Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  marzo 13 Giovedì calendario

LE CINQUE GIORNATE DI MILANO, L’EPOPEA DELLA BARRICATA


Quando il 18 di marzo del 1848 i milanesi insorsero contro l’occupante austriaco, la storia fece un salto. Non certo un salto all’indietro ma nemmeno, forse, un balzo in avanti. Un salto sul posto. Le possibilità di successo dell’insurrezione erano talmente remote da rendere la vittoria degli insorti un accadimento estraneo al corso degli eventi. Di lì a cinque giorni, però, quella vittoria accadde e, accadendo, aprì uno squarcio nel tessuto che lega i fatti tra loro in una successione prevedibile di antecedenti e conseguenti, in una concatenazione logica di cause ed effetti.

Quel giorno di marzo Milano si trovava, infatti, da più di trent’anni sotto il giogo ferreo della dominazione austriaca. L’armata imperiale occupava la città con una guarnigione di circa ventimila soldati, perfettamente armati e addestrati, appartenenti all’esercito ritenuto il più efficiente e temibile del tempo. Un esercito che, per di più, stava asserragliato nel castello Sforzesco, una fortezza imprendibile insediata nel cuore della città, da dove teneva la città stessa sottoposta alla costante minaccia dei cannoni spianati. La formidabile macchina da guerra eseguiva gli ordini del Maresciallo Radetzky, un comandante leggendario, un anziano patriarca intagliato nel mogano che nei suoi vigorosi ottant’anni d’età ricapitolava la sapienza marziale di un’intera epoca. A questa forza d’occupazione preponderante, Milano poteva opporre una popolazione civile disusa alle armi da quasi due generazioni, un’organizzazione a dir poco fantasmatica e un armamento che, alla vigilia della rivolta, non arrivava a trecento fucili efficienti.
Un aneddoto, non si sa se storicamente fondato o dovuto a leggenda – ma tutto in quei cinque giorni appartiene simultaneamente alla storia e alla leggenda, al tempo degli uomini e a quello degli eroi – dice bene la sproporzione delle forze in campo, lo sproposito compiuto dagli insorti. Carlo Cattaneo, il grande scienziato che tutta Milano venerava come una delle menti più brillanti della sua generazione, era stato sollecitato da giovani e febbricitanti cospiratori a mettersi a capo di una possibile rivolta. Lui aveva rifiutato. Il suo patriottismo ponderato e razionale, temprato alla ragione analitica e prudente dell’Illuminsmo, gli aveva impedito di assecondare un gesto insurrezionale che, a suo modo di vedere, si sarebbe fatalmente risolto in uno sciagurato bagno di sangue suicida. La leggenda vuole che un gruppo di giovani ardimentosi, proprio mentre si recava alla manifestazione del 18 marzo che poi sarebbe sfociata nell’insurrezione, incontrasse Cattaneo che camminava nella direzione opposta. «Dove se ne va, maestro?», lo apostrofarono i giovani patrioti speranzosi, sovraeccitati e scriteriati. «Me ne vado a casa», pare abbia risposto sprezzante e sgomento il grand’uomo, «quando la piazza è dei ragazzi, gli uomini se ne stanno a casa».
Nonostante il caustico scetticismo di Cattaneo, e di qualsiasi altro spirito razionale, il 18 di marzo del 1848 la cittadinanza di Milano insorse spontaneamente e in cinque giorni, con la sola forza del popolo, con la forza di una magnanima disperazione, eresse le barricate e cacciò la guarnigione del più potente e disciplinato esercito del mondo di allora, capace di occupare saldamente la città per più di trent’anni al riparo di una fortezza imprendibile. In quei cinque giorni, una banda di liceali e di vecchi reduci delle campagne napoleoniche, di aristocratici e di operai, di socialisti atei e di devoti seminaristi, di uomini e donne, caricò e travolse le legioni dell’impero. L’aquila bicipite degli Asburgo fu abbattuta a sassate. Precipitò nelle vie del centro, il centro di una città disselciata e trasformata in proiettile dal suo stesso popolo.
Prima che in proiettile, però, quella città fu trasformata in un campo trincerato, un’ultima ridotta a difesa della libertà dei popoli, si potrebbe dire con enfasi retorica. La verità è che, nel giro di poche ore, quella città, per mano dei suoi stessi abitanti, fu demolita e ricostruita, disgregata nella fibra più intima delle sue private abitazioni e riaggregata nelle pubbliche vie nelle più precarie e memorabili opere di edilizia civile che la storia del mondo contemporaneo conosca: le barricate. Non soltanto la cittadinanza di Milano insorse quel 18 di marzo del 1848 ma la città stessa di Milano, la sua forma urbis, insorse a difesa di se stessa innalzandosi dal suolo dissestato in cima alle barricate. La città salì sulle barricate e nelle barricate.
Già al secondo giorno di lotta, Milano era disseminata in più di mille barricate che, di quartiere in quartiere, riflettevano in uno specchio frantumato l’intero spettro delle condizioni di vita dei suoi abitanti. Ci si barricava dietro tutto, dietro la ricchezza e dietro la miseria, dietro gli utensili del lavoro e dietro le comodità del riposo, nelle cose sacre e in quelle profane. Fu una città senza «interni» in quei giorni Milano, tutta letteralmente riversa nelle strade (difficile immaginarlo oggi quando in città come Milano, capitali dell’interior design, tutta la bellezza è coltivata negli interni del privato e diserta gli spazi pubblici): cataste di carrozze, omnibus, carri, confessionali e banchi di chiesa, botti piene e vuote, balle di cotone o seta, sedie spagliate e poltrone damascate, stie di pulcini pigolanti e uova mute di onice o alabastro, roba vecchia e roba nuova, cose animate e inanimate, urne sacre e ostensori profani, e poi materassi, letti, tavole e reliquiari, stoviglie, stuoie, tappeti e cenci, legni, stoffe, metalli, piume, pelli, minerali e carni. Sì, carni, perché in cima a tutto questo, è bene non dimenticarlo, sorgevano i cittadini di Milano, ognuno di essi trasformato in combattente.
A un occhio distratto quella mattina Milano sarebbe potuta apparire come un’immagine del disastro. E non si sarebbe ingannato del tutto quell’occhio. Sempre, infatti, secondo quanto scrisse Victor Hugo a proposito di altre barricate, questi stratagemmi della lotta popolare hanno l’aria malinconica della derelizione: «corrosa, dilaniata, dentellata, tagliuzzata, merlata da un’immensa lacerazione (…) la barricata si ergeva come un’alzata ciclopica a ultima difesa della città insorta. Soltanto a vederla, si sentiva l’immensa sofferenza della città agonizzante giunta al momento estremo, quando un’angoscia vuole diventare catastrofe. Anche quella barricata, aveva l’aspetto triste di tutte le costruzioni dell’odio e della rovina. Guardandola, si poteva dire: chi ha costruito tutto questo? Ma si poteva anche dire: chi ha distrutto tutto questo?».
Però, in quelle cinque giornate del 1848, disseminata di rovinose barricate, Milano conobbe anche l’impareggiabile bellezza convulsa del secolo Decimonono, l’ultima epoca in cui, in questa parte di mondo, si fece la rivoluzione per le strade. Per capirla a fondo quella bellezza, basti pensare che il secolo successivo, il Ventesimo, si sarebbe aperto all’insegna di una nuova e diversa arma degli oppressi contro gli oppressori: la dinamite. L’autobomba sarà, infatti, per le guerriglie urbane di popoli oppressi del ’900 ciò che la barricata era stata per l’800, l’epoca apertasi con le barricate della Rivoluzione Francese. Finita l’epoca delle barricate, i manifesti di libertà si cominciarono a scrivere con il sangue degli altri. Ed è una storia che dura ancora.