Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  marzo 13 Giovedì calendario

«NON SVELIAMO LE NOSTRE TECNOLOGIE»

Una domanda incombe ormai su Kuala Lumpur e sulle dieci nazioni impegnate da sabato nelle ricerche del Boeing 777 della Malaysia Airlines, scomparso mentre sorvolava il Mar cinese meridionale con 239 persone a bordo: perché dopo oltre cinque giorni, non solo il volo MH370 sembra inghiottito nel nulla, ma nemmeno emerge la minima idea di cosa possa essere successo? Le autorità malesi sono ora travolte da una tempesta di critiche e i primi ad alzare la voce sono stati i governi di Cina e Vietnam, giunti a minacciare di sospendere le indagini. L’accusa è di agire con lentezza, nel caos, diffondendo informazioni approssimative, o false. Da sabato all’alba, smentite e versioni contrastanti fornite da ministri, polizia e compagnia aerea non si contano più. Il paradosso è stato superato ieri dallo stesso premier malese, Najib Rezak.
ncalzato da parenti dei passeggeri, governi e opinione pubblica internazionale, sconcertati dal fatto che dopo oltre 120 ore dall’ultimo contatto radio le indagini siano al punto di partenza, il primo ministro ha invitato tutti a pregare e ad affidarsi ad Allah. «Dobbiamo avere pazienza — ha detto — pregare e affrontare con calma questa prova che ci è stata inviata da Allah».
Una resa ufficiale, mentre i suoi ministri smentivano anche l’ultima pista da essi stessi rivelata poche ore prima: il Boeing non è finito fuori rotta e non è stato intercettato a bassa quota sopra lo stretto di Malacca, a 500 miglia dal piano di volo verso Pechino. La Cina ha così alzato la voce, denunciando che «circolano troppe versioni e c’è troppa confusione per decidere se una notizia è accurata». Il ministro dei Trasporti malese ha respinto le critiche, ma non ha potuto evitare l’esplosione del caso. Kuala Lumpur ha consentito ad almeno due passeggeri dotati di passaporti rubati di imbarcarsi sul Boeing, circostanza che prima di rivelarsi secondaria ha fatto lanciare l’allarme terrorismo e perdere tre giorni agli investigatori, ma ancora non ha nemmeno definito l’ora e il luogo esatti dell’ultimo contatto dell’aereo con la torre di controllo. La Malaysia Airlines prima ha parlato di due ore dal decollo, poi di una, infine di 49 minuti. Le autorità hanno prima assicurato che i radar militari avevano registrato un’inversione di rotta, al confine tra gli spazi aerei di Malesia e Vietnam, poi hanno corretto dicendo che si tratta solo di «un’ipotesi non escludibile». Qualche minuto, oltre quota 10 mila metri e ad una velocità di mille chilometri all’ora, significa spostare il Boeing sulla mappa di uno spazio immenso. L’ambasciatore malese a Pechino, quasi aggredito fisicamente dai parenti dei dispersi chiusi in un hotel da cinque giorni, ha ammesso che tutto ciò che si conosce sono le ultime parole del comandante del Boeing: «Tutto bene — ha detto Zaharie Hamad Shah prima di scomparire — buonanotte».
Un’impotenza tale che da ieri l’area delle ricerche va dallo stretto di Malacca, nel Mar cinese meridionale, fino al Mare delle Andamane, nell’Oceano Indiano, dalle montagne di Sumatra alle coste di Myanmar. Oltre 96 mila chilometri quadrati, come dire che l’aereo scomparso può essere ovunque, sul fondo del mare o nella giungla. La Malaysia Airlines è stata anche costretta ad aprire un’inchiesta sul vicecomandante del Boeing, accusato di aver accolto due donne in cabina durante un volo di due anni fa, mentre gli Usa rivelano che mesi fa l’aereo aveva palesato problemi di pressione, che potrebbero averlo spezzato in aria.
Errore umano, malore, o leggerezza da parte dell’equipaggio sono però le possibilità più analizzate di un enigma senza precedenti, mentre cresce l’allarme su un inquietante scontro tra potenze militari e servizi segreti di Paesi concorrenti. Eserciti e intelligence, grazie a satelliti spia, radar, segnali radio, campi telefonici e aerei invisibili, sarebbero nelle condizioni di localizzare il Boeing, ma pagando il prezzo di rivelare al mondo il possesso di tecnologie tenute riservate. Cina e Usa, ma pure India e Giappone, uniti ieri nelle operazioni, certi di non poter più salvare vite umane, preferirebbero ritardare la soluzione del giallo, piuttosto che scoprire dotazioni militari segrete. Uno scontro di spie e industrie belliche dentro una tragedia che ha svelato la vulnerabilità dell’onnipotenza hi-tech dell’aviazione civile, ma pure l’incubo del traffico globale di migliaia di documenti falsi, rubati o venduti, acquistabili con pochi spiccioli in tutto il Sudest asiatico.
Per sperare di capire cosa è successo sul volo MH370, le scatole nere concedono trenta giorni. Dopo, il mistero consegnato all’eternità sarà quasi certo: soluzione cinicamente carica di enormi interessi.