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 2014  marzo 13 Giovedì calendario

ALZHEIMER LA GRANDE SFIDA


«HA INIZIATO DIMENTICANDO dove stavano le cose, sbagliando la stanza in cui doveva andare. Poi un giorno si è persa, non riusciva più a tornare a casa. Sono cominciati i controlli ed è arrivata la diagnosi». Giusi Cerlito, di Palermo, racconta come il morbo di Alzheimer ha colpito quattro anni fa, nella sua famiglia, la madre Angela, 85 anni. Oggi Angela si perde anche in casa sua, dove vive con il marito, 88 anni, e una badante fissa. «Ci sono volte che piange sempre, oppure grida, è intrattabile, mi chiede “chi sei?” quando la chiamo al telefono. Altri giorni è tranquilla, mi riconosce. Una giornata non è mai identica all’altra. Mio padre dice che non ce la fa più, che la sua testa è andata via insieme a quella di mia madre».
Sono storie diverse ma che si somigliano tutte, quelle di chi è colpito dalla malattia che porta via l’intelletto: non solo i ricordi del passato, ma la persona che si è nel presente, e poi la memoria delle azioni più semplici della vita quotidiana, mangiare, lavarsi, vestirsi. Come Angela, nella sola Palermo, e se si considerano tutte le forme di demenza, sono in 12 mila. 1 milione in Italia. 11 milioni in Europa. 44 milioni nel mondo.
Negli ultimi anni è diventato sempre più chiaro quali sono le reali dimensioni del problema. Con la popolazione che invecchia, si prevede che gli anziani con demenza, di cui l’Alzheimer costituisce due terzi dei casi, finiranno quasi per raddoppiare nel 2030 (quasi 90 milioni) e triplicare nel 2050 (135 milioni). Considerando che già oggi i costi per l’assistenza di questi malati sono paragonabili all’economia di una nazione come la Turchia, c’è da chiedersi come faranno i servizi sanitari a reggere l’urto di un simile tsunami. Per questo è iniziata la chiamata alle armi. La settimana mondiale del cervello in corso in questi giorni (fino al 16 marzo) è dedicata al declino della memoria e alle malattie che distruggono ricordi e identità. A Londra, lo scorso dicembre, si è tenuto il primo summit dei paesi del G8 sulla demenza, dopo gli appelli pressanti dell’Oms perché i governi organizzino piani nazionali: finanziando la ricerca e inventando forme di assistenza sostenibili economicamente.
In tutto questo, una nota positiva viene dalle ultime ricerche epidemiologiche: se è vero che il numero totale delle persone con Alzheimer continuerà a salire, perché gli anziani saranno sempre di più, il tasso di malati (l’incidenza) pare essersi stabilizzato. «È un segnale che guardiamo con interesse, ma a livello globale il problema resta» commenta Marco Trabucchi, esperto di demenze e presidente dell’Associazione italiana di psicogeriatria. Tutti i colossi farmaceutici hanno in cantiere sperimentazioni di farmaci per rallentare o fermare il decorso del morbo, ma finora non hanno dato gli esiti sperati. «E questo ha contribuito alla caduta di interesse nei confronti della malattia» aggiunge Trabucchi.
Si conosce il morbo da quando, nel 1906, il medico Alois Alzheimer trovò nel cervello di alcuni pazienti affetti da demenza strani agglomerati, identificati poi come le famose placche di proteina beta amiloide, il segno distintivo della malattia: si accumulano nel tessuto cerebrale e portano alla morte di milioni di neuroni.
Ed è proprio contro le placche che si concentra gran parte della ricerca. Una delle strade più battute è l’immunoterapia: in pratica, un vaccino contro la beta amiloide. Anni fa, alcuni anticorpi avevano dato risultati interessanti: in topi geneticamente modificati, le placche sparivano dal cervello. Ma quando si è tentato nell’uomo, non è andata bene. La sperimentazione fu sospesa perché c’erano gravi effetti collaterali e apparentemente nessun beneficio. Anche se poi, dall’autopsia di alcuni dei pazienti, si è visto che gli anticorpi avevano in effetti liberato il cervello dalle placche. «Questo risultato» spiega Gianluigi Forloni, responsabile del dipartimento di neuroscienze dell’Istituto Mario Negri a Milano, «ha fatto sì che l’idea del vaccino non venisse abbandonata, anche se ora si cercano metodi più sicuri da un punto di vista tossicologico ». Gli scienziati si sono convinti che il motivo dell’insuccesso sia che si interveniva troppo tardi, quando la malattia aveva ormai fatto danni. «Ora sappiamo che le placche si sviluppano anche dieci anni prima dei sintomi. La scommessa è partire prima con la cura» dice Forloni.
Non è semplice: senza sintomi, come identifico le persone che stanno sviluppando la malattia? E le placche sono segno sicuro di Alzheimer? Sono la causa del decadimento o un effetto di qualche altro meccanismo patologico? «Non lo sappiamo. È una malattia complessa, multifattoriale, forse oggi consideriamo uguali malati che invece hanno patologie diverse» continua Forloni. «Gli sforzi ora si concentrano nel capire, ai primi segnali di declino cognitivo, se si tratta o no di Alzheimer» dice Fabrizio Tagliavini, direttore del dipartimento di malattie neurodegenerative all’Istituto Besta di Milano, che sta conducendo un ampio studio sulla malattia, dalla diagnosi precoce all’assistenza per i malati. Una diagnosi davvero precoce potrebbe cambiare le cose e rendere più efficaci le terapie. Da alcuni anni sono state sintetizzate sostanze che, marcate con un tracciante radioattivo, identificano le placche di beta amiloide nel cervello di pazienti senza sintomi sottoposti a una Pet; una di queste (Amyvid) è stata ora approvata negli Stati Uniti per l’uso clinico. Un’altra strada è identificare «biomarcatori», molecole-spia della malattia in corso. Un passo avanti lo hanno fatto in questi giorni alla Georgetown University Medical Center a Washington, con una scoperta pubblicata su Nature Medicine: gli scienziati hanno messo a punto un test per individuare nel sangue un set di 10 composti lipidici che fanno che, se presenti, segnalano la forte probabilità di sviluppare una forma di demenza o l’Alzheimer nei due-tre anni successivi, con un’accuratezza pari al 90 per cento. «È il primo studio per la ricerca di biomarcatori nel sangue. È importante, anche se la casistica è ancora piccola e anche se resta da dimostrare che il test sia specifico per l’Alzheimer» osserva Tagliavini. Oggi, la ricerca di biomarcatori di Alzheimer viene fatta nel liquido cerebrospinale, esame che richiede una puntura lombare, e il test non è utilizzato di routine anche perché non dà risultati certi.
Tra le ultime sostanze identificate come possibili segnali della malattia, infine, ci sono gli oligomeri della beta amiloide: piccoli aggregati che sembrano molto più tossici della stessa proteina amiloide. Sono in corso importanti studi clinici per vedere se i pazienti a rischio (senza sintomi ma con tracce di placche nel cervello, o appartenenti a famiglie colpite da una forma ereditaria del morbo), beneficiano dei trattamenti già provati senza successo sui pazienti con malattia avanzata.
Si cominciano a capire meglio anche le basi genetiche della malattia. Nel 5 per cento dei casi si tratta di forme legate a mutazioni identificate: ricorrono all’interno di una famiglia e in genere colpiscono persone giovani, sui 50 anni. Negli altri casi, sono stati scoperti geni che aumentano il rischio. Per esempio, chi ha una specifica forma del gene che codifica per la proteina ApoE ha una probabilità tre volte più alta di avere l’Alzheimer in vecchiaia. Gli scienziati stanno identificando altri fattori genetici che contano meno, ma fanno salire il pericolo. Su migliaia di soggetti, per esempio, sono state identificate mutazioni su geni legati all’infiammazione, al trasporto cellulare e al sistema immunitario. «Ci sono geni che aumentano il rischio e altri che hanno effetto protettivo. Pesano anche i fattori ambientali. Se si arrivasse a conoscerli meglio si potrebbe fare un profilo di rischio personalizzato» osserva Tagliavini.
Oggi la diagnosi viene fatta ai primi sintomi, con test neuropsicologici. La trafila comprende di solito anche la Tac. Una risonanza magnetica può confermare se ci sono segni di atrofia o degenerazione del tessuto nervoso caratteristici della malattia, anche se nelle fasi iniziali spesso non si trovano. Poi ci sono i farmaci. Vengono prescritti inibitori della colinesterasi o la memantina, ma per la famiglia e il malato cambia poco: il peggioramento avviene un po’ più lentamente, ma la discesa è inarrestabile.
La priorità attuale è pensare all’assistenza e alla gestione dei malati. «Per questo, pur con tutta la retorica, iniziative come il G8 non sono una cattiva idea. C’è bisogno di progettare su scala globale» sostiene Tagliavini. Alcuni paesi lo stanno facendo con piani nazionali. In Italia siamo indietro. «Da noi, il malato passa attraverso le Uva, unità di valutazione Alzheimer: sono 500, la metà funziona bene» dice Trabucchi. Ma è necessario adeguarsi ai tempi. Il Besta ha coordinato uno studio pilota in tre distretti della Asl di Milano. «Sono stati stabiliti i criteri con cui il medico di famiglia può fare una valutazione del malato; ai medici è stato fatto un corso pratico sui test neuropsicologici di solito fatti dal neurologo; è stata creata una cartella clinica elettronica condivisa da tutti i medici che hanno a che fare con il paziente. Il metodo è stato esteso a tutta Milano, e si prevede di allargarlo in cinque altre regioni» dice Tagliavini.
È tempo di attrezzarsi prima che le cose diventino insostenibili. Finora si può parlare solo di prevenzione. Pare che qualcosa si possa fare, almeno per allontanare la malattia. Lo stile di vita (l’esercizio fisico e la dieta mediterranea) e l’impegno mentale riducono il rischio. I bilingui, per esempio, sembrano colpiti dalla malattia in media 4 o 5 anni più tardi degli altri. E imparare una lingua pare un utile esercizio anche per chi inizia tardi. Avere relazioni sociali e stimoli culturali è un fattore protettivo. Perfino fare le parole crociate. Di recente sono stati pubblicati i risultati dello studio più ampio mai effettuato in materia, su 2.800 persone, età media 74 anni. Chi impegnava la mente con quiz e cruciverba, a distanza di dieci anni era più lucido e con un cervello più «giovane» dei suoi coetanei.
«HA INIZIATO DIMENTICANDO dove stavano le cose, sbagliando la stanza in cui doveva andare. Poi un giorno si è persa, non riusciva più a tornare a casa. Sono cominciati i controlli ed è arrivata la diagnosi». Giusi Cerlito, di Palermo, racconta come il morbo di Alzheimer ha colpito quattro anni fa, nella sua famiglia, la madre Angela, 85 anni. Oggi Angela si perde anche in casa sua, dove vive con il marito, 88 anni, e una badante fissa. «Ci sono volte che piange sempre, oppure grida, è intrattabile, mi chiede “chi sei?” quando la chiamo al telefono. Altri giorni è tranquilla, mi riconosce. Una giornata non è mai identica all’altra. Mio padre dice che non ce la fa più, che la sua testa è andata via insieme a quella di mia madre».
Sono storie diverse ma che si somigliano tutte, quelle di chi è colpito dalla malattia che porta via l’intelletto: non solo i ricordi del passato, ma la persona che si è nel presente, e poi la memoria delle azioni più semplici della vita quotidiana, mangiare, lavarsi, vestirsi. Come Angela, nella sola Palermo, e se si considerano tutte le forme di demenza, sono in 12 mila. 1 milione in Italia. 11 milioni in Europa. 44 milioni nel mondo.
Negli ultimi anni è diventato sempre più chiaro quali sono le reali dimensioni del problema. Con la popolazione che invecchia, si prevede che gli anziani con demenza, di cui l’Alzheimer costituisce due terzi dei casi, finiranno quasi per raddoppiare nel 2030 (quasi 90 milioni) e triplicare nel 2050 (135 milioni). Considerando che già oggi i costi per l’assistenza di questi malati sono paragonabili all’economia di una nazione come la Turchia, c’è da chiedersi come faranno i servizi sanitari a reggere l’urto di un simile tsunami. Per questo è iniziata la chiamata alle armi. La settimana mondiale del cervello in corso in questi giorni (fino al 16 marzo) è dedicata al declino della memoria e alle malattie che distruggono ricordi e identità. A Londra, lo scorso dicembre, si è tenuto il primo summit dei paesi del G8 sulla demenza, dopo gli appelli pressanti dell’Oms perché i governi organizzino piani nazionali: finanziando la ricerca e inventando forme di assistenza sostenibili economicamente.
In tutto questo, una nota positiva viene dalle ultime ricerche epidemiologiche: se è vero che il numero totale delle persone con Alzheimer continuerà a salire, perché gli anziani saranno sempre di più, il tasso di malati (l’incidenza) pare essersi stabilizzato. «È un segnale che guardiamo con interesse, ma a livello globale il problema resta» commenta Marco Trabucchi, esperto di demenze e presidente dell’Associazione italiana di psicogeriatria. Tutti i colossi farmaceutici hanno in cantiere sperimentazioni di farmaci per rallentare o fermare il decorso del morbo, ma finora non hanno dato gli esiti sperati. «E questo ha contribuito alla caduta di interesse nei confronti della malattia» aggiunge Trabucchi.
Si conosce il morbo da quando, nel 1906, il medico Alois Alzheimer trovò nel cervello di alcuni pazienti affetti da demenza strani agglomerati, identificati poi come le famose placche di proteina beta amiloide, il segno distintivo della malattia: si accumulano nel tessuto cerebrale e portano alla morte di milioni di neuroni.
Ed è proprio contro le placche che si concentra gran parte della ricerca. Una delle strade più battute è l’immunoterapia: in pratica, un vaccino contro la beta amiloide. Anni fa, alcuni anticorpi avevano dato risultati interessanti: in topi geneticamente modificati, le placche sparivano dal cervello. Ma quando si è tentato nell’uomo, non è andata bene. La sperimentazione fu sospesa perché c’erano gravi effetti collaterali e apparentemente nessun beneficio. Anche se poi, dall’autopsia di alcuni dei pazienti, si è visto che gli anticorpi avevano in effetti liberato il cervello dalle placche. «Questo risultato» spiega Gianluigi Forloni, responsabile del dipartimento di neuroscienze dell’Istituto Mario Negri a Milano, «ha fatto sì che l’idea del vaccino non venisse abbandonata, anche se ora si cercano metodi più sicuri da un punto di vista tossicologico ». Gli scienziati si sono convinti che il motivo dell’insuccesso sia che si interveniva troppo tardi, quando la malattia aveva ormai fatto danni. «Ora sappiamo che le placche si sviluppano anche dieci anni prima dei sintomi. La scommessa è partire prima con la cura» dice Forloni.
Non è semplice: senza sintomi, come identifico le persone che stanno sviluppando la malattia? E le placche sono segno sicuro di Alzheimer? Sono la causa del decadimento o un effetto di qualche altro meccanismo patologico? «Non lo sappiamo. È una malattia complessa, multifattoriale, forse oggi consideriamo uguali malati che invece hanno patologie diverse» continua Forloni. «Gli sforzi ora si concentrano nel capire, ai primi segnali di declino cognitivo, se si tratta o no di Alzheimer» dice Fabrizio Tagliavini, direttore del dipartimento di malattie neurodegenerative all’Istituto Besta di Milano, che sta conducendo un ampio studio sulla malattia, dalla diagnosi precoce all’assistenza per i malati. Una diagnosi davvero precoce potrebbe cambiare le cose e rendere più efficaci le terapie. Da alcuni anni sono state sintetizzate sostanze che, marcate con un tracciante radioattivo, identificano le placche di beta amiloide nel cervello di pazienti senza sintomi sottoposti a una Pet; una di queste (Amyvid) è stata ora approvata negli Stati Uniti per l’uso clinico. Un’altra strada è identificare «biomarcatori», molecole-spia della malattia in corso. Un passo avanti lo hanno fatto in questi giorni alla Georgetown University Medical Center a Washington, con una scoperta pubblicata su Nature Medicine: gli scienziati hanno messo a punto un test per individuare nel sangue un set di 10 composti lipidici che fanno che, se presenti, segnalano la forte probabilità di sviluppare una forma di demenza o l’Alzheimer nei due-tre anni successivi, con un’accuratezza pari al 90 per cento. «È il primo studio per la ricerca di biomarcatori nel sangue. È importante, anche se la casistica è ancora piccola e anche se resta da dimostrare che il test sia specifico per l’Alzheimer» osserva Tagliavini. Oggi, la ricerca di biomarcatori di Alzheimer viene fatta nel liquido cerebrospinale, esame che richiede una puntura lombare, e il test non è utilizzato di routine anche perché non dà risultati certi.
Tra le ultime sostanze identificate come possibili segnali della malattia, infine, ci sono gli oligomeri della beta amiloide: piccoli aggregati che sembrano molto più tossici della stessa proteina amiloide. Sono in corso importanti studi clinici per vedere se i pazienti a rischio (senza sintomi ma con tracce di placche nel cervello, o appartenenti a famiglie colpite da una forma ereditaria del morbo), beneficiano dei trattamenti già provati senza successo sui pazienti con malattia avanzata.
Si cominciano a capire meglio anche le basi genetiche della malattia. Nel 5 per cento dei casi si tratta di forme legate a mutazioni identificate: ricorrono all’interno di una famiglia e in genere colpiscono persone giovani, sui 50 anni. Negli altri casi, sono stati scoperti geni che aumentano il rischio. Per esempio, chi ha una specifica forma del gene che codifica per la proteina ApoE ha una probabilità tre volte più alta di avere l’Alzheimer in vecchiaia. Gli scienziati stanno identificando altri fattori genetici che contano meno, ma fanno salire il pericolo. Su migliaia di soggetti, per esempio, sono state identificate mutazioni su geni legati all’infiammazione, al trasporto cellulare e al sistema immunitario. «Ci sono geni che aumentano il rischio e altri che hanno effetto protettivo. Pesano anche i fattori ambientali. Se si arrivasse a conoscerli meglio si potrebbe fare un profilo di rischio personalizzato» osserva Tagliavini.
Oggi la diagnosi viene fatta ai primi sintomi, con test neuropsicologici. La trafila comprende di solito anche la Tac. Una risonanza magnetica può confermare se ci sono segni di atrofia o degenerazione del tessuto nervoso caratteristici della malattia, anche se nelle fasi iniziali spesso non si trovano. Poi ci sono i farmaci. Vengono prescritti inibitori della colinesterasi o la memantina, ma per la famiglia e il malato cambia poco: il peggioramento avviene un po’ più lentamente, ma la discesa è inarrestabile.
La priorità attuale è pensare all’assistenza e alla gestione dei malati. «Per questo, pur con tutta la retorica, iniziative come il G8 non sono una cattiva idea. C’è bisogno di progettare su scala globale» sostiene Tagliavini. Alcuni paesi lo stanno facendo con piani nazionali. In Italia siamo indietro. «Da noi, il malato passa attraverso le Uva, unità di valutazione Alzheimer: sono 500, la metà funziona bene» dice Trabucchi. Ma è necessario adeguarsi ai tempi. Il Besta ha coordinato uno studio pilota in tre distretti della Asl di Milano. «Sono stati stabiliti i criteri con cui il medico di famiglia può fare una valutazione del malato; ai medici è stato fatto un corso pratico sui test neuropsicologici di solito fatti dal neurologo; è stata creata una cartella clinica elettronica condivisa da tutti i medici che hanno a che fare con il paziente. Il metodo è stato esteso a tutta Milano, e si prevede di allargarlo in cinque altre regioni» dice Tagliavini.
È tempo di attrezzarsi prima che le cose diventino insostenibili. Finora si può parlare solo di prevenzione. Pare che qualcosa si possa fare, almeno per allontanare la malattia. Lo stile di vita (l’esercizio fisico e la dieta mediterranea) e l’impegno mentale riducono il rischio. I bilingui, per esempio, sembrano colpiti dalla malattia in media 4 o 5 anni più tardi degli altri. E imparare una lingua pare un utile esercizio anche per chi inizia tardi. Avere relazioni sociali e stimoli culturali è un fattore protettivo. Perfino fare le parole crociate. Di recente sono stati pubblicati i risultati dello studio più ampio mai effettuato in materia, su 2.800 persone, età media 74 anni. Chi impegnava la mente con quiz e cruciverba, a distanza di dieci anni era più lucido e con un cervello più «giovane» dei suoi coetanei.