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 2014  marzo 13 Giovedì calendario

DONNE E QUOTE, NELLA STORIA LE RAGIONI DEL SÌ


Meglio un ortopedico italiano o un ortopedico tedesco? Chissenefrega: conta solo che sia bravo, direte voi. E scommettiamo che anche Silvius Magnago, quando lanciò la battaglia sulla proporzionale etnica, la pensava così. Ovvio. Ma in tutti i posti pubblici c’erano troppi italiani e troppo pochi tedeschi: andava ripristinato un equilibrio. Oggi quelle quote non avrebbero senso? Certo. Ma allora sì. E lo stesso dovrebbe essere, in politica, per le donne: va ripristinato l’equilibrio. Dopo di che, addio quote.
È il contesto che conta: il contesto. Lo schemino delle quote etniche in Alto Adige si è rivelato via via, una volta riequilibrati i rapporti, una ingessatura assurda, insopportabile, ridicola. Ma cosa avreste fatto, voi, al posto del leader dei sudtirolesi? Dopo decenni di italianizzazione spinta della provincia, il gruppo tedesco aveva nel 1972, pur rappresentando i due terzi della popolazione, solo una fetta del 9% degli impieghi pubblici o para-pubblici nelle ferrovie o in comune o all’Enel e del 5% delle case popolari edificate dopo il 1935. Una sproporzione prepotente. Inaccettabile. E in quel contesto, come ogni italiano in buona fede deve ammettere, la pretesa di riequilibrare gradualmente le cose fu giusta. Giustissima.
E le donne? Imporre oggi quote fisse in Finlandia, il primo Paese al mondo dove un governo è arrivato ad avere più donne che uomini, non avrebbe senso. Ma in Italia? Che senso ha, al di là delle furbizie partitiche, machiste e correntizie così determinanti nel voto alla Camera, invocare «una crescita culturale di tutta la società» o sospirare sul fatto che, ahinoi, «non siamo in Norvegia, in Germania o in Danimarca» e che introdurre le quote sarebbe «ammettere la nostra arretratezza»? Perché: non siamo forse in ritardo?
È la storia a dirci quanto pesino le regole. Per fare pochi esempi la Norvegia, la Svezia e la Danimarca ebbero la loro prima regina (Margherita I) alla fine del Trecento, l’Inghilterra (in realtà furono tre di fila per successiva eliminazione: Jane Grey , Maria Stuarda ed Elisabetta I) nel 1553 e Guglielmina d’Olanda salì al trono nel 1890. Evento mai successo in casa Savoia, perché escluso esplicitamente nei secoli dei secoli fin dai tempi del contado. A costo di cambiare, in mancanza di un primogenito maschio, la linea di successione.
Occorre rileggere la nostra storia per capire quanto possa essere importante forzare le norme e più ancora le prassi: l’Italia fu costretta ad attendere 115 anni dopo l’Unità (32 anni, 36 governi e 836 ministri maschi nel solo Dopoguerra) prima che un dicastero fosse dato a una donna, Tina Anselmi. Era il 1976 ed erano già passati 16 anni dall’insediamento della prima donna premier al mondo (Sirimavo Bandaranaike, nello Sri Lanka nel 1960), 48 dalla prima donna ministro (la danese Nina Bang nel 1924), 58 dalla prima donna chiamata al governo (Irena Kosmowska, sottosegretario in Polonia), 69 dall’ingresso delle prime donne in un Parlamento, avvenuto in Finlandia nel lontano 1907. Per non dire della prima donna eletta a un’alta carica istituzionale, Nilde Iotti, presidente della Camera nel 1979 dopo 118 anni e 55 (contando tutti dall’Unità in avanti, comprese la Camera dei fasci o la Consulta Nazionale) predecessori maschi. Di premier donne neanche a parlarne: ce ne sono state in tutto il pianeta a decine. Quattordici negli anni Novanta, trentacinque nel primo decennio del secolo. A volte potentissime, come Margaret Thatcher o Angela Merkel. Da noi no: zero. Su un totale di 125 governi, dei quali 63 nel Dopoguerra. Men che meno alla presidenza della Repubblica: «Quando proposi di mandarne una al Quirinale mi dissero “bravo, una intelligente provocazione”», ricorda Giuliano Amato, «manco se avessi proposto un coleottero!» Quanto al suffragio universale, basti ricordare che le italiane, che pure avevano avuto un ruolo straordinario fin dal Risorgimento (da Cristina Trivulzio di Belgiojoso, in prima linea nelle 5 giornate di Milano alla moglie di Crispi Rosalia Montmasson, unica donna dei Mille) arrivarono a votare solo nel 1946. E cioè 29 anni dopo le russe, 31 dopo le danesi, 33 dopo le norvegesi, 35 dopo le californiane, 40 dopo le finlandesi, 44 dopo le australiane, 53 dopo le neozelandesi, 77 dopo le cittadine del Wyoming, 94 dopo la prima petizione per il voto alle donne alla Camera dei Lord del 1850. Non sono curiosità storiche. Sono numeri che aiutano a capire perché poi la politica italiana, al di là delle pappardelle retoriche eredi delle idee del Duce («La donna deve ubbidire. Essa è analitica, non sintetica... Naturalmente essa non deve essere una schiava, ma... nel nostro Stato essa non deve contare») è da sempre distratta nei confronti dei problemi delle donne.
Esempi? Uno per tutti: governi e Parlamento sembrano non essersi quasi accorti che nella tabella della occupazione femminile in Europa, dove la media è del 64% (e sarebbe più alta senza noi) 7 delle ultime 10 delle 271 regioni continentali sono italiane. E italiane sono tutte e cinque quelle in coda alla lista nera. Le donne «ufficialmente» al lavoro in Basilicata sono il 41,8%, in Puglia il 35,3, in Calabria il 35,1, in Sicilia il 34,7 e in Campania, ultimissima tra le ultime, il 31,1. Con sette donne su dieci tagliate fuori dal mondo del lavoro: una quota economicamente suicida e socialmente umiliante.
Questo è il contesto. E in questo contesto aver bocciato alla Camera la virtuosa forzatura sulle quote rosa è stata un’occasione persa non solo per le donne, ma per il Paese. Un’occasione da recuperare al Senato. Potremmo ritrovarci, come ammicca qualche spiritosone, con un po’ di oche in Parlamento? Ammesso fosse vero (uffa!) ce ne faremo una ragione. Dopo tanti falchi, galli, galletti, tacchini e capponi…