Alessandra Iadicicco, La Stampa 13/3/2014, 13 marzo 2014
HEIDEGGER E GLI EBREI, TUTTO QUELLO CHE AVRESTE VOLUTO SAPERE
Rappresenterebbero, erranti e dispersi come sono, una deprecabile «perdita di mondo», di radicamento al suolo. Faccendieri, trafficoni, perfino tirchi, sarebbero caratterizzati nella loro essenza più profonda da una razionalità utilitaristica e da un vuoto pensiero del calcolo. Segretamente riuniti in congiura nel vincolo del popolo eletto, aspirerebbero a frapporsi come ostacolo alla missione del popolo ariano. Soggetto delle tre frasi, ovviamente «die Juden»: gli ebrei. E i giudizi che li riguardano non sono i pensieri inconfessabili di un criptonazista, bensì le considerazioni squisitamente filosofiche che si temeva, o si annunciava, fossero contenute nei famigerati
Quaderni neri di Martin Heidegger. Non vi si trova scritto niente del genere. Ma quasi.
Eccoli finalmente da leggere oggi i controversi Schwarze Hefte che il filosofo tedesco compilò fra il 1931 e il 1941, in anni fatali per la Germania, l’Europa e il mondo intero, come una parte del suo immenso e fino a oggi segreto diario filosofico. Questi testi, destinati dall’autore a essere pubblicati postumi come coronamento della sua opera omnia, stanno facendo parlare di sé da un buon trimestre sulla stampa tedesca e francese. Dacché Oltralpe hanno iniziato a circolare clandestinamente copie ciclostilate dei passaggi clou in cui il «Maestro dalla Germania» avrebbe formulato esplicite e filosoficamente fondate dichiarazioni antisemite.
Eccole qui da leggere le frasi - effettivamente raccapriccianti - che hanno indotto gli intellettuali parigini a fare pressione sugli eredi e gli editori tedeschi del filosofo affinché un testo tanto compromettente non venisse pubblicato. Naturalmente a nulla sono valse le manifestazioni di protesta organizzate al cinema di Saint-Germain-des-Prés dalla rivista di Bernard-Henri Lévy per impedirne la divulgazione. Né le perplessità e lo sconcerto espressi dallo stesso curatore dei volumi in questione, Peter Trawny, docente di filosofia a Wuppertal e fondatore nella stessa città del Martin Heidegger-Institut, avrebbero potuto arrestare la macchina editoriale congegnata, con un certo gusto per la suspense e la sensazione, per la pubblicazione della monumentale «Heideggers Gesamtausgabe».
Vittorio Klostermann Verlag, la casa di Francoforte presso cui è in corso l’edizione completa dell’opera heideggeriana, manda dunque ora in libreria i volumi 94, 95 e 96. In totale poco meno di milletrecento pagine. Il nero della copertina dei quaderni originali in cui queste note furono manoscritte è sbiadito nel grigio perla che uniforma i quasi cento tomi della collana. Ma su queste pagine spira comunque un’aria tetra di cieli bassi, nubi dense e luci cupe. È la tonalità fondamentale, la Grundstimmung del pensiero heideggeriano, specie negli anni successivi alla sua cosiddetta «svolta»: quelli in cui, dopo la pubblicazione del suo capolavoro filosofico - Essere e tempo (1927), l’opera che avrebbe trasformato il panorama del pensiero novecentesco - e dopo il suo fatale errore politico - l’adesione al regime, l’ascesa al rettorato di un’università nazista, il connubio celebrato apertis verbis tra il suo pensiero e la rivoluzione nazionalsocialista -, Heidegger riconobbe la propria svista madornale e concentrò le sue forze speculative sul confronto con il nichilismo, con il declino dell’Occidente, con il dominio della tecnica e con il ruolo che in tutto questo doveva avere il popolo tedesco.
In quest’ottica vanno inquadrate anche le esternazioni antisemite e le considerazioni sul Weltjudentum (il giudaismo mondiale): come peraltro ha rilevato François Fédier, il traduttore francese di Heidegger e direttore delle pubblicazioni dei testi heideggeriani da Gallimard. Una frase come questa: «Una delle forme più insidiose del Colossale, e forse la più antica, è la tenace abilità nel contare, nel premere e mescolare le cose insieme, in cui si fonda la perdita di mondo dell’ebraismo», non sarebbe secondo Fédier da intendere come antisemita. Il Colossale, espressione del dominio tecnico-economico sulla modernità, è «un motivo cruciale per Heidegger dagli Anni 30», sostiene il suo apologeta, minimizzando i capi di accusa, «come peraltro suo tema chiave è quello della “perdita di mondo”».
Altre annotazioni tuttavia sono a maggior ragione irritanti e desolanti: per quanto, e anzi proprio per il fatto che, li si possa contestualizzare nella visione heideggeriana dell’oblio dell’essere. L’ebraismo, al pari dell’americanismo (il fenomeno in cui «il nichilismo tocca il suo culmine»), del bolscevismo (che «non ha niente a che vedere con l’elemento asiatico e con lo slavismo dei russi - vale a dire con la fondamentale essenza ariana -, ma scaturisce dalla metafisica occidentale, razionale e moderna»), del pacifismo («incapace di condurre nell’ambito delle decisioni essenziali, dacché è solo un gioco uguale e contrario a qualsiasi bellicismo») e perfino del nazionalsocialismo («una mera “rivoluzione” nell’ente, senza trasformazione dell’essere, che non crea alcuna storia originaria»), viene considerato come un accadimento epocale dell’essere.
Vanno letti tutti quanti come segnali della metafisica giunta alla sua fine con il dispiegamento sfrenato della tecnica, del calcolo economico e della macchinazione: «Simili segni non hanno alcun peso in confronto alla macchinazione che, in un ambito più profondo, li tiene tutti stretti nella sua tenaglia». Ma frasi come «Il temporaneo aumento del potere del giudaismo è basato sul fatto che la metafisica dell’Occidente, tanto più nel suo dispiegamento moderno, ha offerto un aggancio all’espansione di una vuota razionalità e di un pensiero del calcolo» o «Gli ebrei nella loro spiccata dote calcolistica “vivono” già da lunghissimo tempo secondo un principio di razza», più che come le argomentazioni ontologiche del filosofo dell’essere, suonano come la ripetizione dei più biechi e odiosi stereotipi.