Marco Travaglio, Il Fatto Quotidiano 13/3/2014, 13 marzo 2014
ROTTAMIAMO LE REGIONI
Una volta tanto, anche un gran rabdomante della pancia popolare come Beppe Grillo, che sa intercettare come pochi gli umori (non sempre profumatissimi) che salgono dalla “gente”, ha preso una cantonata. Il post dell’altro giorno sul suo blog, dedicato al nuovo fronte di guerra contro l’unita nazionale in nome di imprecisate “macroregioni” (non se ne sentiva parlare dai tempi di quel mattacchione di Gianfranco Miglio), o addirittura del ritorno alla Repubblica di Venezia e al Regno delle Due Sicilie (già allertati gli eredi dei Dogi e di Franceschiello), ha seminato più sconcerto e sarcasmo che interesse e apprezzamento. E, se lo scopo era quello di svuotare definitivamente il serbatoio ormai semivuoto della fu Lega Nord in vista delle elezioni europee, ha mancato clamorosamente l’obiettivo. Perché ormai del federalismo o del secessionismo non frega più nulla a nessuno. Neanche ai leghisti superstiti. Il mito del decentramento e delle autonomie locali, viste come panacea di tutti i mali d’Italia in quanto “più vicine” ai cittadini e quindi “più controllabili” dello Stato centrale è andato a farsi benedire da un bel po’: da quando gli scandali della malasanità (gli ospedali sono la principale competenza delle regioni) e delle ruberie sui rimborsi dei gruppi consiliari hanno messo in mutande (non solo verdi) le classi dirigenti regionali, facendo rimpiangere quella di Roma ladrona (che peraltro, dal Comune alla Regione Lazio, non s’è fatta mancare nulla). La più antica istituzione autonomista d’Italia è lo statuto speciale siciliano, con i risultati che tutti conoscono: una pletora di dipendenti di cui s’è perso financo il conto, spese incontrollabili, scandali di ogni genere e uno stuolo di presidenti condannati per ruberie e mafierie assortite. Un altro statuto speciale – forse l’unico che avrebbe un senso per la presenza di vere minoranze etnico-linguistiche – s’è appena aggiudicato il record nazionale della vergogna con consiglieri bolzanini del Freiheitlichen (gli indipendentisti tedeschi duri e puri) che si fanno rimborsare dai contribuenti persino 65 euro per un vibratore e altri utensili da sexy shop. E superano anche nel ridicolo, oltreché nello scandalo, le mutande verdi del piemontese Cota, le Red Bull del lumbard Trota, le aragoste e le amanti a pie’ di lista della giunta abruzzese di Chiodi (che vanta pure un “assessore al Termalismo” talmente dedito alla causa da spendere 550 euro per un weekend con la moglie all’Hotel Victoria Terme di Tivoli, utilissimo per “incontri prodromici all’attività termale in Abruzzo”, vagli a spiegare che Tivoli è in provincia di Roma, cioè nel Lazio). E ora, dopo vent’anni buttati a blaterare di “grandi riforme” inutili o dannose – dal premierato forte (che in realtà andrebbe un po’ indebolito, visti i danni che fanno i premier) alla separazione delle carriere di pm e giudici (e non di quelle fra politici e ladri) – anche un altro fiutatore di umori popolari come Renzi non trova di meglio che trasformare il Senato in Camera delle Regioni, mentre ignora la rabbia della gente per Rimborsopoli, infatti si tiene al governo le Barracciu, i De Caro e i De Filippo inquisiti proprio per quegli scandali. Nessuno osa ricordare che gli Usa hanno due Camere e non hanno mai avvertito l’esigenza di cancellarne una (anziché abolire il Senato, dovremmo dimezzare il numero e gli stipendi dei parlamentari, riducendo i costi a un quarto). Per il lodo Alfano (la porcata più porca della storia dei porcili) e la legge Fornero, il governo, la Camera, il Senato e il Colle impiegarono rispettivamente 20 e 16 giorni, mentre per l’Anticorruzione (peraltro seminulla) ne occorsero 1456: il vero guaio non è il bicameralismo perfetto, sono i partiti. E l’Italia non ha bisogno di più leggi, semmai di abrogarne qualche migliaio. L’idea poi di trasformare il Senato in un’ammucchiata di consiglieri regionali è quanto di più vecchio si possa immaginare: i consiglieri regionali vanno aboliti insieme alle regioni, e naturalmente alle province. È questa la vera, grande riforma. Infatti non ci pensa nessuno.