un ingente movimento di denaro, ma concretizza una volontà esigente di rimozione. Non un divorzio, bensì l’annullamento del vincolo contratto in gioventù con la ragazza, e storica fidanzata, della porta accanto. L’insofferenza che ha spinto alla decisione sovrana e unilaterale, non consensuale, di emanciparsi dal controllo ravvicinato di Bankitalia, come da una suocera ingombrante, è stata interpretata con enfasi, nell’estate 2012, dall’avvocato californiano Jeffrey Lena, legale della Santa Sede negli States, celato abitualmente nella buca del suggeritore ma versatile, all’occorrenza, nella parte di voce alla ribalta: «Lo Ior ha rapporti in più di cento paesi, ha relazioni bancarie con quaranta di essi e mantiene rapporti con gli enti finanziari di tutti i membri dell’Unione Europea. A me risulta, però, che solo uno di questi paesi tratti il Vaticano con disparità, cioè come non equivalente in materia di antiriciclaggio». La disputa verte in particolare sul ruolo effettivo dell’Aif, l’organismo antiriciclaggio, che dalle due sponde del Tevere viene visto e valutato in maniera opposta: pietra miliare o d’inciampo sulla via del «pellegrinaggio legislativo» verso uno standard europeo di trasparenza.
Da un lato infatti l’Europa, nell’ultima plenaria di Moneyval, tenuta in dicembre a Strasburgo, ha dovuto convenire che «in breve tempo la Santa Sede ha intrapreso numerose misure legislative e non per porre rimedio alle lacune indicate nel rapporto del 2012». Dall’altro invece, dopo avere attentamente radiografato e positivamente valutato lo scheletro normativo dell’authority, ha sottolineato che manca però un idoneo rivestimento muscolare, «alla luce degli attuali e prossimi carichi di lavoro».
Sullo sfondo si riflette il diverso parere intorno a un’interpretazione, e ripartizione, tendenzialmente minimalista dei compiti dell’Aif, in favore di Promontory e più in generale dei consulenti strategici, come Ernst & Young, a cui sono state recentemente demandate le ispezioni, le prime nella storia dello Ior, espressamente richieste da Moneyval.
Lo scontro si deve ancora una volta ricondurre al rifiuto del modello ispiratore della Banca d’Italia, sotto la cui influenza era stata inizialmente eretta l’authority, con un direttore proveniente da Via Nazionale, Francesco De Pasquale, voluto fortemente da Nicora e tuttavia «promosso», a novembre 2012, per essere sostituito dallo svizzero René Brülhart, già responsabile dell’omologa struttura del Liechtenstein, look mediterraneo da copertina e sorriso alpino impenetrabile.
Davanti alla superiorità straniera, l’ultimo ridotto di resistenza italiana è il consiglio dell’Aif, un monocolore di cinque noti professionisti che il 16 gennaio hanno denunciato per iscritto al segretario di Stato «il perdurare della situazione di opacità informativa venutasi a creare dal momento della nomina del nuovo direttore».
Ma Limes ha potuto accertare che De Pasquale già nel giugno 2012, prima di essere rimosso, aveva provveduto ad avviare in autonomia le procedure d’ingresso nell’organizzazione, come si conviene all’indipendenza operativa e all’identità stessa di un’authority, subendo un energico richiamo all’ordine dalla segreteria di Stato, che pur ribadendo la «priorità» e volontà politica in tal senso rivendicava però la prerogativa di autorizzare e indicare «il quando».
Al di là delle scaramucce cartacee, tuttavia, diventa sempre più evidente che le problematicità dello Ior, come pure la complessità dei conflitti e interessi ad esso afferenti, nei loro risvolti diplomatici, non rivestono carattere congiunturale ma strutturale, rimandando alla natura stessa di un istituto da sei miliardi di euro e rimettendone in discussione il futuro. «Sul futuro dello Ior si vedrà»: ermetica ed emblematica è la risposta che il pontefice ha offerto a riguardo alla Stampa, nell’intervista di Natale, non pronunciandosi ma nemmeno nascondendo le sue perplessità sulla deviazione, per non dire deriva, rispetto alla vocazione delle origini: «Lo Ior è stato istituito per aiutare le opere di religione, le missioni, le Chiese povere, poi è diventato come è adesso».

4. In ossequio al suo alone di mistero e alimentandone il mito, l’Istituto è rimasto il convitato di pietra pure nella prima vera riforma della curia, varata il 24 febbraio, all’indomani del concistoro. Nessuna menzione nel motu proprio che definisce l’Apsa come Banca centrale del Vaticano e istituisce il segretario per l’Economia, ossia un «secretary of the treasure» di americana fattura, investendo del ruolo l’arcivescovo di Sydney, cardinale Pell, di per sé portato a considerare l’Italia non solo geograficamente ma psicologicamente agli antipodi. Toccherà verosimilmente a lui, chiamato dai confini del mondo, ascoltato consigliere del papa e figlio di un pugile campione dei pesi massimi, pronunciare quam primum l’ultima parola sullo Ior, cercando il knock-out o accontentandosi della vittoria ai punti.
«Se anche sciolgono lo Ior, insomma, noi ce ne facciamo una ragione...», aveva scritto a caldo il 18 marzo 2013 l’allora sindaco di Firenze, salutando l’elezione di Francesco. Non sappiamo ancora se e quando Bergoglio realizzerà la riforma, difficile, o addirittura lo scioglimento, improbabile, dell’Istituto, secondo l’auspicio di Matteo Renzi. Il quale però, nel frattempo divenuto premier, potrà sostenere le ragioni dell’Italia, consapevole che l’internazionalizzazione della curia non sempre è sinonimo di universalità. E che la sensibilità «italiana» rappresenta per la classe dirigente della Chiesa, in termini di saggezza geopolitica, il risultato di una crescita millenaria, che non si può improvvisare attraverso la scorciatoia di moderne strategie manageriali.